Se il mismatch tra offerta e domanda di lavoro cambia segno…

Gli anni della crisi e delle ristrutturazioni aziendali hanno portato con sé un mismatch tra offerta e domanda di lavoro di segno opposto a quello lamentato oggi. Bisogna essere obiettivi.

La scuola è stata abbandonata al suo destino, il rapporto tra giovani e imprese si è ridotto ad un problema di costo e, spesso, di mero sfruttamento, gli espulsi dal lavoro oggetto di dumping salariale.

Oggi sembra che qualcosa stia cambiando in profondità. Si è ritornato a parlare di centralità delle risorse umane nei contratti nazionali, di alternanza scuola lavoro, di formazione e di politiche attive.

Confindustria lancia l’allarme e chiede di estendere il più possibile i benefici per le assunzioni dei giovani, le imprese manifatturiere lamentano con sempre maggiore insistenza la difficoltà a reclutare laureati in materie scientifiche. Molti giornali si lanciano in campagne a sostegno delle cosiddette lauree utili.

Occorre rimettere in moto un meccanismo che si è inceppato. Evitando, però, inutili manicheismi. È vero, mancano molte figure professionali richieste dal mercato.

Nel commercio, nel turismo, nei servizi alle imprese, nei settori più innovativi. Mettiamo però in fila i problemi. Prendersela con la la qualità in sé di una laurea piuttosto che favorire la crescita di percorsi interdisciplinari è un errore in un Paese che rappresenta, in questo campo, il fanalino di coda in Europa.

Sui giovani in azienda non è sufficiente chiedere sgravi contributivi. Occorre prevedere opportunità di inserimento che valorizzino le attitudini e l’esperienza scolastica. Al cambiamento culturale necessario nelle imprese i giovani potrebbero dare molto se non venissero immediatamente risucchiati dalle logiche e dalle dinamiche tradizionali.

È la collaborazione tra culture e generazioni diverse che può arricchire il mondo dell’impresa e prepararlo alla sfida della competizione globale. Se il messaggio che verrà  fatto passare sarà che assumere giovani è solo conveniente, come pensiamo si comportino le imprese?

Così come occorre lavorare sul versante culturale e sociale per i senior che dovranno rimanere in azienda per lungo tempo e che l’attuale cultura nelle imprese considera sostanzialmente “vecchi” e non recuperabili, lo stesso lavoro andrà fatto sul versante dei giovani, sul loro potenziale contributo e sulla loro capacità di portare nell’impresa un originale valore aggiunto. Ma questo lavoro va condiviso  dagli imprenditori e dai manager. Non solo rappresentato sui giornali.

Negli anni della crisi, “giovane” è stato sinonimo di “tappabuchi” come “anziano” di “esubero potenziale”. Questo è il punto da cui partire. Il mismatch non si risolve invitando i giovani ad iscriversi a ingegneria o a matematica se non hanno quelle vocazioni!

Si risolve innanzitutto ridando valore all’impegno e allo studio, avvicinando i due mondi, rispettando il contributo che i più giovani possono portare in azienda e favorendo tutte le forme di tutoraggio, affiancamento e scambio di esperienze tra generazioni differenti.

Ne guadagnerà il mondo delle imprese e quindi anche il Paese.

Lavoretti e lavoro, un dualismo sempre più inevitabile

Forse perché ha riguardato sia i professori che i nostri figli ma a nessuno era mai venuto in mente di regolare contrattualmente le “ripetizioni”.

Un fenomeno che negli anni 60 e 70 ha consentito ad una intera categoria professionale di acquistare immobili e di godere di un reddito ben superiore allo stipendio pubblico. Era gig economy ante litteram. C’era però il “nero”.

Siamo dovuti arrivare alla disfida dei voucher per capire quanto sia purtroppo facile tornare indietro. I giuslavoristi, nel frattempo, continuano a interrogarsi su come riportare il fenomeno ad una natura codificabile.

Non è certamente lavoro dipendente quindi nessuno ha convenienza a comprenderlo nei contratti nazionali. Neanche ai sindacati. Basti pensare all’effetto dumping che produrrebbe nel mondo dei servizi. In altri Paesi hanno trovato alcuni parziali compromessi forse resi possibili dal livello di business raggiunto e dalle conseguenti economie di scala realizzabili.

Società che intermediano questa offerta e assicurano minime forme di welfare credo abbisognino di masse critiche che da noi non ci sono ancora. E queste società, pur presenti in Italia, stentano a svilupparsi, credo, proprio per la ancora modesta dimensione del fenomeno. Sinceramente non so se sia questa la soluzione da percorrere.

La destrutturazione del lavoro dipendente e autonomo sta procedendo a tappe forzate nella realtà, senza indicare una vera e propria direzione di marcia. Stiamo andando oltre i modelli che abbiamo conosciuto nel 900. Ad esempio cosa ha di diverso il lavoro autonomo di seconda e di terza generazione, in termini di reddito, da un veterinario, un avvocato o un giovane professionista che arrivano a guadagnare 1200 euro lorde al mese spesso oltre i quarant’anni?

