Associazioni datoriali e imprese del terziario ad un passo dal possibile rinnovo del contratto nazionale

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Ormai ci dovremmo essere. Ai primi di giugno ISTAT darà il dato di conguaglio IPCA 2022 (indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea). L’effetto di quel dato preoccupa le imprese che applicano il CCNL del terziario e della GDO per le conseguenze inevitabili sul costo del lavoro in un momento di forte tensione dovuto alla ripresa inflazionistica e alle conseguenze sui livelli di  consumo. Non traggano in inganno i fatturati gonfiati dall’inflazione. Un rinnovo di CCNL guarda necessariamente al futuro, ai prossimi 4 anni. E la storia è  ancora tutta da scrivere. La liturgia e la prassi delle relazioni sindacali non prevedono cambiamenti né adattamenti  al contesto. Al massimo ritardi applicativi. O come nel caso dei fornitori sconti e promozioni. Eppure la logica suggerirebbe una maggiore cautela sugli impegni economici da concordare in tempi di inflazione. I contratti, sindacali o meno, sono impegni economici le cui modalità di erogazione andrebbero modellati sul contesto. Non viceversa. Ma questo presuppone un salto di qualità che non è nelle corde dei giocatori in campo. Ciascuno cerca di difendere come può il proprio perimetro di riferimento.

L’incontro delle delegazioni al massimo livello prevista per i prossimi giorni ha questo scopo. Valutare la possibilità o meno di un affondo conclusivo. Sarebbe sbagliato non auspicare una conclusione. L‘Accelerazione  dovrebbe portare alla firma del contratto nazionale del terziario trascinando in un destino analogo gli altri tre contratti nazionali che ruotano intorno a quello firmato da Confcommercio applicato ad oltre 2 milioni ed 800 mila addetti. L’ultimo contratto nazionale firmato nel 2015 è scaduto  nel 2019. Il 12 dicembre 2022, le diverse associazioni datoriali (Confcommercio, Federdistribuzione, Confesercenti, Coop) hanno sottoscritto un protocollo di settore con i sindacati di categoria Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs definendo una tantum di 350 euro e un acconto di 30 euro sui futuri aumenti contrattuali a partire da aprile 2023. Un piccolo passo in avanti. Molte aziende oggi spingono per chiudere la partita.

L’accordo è maturo e non sono utili a nessuno i giochi di ruolo  delle diverse associazioni per segnare i rispettivi campi da gioco. C’è un convitato di pietra al tavolo per ora ancora circoscritto: i cosiddetti “contratti pirata” che vengono spesso evocati dall’associazionismo di impresa e dai sindacati come nelle sedute spiritiche ma che, concretamente, nessuno sembra intenzionato ad affrontare sul serio.

Facciamo chiarezza.

Con il termine “contratti pirata” si intendono contratti collettivi sottoscritti da sindacati minoritari e associazioni imprenditoriali, a volte poco rappresentative, con l’obiettivo di costituire un’alternativa ai contratti collettivi nazionali siglati dalle organizzazioni più rappresentative. L’uso del termine “pirata” deriva dal fatto che tali contratti prevedono condizioni normative ed economiche inferiori rispetto a quelli siglati dai sindacati confederali (ad esempio retribuzioni minime inferiori; un minor numero di ferie o permessi, etc). Se volessimo essere pignoli anche i due contratti nazionali , firmati a suo tempo, da Confesercenti e Federdistribuzione con gli stessi sindacati confederali in dumping a quello di Confcommercio potrebbero essere definiti essi stessi una forma di contrattazione “pirata”  per attrarre associati. Ma tant’è. Arrivare a questo punto della vicenda non conviene a nessuno  sottilizzare. 

Tra gli indubbi svantaggi che l’applicazione di tali contratti in dumping sta portando è che si determina una proliferazione dei contratti collettivi. Pirata o meno. Visti dal versante dell’impresa, soprattutto quella piccola e media, “rappresentano la reazione adattiva di un sistema a basso valore aggiunto all’imposizione di continui oneri” come ha scritto recentemente  Mario Seminerio. Per uscirne non basterebbe certo prendersela con  i reprobi. Occorrerebbe, oltre ad un intervento deciso sul costo del lavoro e sulle normative, una legge che certifichi il peso degli aspiranti firmatari e quindi  chi debba essere titolare della contrattazione di categoria.

