Dirigenti, contratti e cultura della solidarietà

Purtroppo la figura retorica del manager solo al comando, egocentrico e poco interessato al destino altrui ha preso il sopravvento nelle convinzioni di gran parte dell’opinione pubblica.

Invidiato e odiato a seconda dei punti di osservazione si muove, in questa fase di cambiamento profondo, tra un autentico disorientamento sulle sue concrete prospettive di carriera e una trasformazione profonda del suo ruolo.

Può contare su diversi strumenti di supporto sia formativi che di welfare messi a punto, nel tempo, nei contratti nazionali costruiti dalle rispettive associazioni di categoria.

Ma c’è una cosa molto importante che, grazie soprattutto alle associazioni manageriali, risulta evidente a chi vuole capirne meglio, e da vicino, le caratteristiche umane e l’approccio culturale che possono essere messe in campo. E quali sono gli strumenti che le possono favorire.

E poterlo rintracciare concretamente in una categoria ritenuta chiusa, individualista e ripiegata su se stessa, spiega molte cose di quanto di buono e inespresso c’è ancora nelle nostre comunità.

Recentemente mi sono trovato ad una iniziativa benefica di Manageritalia in Piemonte a sostegno delle popolazioni terremotate. Innanzitutto mi ha colpito la grande partecipazione. Un mix di pensionati, dirigenti in attività e loro famiglie.

L’occasione era rappresentata da uno spettacolo musicale senza artisti particolarmente noti e senza molte pretese con alla fine una lotteria per incentivare le offerte economiche. La cosa importante era la grande partecipazione. Il sentirsi a casa propria. Un momento di incontro associativo dedicato ad un’iniziativa importante di solidarietà. Credo che se ne facciano molte e in ogni città ma non è questo il punto che volevo approfondire.

Dietro tutto questo non c’è solo un aspetto volontaristico. C’è un contratto nazionale. C’è cioè un percorso che, nel tempo, ha costruito un destino comune, un insieme di strumenti, cultura e punti di riferimento condivisi tra rappresentanti delle imprese e (in questo caso) i rappresentanti dei dirigenti che hanno deciso di favorire una visione collettiva, solidaristica, positiva di quello che al contrario avrebbe potuto essere solo retribuzione, diritti e doveri.

Chi ha pensato a suo tempo ad un welfare sanitario finalizzato a coinvolgere anche la famiglia del dirigente e lo stesso pensionato ha fatto una scelta che ha contribuito a costruire una cultura diversa. Certo occorre sempre accompagnare queste scelte con una grande attenzione ai costi per garantire la tenuta economica del sistema ma c’è un aspetto solidaristico che lo distingue e che solo un contratto nazionale poteva prevedere.

Così è per la previdenza integrativa. Pensarla nel secolo scorso quando la figura del dirigente aziendale poteva contare su un destino pensionistico roseo e garantito è stato un esempio di grande lungimiranza.

Così è per la formazione. Oggi si parla giustamente di diritto soggettivo per tutti i lavoratori. I dirigenti del terziario l’hanno costruita, attraverso il CFMT insieme a Confcommercio, dal 1974.

E gli stessi dirigenti non hanno protestato di fronte alla proposta di Manageritalia di aumentare per un anno la loro quota associativa finalizzandola al sostegno dei colleghi in fase di transizione occupazionale.

Il compito di qualsiasi organizzazione sindacale, sia che rappresenti il lavoro o le imprese è quello di essere sempre un passo avanti ai propri associati. Non un passo indietro. Ed è purtroppo quello che non riesce più a fare oggi la politica. Rifugiarsi “nel centro del fiume” non è mai una buona scelta.

E il “fieno in cascina” lo si mette da parte insieme proprio per superare le stagioni più difficili. Ecco perché vedere che una associazione di manager riesce a coinvolgere, condividere e costruire momenti di solidarietà fa ben sperare per il futuro del nostro Paese.