E anche nel lavoro dipendente l’intermittenza delle attività e la loro consistenza reddituale stanno determinando uno scenario sempre più evidente dove non sarà la tipologia del rapporto ad essere rilevante ma forse la capacità di costruirsi un reddito da più fonti. E così, parallelamente a opportunità di lavoro gratificanti e riconosciute socialmente in tutti i Paesi si consoliderà una vasta area di lavori accessori sia dipendenti che autonomi che ne risentiranno però allo stesso modo in termini di durata, retribuzione e contenuti.

È la storia del dito e della luna. Oggi l’attenzione è concentrata quasi esclusivamente su come rendere “più simili” al modello di inquadramento e di welfare conosciuti i nuovi lavori. Pochi  riflettono sul fatto che questa destrutturazione porterà con sé, inevitabilmente, la necessità di modificare e rimodellare il lavoro tradizionale ibridandolo e rimettendolo in discussione.

I segnali ci sono tutti. Sarà la velocità del cambiamento a determinare la gravità o meno delle conseguenze. E questo è un fenomeno che dovrebbe essere governato.

L’innovazione tecnologica e organizzativa non mettono in discussione solo i luoghi e i tempi di lavoro. Necessitano inevitabilmente forti investimenti in cultura, formazione e personalizzazione. I modelli contrattuali tradizionali prevedono tutt’altro favorendo, più o meno inconsapevolmente, una forma di disintermediazione che in passato era marginale ma che sta, via via, aumentando di peso specifico.

Fino a quando il dibattito tra addetti ai lavori si limiterà a discutere di luoghi della contrattazione e di manutenzione dell’esistente continuerà a non cogliere i temi veri e manterrà una sostanziale subalternità al cambiamento in atto.

Basterebbe notare quante volte in azienda un lavoratore all’interno di percorsi innovativi ha la necessità di leggere il contratto di lavoro. E, altrettanto, quante volte un responsabile delle Risorse Umane deve farlo per gestirne lo sviluppo professionale.

Il ridisegno del lavoro deve partire da ciò che ha un senso collettivo generale (diritti, doveri, minimi contrattuali, welfare) e ciò che ha senso in azienda o nel rapporto esclusivo tra le parti. E se il clima necessario a definire questo percorso deve essere di natura collaborativa o basarsi esclusivamente sui rapporti di forza.

La linea di confine tra i cosiddetti lavoretti che si moltiplicheranno dentro e fuori dal perimetro aziendale e lavoro tradizionale, passa da qui. Così come la loro codificazione e il loro riconoscimento.

Il futuro del retail è già qui…

“Due giovani pesci nuotano uno vicino all’altro. Improvvisamente incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice: “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua? I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e poi uno si ferma e chiede all’altro: “che cavolo è l’acqua?”

Personalmente non ho trovato nulla di più appropriato di questa metafora, proposta dallo scrittore americano David Foster Wallace, per riflettere su ciò che diamo per scontato, addirittura necessario per sopravvivere, ma che scontato non è: il futuro del lavoro nella Grande Distribuzione.

È indubbio che l’aria è cambiata. Presidiare il mercato limitandosi a nuovi insediamenti, ad aumentare le superfici, spingere con le promozioni e continuando semplicemente a ridurre i costi non funziona più. Oggi è sempre più strategico il cliente.

A parole lo è sempre stato ma adesso diventa la vera chiave di volta. La semplicità e la rapidità di acquisto, gli orari e le giornate di apertura, la competizione con le vendite on line fanno sempre più il paio con la qualità dei prodotti offerti, la loro convenienza, la motivazione all’acquisto, i desideri espressi o in divenire.

Per le aziende del settore diventa sempre più centrale la capacità di sviluppare una relazione duratura con il proprio cliente sempre più “infedele”. Questo riorientamento però non è facile. Ci sono format superati quindi in crisi, modelli organizzativi molto tradizionali, una contrattualistica sindacale sostanzialmente fordista e addetti che spesso individuano nel cliente un “nemico”, poco convinti, pur da ingenti programmi formativi, a cambiare punto di osservazione, accettandone la nuova centralità.

Poi ci sono le aziende dove i delegati sindacali e i rispettivi sindacati esterni di riferimento hanno in mente modelli organizzativi e rigidità d’altri tempi autoescludendosi così da qualsiasi ruolo concreto e propositivo. Oppure, come nella cooperazione, dove da protagonisti negativi, si impegnano a frenarne la competitività in rapporto alle altre realtà concorrenti del settore.

Recentemente è uscita una pubblicazione americana “Technology at work 3.0” che fa il punto sui rischi per l’occupazione futura in questo comparto economico. Punti vendita senza casse, centro di smistamento prodotti e consegna a domicilio robotizzati e terziarizzati, integrazione on line off line, trasformazioni dei layout, fanno pensare ad un settore che subirà un forte ridimensionamento occupazionale. Un po’ come le banche.

Lo studio azzarda un dato sicuramente eccessivo quando accenna ad un futuro del settore con più o meno l’80% dei posti a rischio. Forse più della quantità dei posti di lavoro è la possibile velocità del cambiamento che potrà creare problemi. Soprattutto se tutto questo dovesse avvenire in pochi anni quindi coinvolgendo i lavoratori più anziani, quelli meno disponibili al cambiamento. E soprattutto questo provoca il venir meno di posti di lavoro a disposizione di lavoratori con livelli di studio e provenienza geografica, differenti.