Ma se fosse così, i 3 contratti firmati da Confesercenti, Federdistribuzione e Confcommercio, che coprono in parte  lo stesso perimetro, come verrebbero “pesati”?  E, aggiungo, Confcommercio, ad esempio,  sarebbe disponibile ad accettare la richiesta di trasparenza prevista sul numero dei suoi  associati nei singoli sottosettori  e delle sue entrate economiche? Soprattutto da quelle provenienti da sottosettori che non si riconoscono nella confederazione di Piazza Belli. Ad oggi nulla è chiaro. Quindi la cosiddetta contrattazione “ pirata”, senza alcun intervento, rischia di proseguire il suo cammino  come prima. Anzi. Tenderà ad ampliare il suo raggio di azione. Sopratutto quando le insegne  operanti  sullo stesso territorio e alle prese con costi crescenti si trovassero ad applicare contratti di lavoro con differenze di costo anche superiori al 15%….

Aggiungo una nota di colore. Per dimostrare di saper gestire  i “malpancisti”  presenti nelle delegazioni di alcune  associazioni datoriali al tavolo negoziale,  Confcommercio  ha  provato  la classica mossa del cavallo: scavalcare i contratti pirata intervenendo in pejus su diritti e tutele del CCNL in rinnovo, in cambio dell’aumento salariale. Un rilancio inutile che più che accontentare i duri del negoziato rischia di trasformarsi, oltre che in una provocazione nei confronti del sindacato, in  un endorsement formale alla bravura dei consulenti del lavoro che, nei territori, si ingegnano a rielaborare i contenuti del CCNL abbassandone le coperture.

Criticare i contratti pirata e mettersi contemporaneamente la benda all’occhio e l’uncino per fingere di  “spaventare” i sindacati non credo sia particolarmente  saggio a questo punto del negoziato. A meno che non si tratti della classica furbata finale per gestire i riottosi seduti al proprio fianco. Vedremo presto se si è trattato del classico ballon d’essai fine a sé stesso da parte di chi tira le fila del negoziato o di una scelta consapevole foriera di conseguenze negative sull’esito finale.

Pur non essendo questo un rinnovo che verrà ricordato dai posteri per i contenuti innovativi, visto il contesto,  i margini per chiudere ci potrebbero essere.  Innanzitutto il sindacato ha ottenuto un primo risultato: il negoziato procede parallelamente con tutte le associazioni coinvolte come fosse lo stesso tavolo. Non è un risultato da poco. È, di fatto, un  passo importante che certifica l’impossibilità di riproporre  fughe in avanti come è avvenuto in passato. Approfittando del recente decreto lavoro, le parti potrebbero lavorare, ad esempio, sulle causali del lavoro a termine e definendo modalità e tranche dell’aumento salariale da spalmare sulla durata del nuovo CCNL.

Così come per alcuni articoli del contratto stesso che si sono usurati nel tempo e sui quali diversi aggiustamenti sono possibili senza alterarne gli equilibri.  e poi ci sarebbero da introdurre sperimentazioni sulle nuove tendenze e professionalità del lavoro nel terziario. Senza dimenticare  i quadri aziendali che in questi anni hanno visto crescere la professionalità richiesta, l’impegno  e il contributo al risultato aziendale. Per il sindacato non si prospetta comunque una partita facile. La pressione salariale sta salendo dal basso  così come le tensioni tra i sindacati potrebbero introdurre variabili imprevedibili allo stesso negoziato. Lo stesso vale per le aziende della GDO che stanno esaurendo tutti gli strumenti messi in campo per tenere sotto controllo il costo del lavoro e che guardano con preoccupazione gli anni di vigenza del nuovo CCNL.

È una partita molto delicata ma che è interesse comune chiudere presto. Non solo nel commercio e nel terziario. Quasi 7 milioni di persone su un totale di 12,8 milioni nel nostro Paese sono senza contratto nazionale rinnovato. Tre milioni gli addetti e le addette di turismo, commercio e ristorazione. Il contratto della vigilanza, è scaduto da sette anni. 591contratti nazionali scaduti al 31 dicembre del 2022. Mentre il costo della vita è in costante aumento, gli stipendi degli italiani non solo non seguono l’incremento dell’inflazione ma addirittura sono scesi nel tempo complice la stagnazione di PIL e della produttività. E questa situazione, se non governata, non promette nulla di buono. A questo punto del percorso non c’è alternativa all’accordo. Alla GDO verrebbe addebitata la responsabilità, oltre a quella strumentale del “caro carrello” pure quella di “irresponsabilità sociale”. Un disastro sul piano dell’immagine pubblica. C’è un vecchio proverbio ebraico che recita: “l’unico ostacolo al compromesso è un po’ di buona volontà”. Questo è il momento di dimostrarla.

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