Ma questi momenti non nascono solo per l’intuito o la lungimiranza dei singoli. Hanno bisogno di luoghi di sperimentazione e di condivisione. E questi luoghi vanno consolidati, manutenuti e rinnovati affinché non siano ritenuti superati e vuoti contenitori di un passato che non ha più ragione di esistere.

Il senso di comunità e di solidarietà che ci caratterizzano come Paese rappresentano l’unico argine ai populismi e agli egoismi che si stanno diffondendo in tutto il mondo.

Difenderne i luoghi e gli ambiti è compito di ciascuno di noi.

E adesso?

Con l’annuncio dell’accordo sul contratto della PA si chiude un’epoca. Non è un caso se in sequenza Artigiani, Confcommercio e presto Confindustria hanno concluso o concluderanno intese molto importanti sui livelli della contrattazione, sui suoi contenuti futuri e sulla rappresentanza.  Così come non è un caso la conclusione unitaria del CCNL dei metalmeccanici.

I contratti che restano capziosamente aperti sembrano un po’ assomigliare a quei soldati giapponesi che nonostante la guerra fosse conclusa continuavano a combattere contro un nemico immaginario.

Molti commentatori si domandano, a buon diritto, cosa possa essere successo, di così significativo, in questi pochi mesi, da contrapporre ad una politica estremamente litigiosa una relazione fattiva e positiva tra le parti sociali.

C’è chi lo fa risalire al referendum e alla precisa volontà del premier di rasserenare il Paese, c’è chi cerca di legarlo a traiettorie di carriera individuale di qualche sindacalista, chi, al contrario per ragioni più nobili.

Leon Battista Alberti ci ricorda che: “Per fare una discordia, vi bisogna due. A perseverare in concordia, basta che uno de’ due sia savio”.

Sarebbe però forse troppo semplicistico assegnare al nostro Presidente del Consiglio il merito della pace scoppiata dopo la fine ingloriosa della concertazione.

Anche perché non va dimenticato che lui stesso aveva ereditato una situazione di pesanti contraddizioni  e di profonde ferite tra le diverse organizzazioni sindacali sulle quali non si era certo risparmiato nel versare quantità industriali di sale senza cercare, e di questo gliene va dato atto,  di sfruttarne le divisioni. Ma tant’è.

Tra l’altro anche Susanna Camusso smentisce questa tesi e credo abbia ragione. Probabilmente si è diffusa una diversa consapevolezza. Per il momento solo tra i corpi intermedi. Purtroppo non ancora nel Paese sempre più occupato ad azzuffarsi con toni sopra le righe su ogni questione a cominciare dal referendum.

Il contratto dei metalmeccanici, da questo punto di vista, è stato paradigmatico.

Solo lì poteva avvenire il salto di qualità. Dove le contraddizioni tra innovazione e resistenze al cambiamento sembravano essere più forti, dove il vecchio modello sindacale e contrattuale aveva raggiunto, più che altrove, la sua maturità, dove le ferite anche sul piano personale erano più profonde. E dove entrambe le parti in causa dovevano dimostrare una capacità di governo autonomo e autorevole e la determinazione  di saper guardare solo in avanti.  E così è stato.

Adesso il timore è che quanto di peggiore alberghi nei corpi intermedi cerchi di riassorbire quanto è avvenuto di innovativo e costruttivo banalizzandolo o strumentalizzandolo.

Dunque il clima è diverso. C’è forse spazio per fare un ulteriore passo in avanti e sforzarsi di condividere soluzioni da offrire al Paese.

Gli aggettivi che in questi giorni si sprecano per descrivere ciò che sta avvenendo tenderebbero a far pensare che è un obiettivo possibile. Dal 5 dicembre questa lungimiranza, rispetto per il proprio interlocutore, volontà di condividere e di orientare positivamente il mondo del lavoro e dell’impresa sono “tanta roba” in un Paese in crisi di identità e di prospettive.