È vero però, come sostiene Andrea Garnero economista OCSE, che “se negli anni scorsi abbiamo imparato a conoscere i perdenti della globalizzazione, nei prossimi anni conosceremo i perdenti della tecnologia”. Personalmente credo che su questo occorrerebbe riflettere.

Come si può affrontare, accompagnandola, questa probabile situazione? Innanzitutto smettendola con le battaglie di retroguardia. Tipo quelle contro le aperture festive. Ininfluenti sul piano pratico relegano tutto il sindacato di categoria in una posizione subalterna e poco credibile come interlocutore nel settore. Anche per gli stessi lavoratori. O quelli che aspirano ad esserlo pur, per necessità, con contratti ridotti. Tra l’altro come può ritrovarsi, il sindacato, a concordare quel tipo di lavoro nelle singole aziende ed essere contro a livello generale resta, per me, un mistero inspiegabile. Così come mettere contro lavoratori con l’obbligo della prestazione con altri esonerati perché assunti in un periodo precedente. Una ripartizione su più persone renderebbe meno pesante il carico festivo per tutti.

Le aperture domenicali, festive e h24 sono ormai strutturali e richieste dai consumatori. Non tanto e non solo perché on line si può comprare sempre ma perché laddove le aperture vengono gestite con buonsenso si raggiungono accordi su una gestione meno rigida con benefici per l’occupazione.

E questo consentirebbe di riprendere un confronto a livello istituzionale, oggi fermo, per trovare soluzioni nell’interesse delle imprese di ogni dimensione e degli stessi lavoratori. Uscire da una logica di contrapposizione sul “nulla” aiuterebbe a riprendere il filo della contrattazione di comparto.

La situazione attuale che vede lavoratori coperti da un contratto nazionale e altri in balia degli eventi con tranche anticipate unilateralmente, non può durare a lungo. Federdistribuzione non è riuscita a chiudere il proprio contratto nazionale perché non ha alcun senso aggiungere un altro ai tre già utilizzati dalle imprese. I sindacati, unitariamente, lo hanno ormai capito benissimo.

Però, molte delle esigenze manifestate, sono assolutamente legittime e andrebbero riprese pur all’interno della contrattazione nazionale in essere che consente deroghe, aggiustamenti, specificità, costi e modalità di corresponsione.

Lo stesso Ministero del Lavoro dovrebbe lavorare in questa direzione più che fingere di non vedere una situazione senza sbocco. Così come approfittarsi della debolezza del sindacato di settore per non procedere ad alcun rinnovo è un azzardo che potrebbe rivelarsi controproducente per le imprese del settore. Soprattutto in una fase di riorganizzazione profonda con le prospettive di cui abbiamo accennato sopra.

Fino a quando è legittimo chiedere al sindacato di “Cantare e portare la croce” come lo è spesso per “gli uomini che sanno celare il dolore dietro un indulgente e rassegnato sorriso”?

Forse è arrivato il momento di parlarsi tutti e sul serio e guardare avanti. Insieme. Non limitandosi a ribadire il proprio punto di vista come, purtroppo, è avvenuto fino ad oggi.

Lavoratori ex Almaviva. Una chance per voltare pagina…

Giusta la scelta di procedere a fari spenti però c’è sicuramente chi sta sottovalutando la vicenda Almaviva. La sua particolarità è evidente.

Da lì, oltre al ricollocamento o meno dei lavoratori coinvolti, passerà anche un giudizio sulla nascente ANPAL, sul suo ruolo e sulla sua efficacia nella gestione e nell’indirizzo delle politiche attive nel nostro Paese.

In una vicenda così complessa e difficile vista la composizione degli addetti e l’area individuata per lo scouting, è interesse di tutti gli attori in gioco sostenerli e concorrere a individuare tutte le soluzioni possibili.

Personalmente sono rimasto sorpreso della serietà e dell’impegno dei lavoratori coinvolti ad andare fino in fondo. Non c’è voglia da parte loro di reddito garantito dalla NASPI. C’è voglia di lavoro. E questa è una importante novità.

Ho ricevuto diversi stimoli da alcuni di loro dopo il mio intervento nei giorni scorsi. Persone, credo, già ricollocate e altre che sperano in una rapida ricollocazione.

Lavoratori maturi che hanno condiviso quanto ho scritto, il senso di solitudine, la necessità che venga sostenuto il lavoro che stanno facendo per ricollocarsi, l’impegno e la convinzione che l’Anpal ci sta mettendo, le difficoltà che incontrano nei colloqui proprio a causa della loro provenienza.

Innanzitutto va detto che questo dimostra che il lavoro è impostato bene. I lavoratori, almeno per quello che ricavo dai loro stessi interventi si impegnano, si mettono in gioco e vogliono ricollocarsi sul serio. È gente determinata che non va delusa.

Lamentano un dato importante: l’essere stati sotto i riflettori non li aiuta nei colloqui. Non a caso ieri facevo riferimento agli anni 80 e alle difficoltà di ricollocamento dei lavoratori UNIDAL (ex Motta e Alemagna) e Alfa Romeo sul territorio milanese.

Forse un’opera di sostegno da parte delle associazioni datoriali potrebbe contribuire a tranquillizzare gli imprenditori locali spaventati dalla vicenda Almaviva e agli effetti che può avere avuto sui singoli.

Forse occorrerà studiare anche incentivi specifici. Soprattutto per chi vuole mettersi in proprio.

Però una cosa è certa. Stanno tutti lavorando con lo spirito giusto.

I lavoratori ex Almaviva tra passato e futuro.

Che il caso Almaviva si concluda positivamente dovrebbe essere obiettivo e interesse di tutti. Resta sul tavolo un equivoco di fondo percepibile dalle interviste sul campo e da non alimentare assolutamente.

L’idea cioè che possa trovarsi, per tutti, un lavoro analogo al precedente in termini di sicurezza, durata e tipologia. Sicurezza, durata e tipologia peraltro già venuti meno a causa del licenziamento.

Ribadire, come fa qualcuno sul territorio, che il mercato del lavoro locale non sarà in grado di assorbire le persone con contratti stabili non solo è inutile ma rischia di essere controproducente. Non aiuta la soluzione ma, addirittura, la complica perché spinge i lavoratori a rifiutare qualsiasi proposta.

Lo status del lavoratore ex Almaviva è quello di un disoccupato che rischia di perdere la NASPI tra pochi mesi quindi la sua possibilità di scelta è tra un lavoro accettabile o disoccupazione certa.

E l’accettabilità di un lavoro deve essere definita non in astratto (come spesso fanno gli accordi sindacali) ma in relazione al mercato del lavoro su cui si intende operare uno scouting efficace. Se esistono oggettive difficoltà di inserimento o si amplia il territorio di ricerca o si percorrono le soluzioni possibili.

Non si risponde alle difficoltà facendo intendere, tra le righe, che la NASPI, in determinati contesti, dovrebbe durare oltre il lecito. Aggiungo che non c’è cosa peggiore che “marcare” questi lavoratori, agli occhi delle imprese del territorio scelto, come reticenti all’impiego perché questo li renderebbe veramente non collocabili. Chiunque abbia vissuto il caso UNIDAL o il caso Alfa Romeo a Milano può immaginare a cosa mi riferisco.

Parlare di “calvario dei colloqui” o di precarietà delle soluzioni proposte come ha fatto il titolista di “Repubblica” è un errore. Illude i protagonisti di essere comunque in credito ma raffredda e allontana chi potrebbe offrire soluzioni.

Chi ha necessità di assumere si muove con cautela. Soprattutto di fronte a candidati che sono, volenti o nolenti, sotto i riflettori. Le possibili soluzioni si individuano, una per una e  a “fari spenti”. Se l’obiettivo di tutti è il lavoro, le parti stipulanti l’accordo di gestione degli esuberi devono impegnarsi per evitare strumentalizzazioni ma anche interpretazioni troppo rigide che rischiano di favorire indecisioni, rinvii di scelte, confronti inutili con colleghi magari più spendibili in un colloquio di lavoro.

Tutti atteggiamenti legittimi ma inutili in un mercato difficile. L’esperienza maturata fino ad oggi, i colloqui effettuati, i possibili ritardi accumulati dovrebbero essere oggetto di un “tagliando” dell’accordo che ridefinisca i termini della questione sgomberando il campo da una serie di equivoci e rigidità che, se non rimossi, non aiuteranno a risolvere definitivamente il problema. L’incontro tra domanda e offerta deve essere trasparente, coerente con il mercato e concreto.

Considerare i lavoratori ex Almaviva una categoria a sé stante e non singoli lavoratori da reimpiegare, generalizzare alcune condizioni familiari difficili o forzare guidizi sulle tipologie di impieghi proposti fino ad oggi, fa un cattivo servizio, non solo a quei lavoratori ma all’insieme di un progetto che presuppone un cambiamento culturale.

Certo non si può chiedere ad un’impresa che deve assumere di derogare dalle proprie impostazioni però si potrebbero predisporre strumenti (incentivi, distacchi, reversibilità) a suo vantaggio.

Così come, sul versante dei singoli lavoratori, trovando il modo di valorizzarne le decisioni in termini di apprendimento di nuove attività e di consolidamento del CV. Nel caso di apertura a scelte “imprenditoriali” dei singoli supportando questa disponibilità nella fase di start up con esperti del business individuato. Credo che, su questo, le associazioni dei dirigenti di azienda con le loro reti professionali potrebbero dare una mano concreta.

Ad oggi, i lavoratori ex Almaviva, hanno dato una importante risposta positiva di disponibilità che segnala una volontà di rimettersi in gioco. Non è un segnale da poco.

Certo, i problemi cominciano ora. Ma questo era noto a tutti i firmatari dell’accordo. L’importante è che nessuno si sfili alle prime scontate difficoltà o cavalchi tensioni e preoccupazioni per ritornare, più o meno inconsapevolmente, al punto di partenza.

Se vogliamo che si affermi una cultura diversa non ce lo possiamo permettere.

Politiche attive, risorse ed efficienza sono fondamentali ma non bastano

I telefilm polizieschi tedeschi ci presentano quotidianamente una Germania non troppo dissimile dall’Italia. Tra il commissario Voss e Montalbano è solo la latitudine a renderli diversi. Non l’arguzia e la rapidità con cui risolvono i casi più complicati.

Una recente serie su RAI 2 (Ultima traccia: Berlino) ha proposto un episodio (Ostaggi) dove si racconta il dramma di un disoccupato alla ricerca di un lavoro. Tema, anche in Germania, di grande attualità.