Cerchiamo di non disperdere questo patrimonio e questa determinazione anche perché se non vengono messi a disposizione del futuro del Paese rischiano di ribaltarsi contro a chi li ha voluti, costruiti e ottenuti non certo per sé o per soddisfare modeste ambizioni personali.

Chi vuole un Paese nuovo, diverso, positivo e costruttivo sa che dal 5 dicembre ci sarà molto da fare.

GDO e contratti nazionali. Ancora nuovi stop…

Com’era prevedibile nessun passo in avanti si è compiuto sul tavolo negoziale tra Federdistribuzione, Filcams, Uiltucs e Fisascat anche nei recenti confronti.

Mentre tutte le categorie stanno trovando una ricomposizione positiva così non è nella GDO sia nella parte di Federdistribuzione che nel contratto della Distribuzione Cooperativa. Paradossalmente per ragioni opposte.

FEDERDISTRIBUZIONE. Le ragioni che bloccano il negoziato sono note. Abbandonata la linea inconcludente e velleitaria che ha caratterizzato la gestione del negoziato fino a poco tempo fa, alcune aziende, preoccupate dallo stallo, hanno chiesto a Federdistribuzione una svolta di metodo. Riprendere il dialogo e cercare una soluzione.

Tre punti di forte dissenso ancora presenti e di difficile soluzione. La proposta salariale che è ancora insufficiente, secondo il sindacato, un welfare che Federdistribuzione vorrebbe gestire da sé in un contesto che richiede ben altre masse critiche e, infine, una bilateralità dedicata.

La GDO è rimasta, che lo si voglia ammettere o meno, l’ultima frontiera del fordismo contrattuale. Spesso  appesantita da una contrattazione aziendale di vecchia impostazione.

Nei punti vendita, i sindacati in evidente crisi di rappresentatività e i responsabili aziendali, si affrontano in disaccordo su quasi tutto. Il sindacato confederale di categoria è in grande difficoltà e le aziende non hanno nessuna intenzione di concedere nulla per rianimarlo.

La legge del pendolo domina incontrastata; il più forte comanda. L’idea di avere un contratto dedicato però rischia di essere sempre più superata dagli eventi che richiederebbero ormai riflessioni più avanzate e meno scontate.

Una di queste potrebbe inserirsi nel recente modello contrattuale definito tra Confcommercio e Sindacato Confederale che consentirebbe, alle singole imprese, di ottenere deroghe e flessibilità importanti. Ma questo presuppone un approccio culturale e sociale innovativo purtroppo ancora estraneo a quel mondo.

DISTRIBUZIONE COOPERATIVA. Qui, al contrario, è il sindacato che rischia di non capire la posta in gioco. Da una parte Fisascat-Cisl, Filcams-Cgil e Uiltucs Uil e, dall’altra le associazioni nazionali Ancc Coop, Confcooperative ed Agci Agrital. Scaduto nel 2014 questo contratto non ha ancora trovato una positiva conclusione.

Quello che stupisce è che l’organizzazione datoriale, da sempre, è molto attenta all’interlocutore sindacale al contrario della GDO privata. Forse troppo attenta. Dall’altra un sindacato che, non chiudendo ad oggi alcuna intesa, abusa enormemente di questa attenzione.

E non dimostra una sufficiente visione strategica. Non trovo altre parole per giustificare la situazione. Il sistema della distribuzione cooperativa opera nello stesso mercato dove opera la GDO nazionale e multinazionale.

Ha indubbiamente dei benefici finanziari che però oggi rischiano di essere abbastanza spuntati. Conserva però diversi punti di differenza in negativo sul costo del lavoro rispetto ai competitors di settore. Nonostante questo, il contratto non si firma.

Aggiungo che le proposte avanzate dalla delegazione datoriale sono finalizzate ad allineare alcune norme a quelle già in essere in tutta la Distribuzione, nazionale e multinazionale, ormai da molti anni.

Un contratto nazionale innovativo per questo comparto dovrebbe saper definire in quanto tempo tutti i principali differenziali di costo si possano ridurre, pur in modo progressivo e intelligente, ammortizzandone gli effetti sui lavoratori o trovando le compensazioni necessarie.