In un ufficio di collocamento pubblico (Arbeitsamt) tra proposte di inutili corsi di formazione studiati più per soddisfare i formatori e speranze deluse dei partecipanti, atteggiamenti burocratici e piccole miserie degli impiegati addetti, si sviluppa un storia assolutamente credibile. Potrebbe essere proposta ovunque.

A parte la trama forzata per condensare, in venti minuti, una storia, l’epilogo drammatico tra sequestro degli addetti e morte del disoccupato stesso, il racconto mostra uno spaccato interessante perché propone una realtà ben diversa da quella suggerita, da chi vorrebbe presentare il sistema tedesco solo come un esempio di efficienza, organizzazione e di razionalità teutonica anche nel campo delle politiche attive.

Corsi di formazione inutilizzabili, atteggiamenti discutibili dei ricollocatori, scarso rispetto per le persone proprio nel momento più esposto sul piano psicologico, assurdi formalismi burocratici. Certo, si tratta solo di un telefilm. Però non è fantascienza.

Rappresenta la cruda realtà vista dal punto di osservazione di chi entra in quegli uffici per usufruire del servizio. Non di chi lo gestisce. 

Non è l’efficienza la sola caratteristica da ricercare o da imitare in queste strutture e per queste attività quanto l’efficacia. Il lavoratore, quando entra in una situazione di disagio perde ogni punto di riferimento e non bastano comunicazioni rassicuranti, impegni politici, risorse adeguate e impiegati efficienti. Occorrono persone che sappiano ascoltare e capire. E luoghi adatti a renderlo possibile.

Anche per questa impersonalità  l’assegno di ricollocazione pur decollato da poco, rischia un serio flop. Le ultime notizie di stampa dicono che il 90% di coloro che hanno i requisiti, e quindi hanno ricevuto una lettera, ha deciso di non proporsi.

Le due esperienze più importanti alle quali ho partecipato riguardano una operazione di ricollocamento in un’azienda industriale gestito con il sindacato di categoria (1400 persone coinvolte) e una gestita, sull’intero comparto del terziario di mercato dal sindacato dirigenti Manageritalia (circa 1200 dirigenti). In entrambi i casi la presenza attiva e propositiva del sindacato si è rivelata una scelta assolutamente fondamentale.

Nel primo caso l’impegno diretto dell’azienda che dichiarava gli esuberi, si è rivelata una scelta vincente. Nel secondo, trattandosi di dirigenti, condividere, con i colleghi di altre aziende, obiettivi e metodologie ha funzionato ben oltre le performance dell’outplacement classico.  Qui sta il punto vero. C’è sicuramente un problema di risorse pubbliche da mettere a disposizione e di organizzazione delle politiche attive ma resta da affrontare il livello di corresponsabilità nel percorso di soluzione delle aziende e del sindacato che spesso concordano il numero degli esuberi ma che poi si fermano lì. Non condividono neanche la fase iniziale del percorso di ricollocamento.  E proprio nel momento più delicato.

Una persona espulsa dal “suo” posto di lavoro, convinta di essere stata scaricata da tutti, non è in grado di reagire immediatamente. Pensa ad una nuova fregatura. Per questo l’azienda che dichiara esuberi dovrebbe assumersi delle responsabilità almeno nella gestione della prima fase di uscita dei propri collaboratori. Non solo sul piano economico.

Così come il sindacato che ha sottoscritto l’accordo. In un sistema efficace e moderno queste responsabilità andrebbero inizialmente gestite insieme. Istituzioni, azienda e sindacati.

Nella grande impresa, direttamente dalle parti firmatarie mentre nella piccola si potrebbe intervenire, almeno nelle fasi iniziali propedeutiche all’outplacement, anche attraverso un  supporto della bilateralità. Questo flop (forse) è salutare. Servirà  non solo all’ANPAL per prendere le misure di un problema nuovo.

In Germania come in Italia chi perde il lavoro deve essere aiutato immediatamente  a ritrovare una fiducia in sé stesso e una volontà di ricominciare che si manifesta solo se gestita condividendo collettivamente e a più voci il problema. Soprattutto guardando in faccia la persona.

Trasformare un sistema radicato di politiche passive dove l’individuo  è lasciato solo in balìa del suo problema ad una nuova impostazione non è semplice per nessuno. Va accompagnato e condiviso. Almeno in una prima fase.

Apprendista sarà lei!

Il termine “apprendista” fino a qualche decennio fa aveva una accezione positiva. Un lungo apprendistato era l’epilogo di una formazione scolastica seria e il prologo ad un mestiere spendibile sul mercato del lavoro.

Esistevano istituti scolastici il cui scopo era preparare i giovani al lavoro. Non ad un lavoro generico ma quello di una attività commerciale, di una fabbrica specifica, di un territorio, di un distretto produttivo localizzato e visibile.

Un mestiere, comunque venisse considerato, aveva bisogno di una sana cultura generale, di saper leggere e scrivere decorosamente, di basi tecnico professionali specifiche e di condivisione di un’etica del lavoro comune fatta di serietà, dedizione, impegno, collaborazione.

La famiglia, la scuola e l’azienda ruotavano intorno a questi principi educativi prima che professionali. Il Preside e i professori lavoravano (spesso) fianco a fianco con gli imprenditori e i loro manager raccordandosi con le famiglie per aiutare, sostenere, correggere i ragazzi nel loro esclusivo interesse.

Il sistema aveva il suo punto di forza nella collaborazione di tutte le sue componenti. Ha cominciato ad andare in crisi quando è cambiato il mondo (economico e sociale) e ciascuno delle sue componenti ha pensato (o si è convinta) di poterlo affrontare da sola.

Molte scuole professionali sono state chiuse, i contratti nazionali hanno delegato il problema ad una formazione all’entrata pressoché formale con passaggi automatici temporali, l’anzianità aziendale è diventata il metro di misura della professionalità e del merito.

L’industria ha spostato il suo interesse quasi esclusivamente sulla formazione universitaria con l’obiettivo di avere a disposizione manager competenti sul modello anglosassone disinteressandosi, di fatto, della formazione di base.

Ovviamente tutto questo ha retto fino alle soglie della globalizzazione e alla crisi del fordismo. Così mentre altri Paesi hanno cercato di accompagnare l’evoluzione dei modelli organizzativi e scolastici aprendo e chiudendo nuove sperimentazioni noi ci siamo rassegnati ad accettare la contrapposizione e la separazione sempre più netta tra il mondo della scuola e quello del lavoro. (Sempre con le dovute lodevoli eccezioni).

Oggi siamo qui. Da un lato, lamentiamo la distanza tra i due mondi, certifichiamo l’evidente mismatch tra offerta e domanda cercando di colmarlo con i convegni o con iniziative estemporanee mentre dall’altro cerchiamo attraverso incentivi e agevolazioni di spingere le aziende ad assumere giovani comunque.

Laddove la qualità non è perseguibile ci si accontenta della quantità senza accorgersi che, così facendo, si continua a spingere le aziende ad assumere giovani perché “costano meno” e non a fare un serio investimento sul futuro.

Non c’è niente da fare. Se le diverse componenti economiche e sociali non si parleranno i risultati non potranno che essere parziali o insufficienti. Bisogna ripartire dal valore del lavoro e della formazione scolastica di ogni ordine e grado ridando dignità a tutta la formazione e a tutti i lavori, riconoscendone l’utilità sociale e rispettando i soggetti che scelgono quella che sarà la loro strada.

Su tutto questo l’apprendistato può giocare un ruolo importante tra i due mondi. Più degli sgravi o delle agevolazioni la risposta va ritrovata nel senso del lavoro, nei contratti nazionali, nella contrattazione aziendale e nella formazione permanente.

L’allarme sortito nell’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici, l’idea stessa che ci sia un diritto soggettivo alla formazione è un dato importante. Soprattutto perché condiviso.

Occorre però andare oltre e in fretta se vogliamo individuare soluzioni durature. Il riconoscimento della qualità e del valore dell’insegnamento scolastico, qualunque esso sia, Il merito e l’impegno individuale, il contributo che ciascuno porta al risultato complessivo, la formazione necessaria a crescere in azienda e a muoversi nel mercato del lavoro oggi richiedono uno sforzo convergente comune di tutti i soggetti che hanno a cuore il futuro del Paese e del lavoro.

Se vogliamo essere credibili su cosa ha senso fare per i giovani è da qui che dobbiamo partire.

Welfare aziendale e contrattuale di fronte a nuove opportunità.

Il welfare aziendale sta assumendo una nuova importante dimensione per le imprese e per i lavoratori. Gli accordi si moltiplicano e diventano pratica quotidiana.

Gli sgravi previsti e le opportunità consentite spingono le parti, a livello aziendale, a comprendere nuovi interessi e nuove idee attraverso i quali motivare i collaboratori, dare maggior valore alle risorse disponibili e migliorare così il clima aziendale.

Siamo solo all’inizio, credo, di un fenomeno che produrrà anche inevitabili effetti collaterali sulla cultura del lavoro del nostro Paese. Non solo perché rimette in discussione il concetto stesso di retribuzione totale (costruita nel passato sul salario e sul suo costante e inevitabile aumento) spingendo il lavoratore a considerarne il controvalore effettivo ma anche perché lo predispone a partecipare alla sua definizione complessiva, a cosa destinare al suo incremento e quindi a stabilire una relazione nuova tra impegno personale, produttività, clima aziendale, valorizzazione dell’impresa nella quale lavora. Ma anche un nuovo ruolo del sindacato e della contrattazione aziendale.

Tutto questo mette in moto una maggiore consapevolezza perché spinge a riflettere, a scegliere, a raggiungere gli obiettivi concordati perché, tra le altre cose, la contropartita è chiara, modificabile nel tempo e sempre più personalizzabile. Avvicina, in sostanza, impresa e lavoro e ne favorisce la collaborazione.

Cosa non riuscita, almeno fino ad oggi, al welfare contrattuale definito nella contrattazione nazionale. Innanzitutto perché è stato percepito come calato dall’alto in una fase storica diversa dove non tutto il sindacato lo ha affrontato e proposto con la stessa convinzione.

La preoccupazione che dietro il welfare contrattuale ci fosse l’accettazione di una sorta di smantellamento del welfare pubblico ha frenato soprattutto la CGIL e alcune sue categorie ma anche molte imprese hanno vissuto quelle intese come improprie, come un costo che, in qualche modo sottraesse risorse altrimenti meglio impiegabili.

Questa visione ha impedito una comunicazione positiva e comune, un coinvolgimento utile a migliorare il clima e a rafforzare un sistema di relazioni che non ha certo giovato all’affermazione stessa del welfare contrattuale.

E questo ha trasformato una brillante intuizione, oggi sempre più fondamentale, in una sorta di tassa aggiuntiva per le imprese e per i lavoratori che faticano, se non lo utilizzano concretamente, a considerarlo di grande interesse e valore.

Soprattutto non ha contribuito a cambiare nulla sul piano culturale e partecipativo delle imprese e del lavoro. Da qui, credo, occorra, oggi, ripartire. L’importanza del welfare contrattuale è decisiva sia nelle grandi aziende che nelle PMI. C’è un problema di masse critiche, di governance e di qualità dell’offerta.

Confcommercio e Confindustria, ad esempio, hanno tutto l’interesse a continuare a parlarsi proprio per le prospettive che possono essere messe a fattor comune, così come il sindacato confederale.

Con una governance moderna, una gestione trasparente e una comunicazione condivisa ed efficace il welfare contrattuale può fare un salto di qualità di cui ce ne è assolutamente bisogno. Sia per valorizzarlo nel confronto con il Governo in termini di servizio e di fiscalità, sia per consentire alle imprese e ai sindacati di valorizzarlo all’interno di un progetto comune nazionale e territoriale di rilancio della contrattazione.

Trovare un equilibrio nelle proposte di welfare (contrattuale e aziendale) che valorizzi meglio entrambe le fonti, renda meno facoltative quelle che influiscono sul futuro previdenziale o sanitario degli individui, le integri meglio lasciano al singolo la libertà di scelta attraverso meccanismi (tipo ticket restaurant) flessibili erogabili anche attraverso convenzioni meno aleatorie o parziali di quelle oggi in essere potrebbe rappresentare una nuova sfida per le parti sociali.

Soprattutto perché l’universalità degli strumenti messi a disposizione, la loro efficacia anche in presenza di discontinuità sul mercato del lavoro, deve essere garantita non tanto e non solo dalla applicazione di un contratto specifico o dall’appartenenza ad un’azienda illuminata ma da un sistema che ne favorisca la flessibilità di utilizzo e quindi dia certezze che solo le parti sociali possono garantire in un contesto evolutivo dei nuovi assetti contrattuali.

FCA Group. Est o ovest pari sono?

“Quando escono notizie del genere – osserva Giuliano Noci prorettore del polo territoriale cinese del Politecnico di Milano– è perché la chiusura dell’operazione è molto vicina o perché qualcuno ha interesse a sabotarla”.

Credo vada inquadrata dentro questa alternativa secca la notizia, apparsa sui giornali, che riguarda i cinesi di Great Wall Motor e i loro interesse per FCA. La Borsa l’ha assunta come buona e ha registrato un significativo balzo in avanti.

Marco Bentivogli ne ha subito individuato la reale pericolosità se propedeutica ad uno spezzatino degli stabilimenti o dei marchi italiani con possibili gravi riflessi sull’occupazione.

Sergio Marchionne ha annunciato la sua uscita da FCA per il 2019 quindi, per allora, l’azienda dovrà aver risolto il problema della sua collocazione nella competizione globale. Fino ad ora, però, FCA ha incassato più rifiuti che interesse. Le ragioni possono essere molte.

Mi soffermo su una, apparentemente secondaria: le caratteristiche del management. Forte, aggressivo e con una visione internazionale. Il CEO Marchionne lo ha costruito a sua immagine e somiglianza. È riuscito a sostituire una mentalità interna che faceva leva su di una presunta “superiorità sabauda” ormai condannata e in via di estinzione con una cultura della competizione a tutto campo tipica dei modelli manageriali anglosassoni.

Un management che crede in se stesso, che non si sente inferiore a nessuno, coeso e determinato. Un management preparato, scaltro e veloce nel “gioco di gambe” che potrebbe rappresentare un problema per chiunque volesse omogeneizzarlo in valori e culture differenti.

Un management costruito più per inglobare e integrare che per essere inglobato. Difficile da rimuovere senza correre il rischio di far ritornare di nuovo l’azienda italiana sull’orlo del burrone. L’operazione Chrysler, da questo punto di vista, si è dimostrata un successo da manuale. Così come, a mio personale parere, è la pubblicizzazione dell’offerta dell’azienda cinese con annesso scorporo di Alfa Romeo e Maserati.

Sul piano globale rappresenta la possibilità per i cinesi di ottenere le chiavi del mercato automobilistico americano nell’era Trump. O meglio ne segnala il rischio se altri interlocutori non si faranno avanti rapidamente.

Personalmente non so valutare, non avendo le competenze del prof. Giuliano Noci, l’impatto sulla filiera produttiva nazionale di questa come di altre scelte e quindi mi astengo da qualsiasi giudizio di merito.

Segnalo solo che il gioco si fa duro. I cinesi, in questo come in altri campi, sono in grado di far saltare il banco. Possiedono i mezzi necessari e una visione di comparto e di Paese molto più unitaria, interessata e integrata di qualsiasi altro continente. Soprattutto un approccio che tende a inglobare rispettando la professionalità e le culture altrui.

Adesso la parola passa ai player che conoscono la spregiudicatezza nel business di Sergio Marchionne e le ambizioni di Trump sulla centralità dell’industria americana. Personalmente credo che l’idea stessa di togliere dal tavolo Alfa Romeo e Maserati possa servire per rendere ancora più credibile l’intera operazione.

Per il sindacato e per l’intero nostro Paese inizia, però, una fase molto complessa. Per questo Bentivogli fa bene a far sentire forte la sua voce. Fino ad oggi l’interesse di FIAT e quello dell’Italia sono sempre stati fatti coincidere.

Sullo scacchiere globale questo potrà continuare solo se la Politica (quella con la P maiuscola) non si perderà in accuse e contro accuse inutili e fuori tempo massimo e giocherà un ruolo propositivo e innovativo. I futuri assetti di FCA non sono paragonabili per immagine, peso occupazionale e dimensione alle beghe con i francesi sulla cantieristica o sulla Telecom.

Seppure meno che in passato, una parte importante del Made in Italy e della recente crescita del nostro PIL passa ancora da lì.

Grande Distribuzione, consumi, lavoro e nuove sfide

L’invito a passare la festività del Ferragosto ovunque meno che in un centro commerciale testimonia una delle contraddizioni evidenti nelle quali si muove l’intero sindacato del terziario.

Una contraddizione che lo costringe a inutili reazioni pavloviane tipo quella di dichiarare una giornata di sciopero coincidente con la festività per consentire ai (sempre meno) lavoratori del settore che non vogliono lavorare quel giorno, di poterlo fare.

Nessun punto vendita è mai stato chiuso a seguito di queste singolari proteste e i carichi di lavoro (non essendo un lavoro vincolato) vengono inevitabilmente distribuiti sui colleghi che non aderiscono alla iniziativa. Quindi “zero problemi” per le aziende.

Nessuno però, tra i sindacati del settore, si è mai interrogato sul perché le persone riempiono i centri commerciali durante le festività, qual’è la loro provenienza sociale, l’eta prevalente o il loro reddito disponibile.

Oppure che la stragrande maggioranza dei frequentatori non compra assolutamente nulla o che i messaggi sindacali di opposizione al lavoro festivo vengono accolti o sottoscritti esclusivamente da chi non andrebbe mai in un centro commerciale in quei giorni.

L’ultimo manifesto unitario prodotto, rappresenta, da questo punto di vista, un capolavoro di ovvietà e di sottile umorismo nel suo claim: “Sei sicuro di voler passare il Ferragosto nella solita galleria commerciale?” Un esperto di marketing ci leggerebbe l’invito a cambiare galleria, sceglierne un’altra per permettere un adeguato riposo agli addetti più che valutare se sarebbe preferibile l”alternativa di Capalbio o Rimini…

L’assurdo è che anche Federdistribuzione rinuncia a leggere la realtà di cosa è oggi un centro commerciale limitandosi a rivendicarne l’apertura in nome delle liberalizzazioni ottenute. Così resta un dialogo tra sordi.

Vedere i centri commerciali come semplice luoghi di sfruttamento del lavoro o di consumo esasperato e non come luoghi di relazione, di incontro o di semplice passatempo ne pregiudica il futuro, ne rallenta l’evoluzione ad esempio, di un possibile vantaggio per i centri storici delle città.

Ne limita le potenzialità culturali e sociali che sono enormi. Soprattutto oggi che la crisi del settore e i segnali che giungono dagli Stati Uniti imporrebbero una capacità di riflessione e di visione che sappia andare oltre le beghe da cortile tipiche dei nostri dibattiti sul tema.

C’è un problema di consumi (qualità e quantità), di rapporto tra luoghi fisici e virtuali, di rapporto tra diversi canali di vendita, di ridisegno delle città sapendo che la dislocazione della distribuzione commerciale (grande e piccola) è fondamentale per contribuire a tenere insieme le comunità. Fino ad oggi si è voluto vedere il problema solo dal versante degli operatori economici o del lavoro degli addetti. Oppure dal punto di vista ideologico. Mai cercando di comprendere il contesto, la sua evoluzione e le necessità di un ruolo per tutti gli attori coinvolti.

Oggi la crisi lo impone. Nella Grande Distribuzione ci sono aziende che si stanno aprendo al contesto nel quale sono inserite. Lo stanno facendo con sperimentazioni, nuove idee e proposte. Manca una riflessione comune senza la quale continueremo ad assistere a battaglie di retroguardia sulle chiusure o sulle liberalizzazioni necessarie.

Per me resta incomprensibile il ritardo culturale dei sindacati di categoria che si ostinano stancamente a proclamare agitazioni fuori tempo per soddisfare pochi seguaci e a concordare gettoni di presenza o assunzioni aggiuntive per il lavoro festivo.

Così come quello delle associazioni di categoria che dovrebbero prendere atto che la guerra tra di loro è, di fatto, finita.

Nessuno ha perso ma, sia chiaro, nessuno ha vinto. Gli effetti collaterali sul sistema e sugli addetti sono sul tavolo ed evidenti a tutti. Si tratta solo di decidere se affrontarli in un quadro evolutivo e intelligente o subirne le conseguenze.