Pensare di non avviare una grande operazione di trasparenza e di confronto con i lavoratori del comparto restando prigionieri dei veti di chi non ha capito la posta in gioco è un esercizio molto pericoloso per la prospettiva dell’intero settore della distribuzione cooperativa.

Il paradosso è dato dal fatto che, per quanto riguarda la GDO, nazionale e multinazionale, la responsabilità dello stallo è tutta di quelle imprese che chiedono a Federdistribuzione di non impegnarsi più di tanto per individuare mediazioni accettabili dalla controparte sindacale mentre, nel caso delle Coop, è tutta del sindacato.

Principalmente di un sindacato. O di parte di esso. E questo non è accettabile. Né nel primo caso né nel secondo.

Contratto metalmeccanici. Significato e prospettive.

Le conclusioni dell’ottimo articolo di Dario Di Vico vanno all’essenza della vera novità del nuovo contratto dei metalmeccanici. Forse all’essenza di quelle che dovranno essere le nuove relazioni tra capitale e lavoro nell’era della globalizzazione: l’inevitabile esigenza della collaborazione.

E il fatto che questo sia emerso con tutta evidenza al tavolo della categoria apparentemente meno sintonizzata sindacalmente su questo tema lo rende ancora più evidente e urgente.

Le svolte, nascono quasi sempre da lì, dai metalmeccanici, proprio perché la sensibilità e le potenziali resistenze sono vere. Da entrambe le parti.

Federmeccanica non è una federazione di furbacchioni che cercano di fregarsi l’uno con l’altro per contendersi qualche consumatore strada per strada. O che stanno distruggendo i loro margini avendo in testa solo il costo del lavoro come purtroppo avviene in altri comparti.

Sa benissimo che tra vincere e stravincere c’è una grande differenza in epoca di populismi imperanti, sa individuare dov’è il problema vero e la necessità o meno di condividerne le soluzioni e sa, infine, quando è il momento di favorire un percorso di rinnovamento che deve essere anche delle relazioni sindacali e di tutto il sindacato se il fordismo, snodo fondamentale del 900, deve essere superato per affrontare le sfide che incombono.

Lo stesso vale per il gruppo dirigente del sindacato. Qui devo dire che se Marco Bentivogli ha fatto da “pesce pilota” dietro non è solo. Ma neppure di lato. FIOM e UILM non sono state da meno. E l’immagine finale con l’abbraccio sincero tra Landini e Bentivogli per me, che sono della vecchia scuola, vale un contratto. Senza dimenticare l’importante collante fornito dallo stesso Palombella, segretario generale della UILM.

Così come la foto finale tutti insieme, tra i negoziatori, che sarebbe stata giudicata scandalosa fino a pochi anni fa, mi ha ricordato il terzo tempo del rugby. Anche quella descrive le intenzioni più delle parole.

A quel tavolo sta forse crescendo un nuovo modo di fare relazioni industriali. Nuovi corpi intermedi crescono. Mi sembra evidente. La ragione è semplice. Soli non si va da nessuna parte.

La globalizzazione impone una ridefinizione dei confini del passato tra tutto ciò che va dai produttori ai consumatori passando per fornitori, banche, contesto politico e sociale, manager e collaboratori, clienti.

Quindi anche delle relazioni sindacali. Tutto si tiene.

L’impresa da sola non va da nessuna parte. Né quella che affronta il mondo a viso aperto, né quella che, pur restando su di un mercato interno, è messa in discussione da altri, nel mondo. Per questo la contrattazione aziendale è importante.

E lo sarà sempre di più. È lì che si creano le condizioni fondamentali della necessaria collaborazione. È lì che la cultura sta cambiando più rapidamente che su altri tavoli. E il contratto nazionale non può essere più una camicia di forza che rallenta il cambiamento.

Deve diventare uno strumento flessibile, modificabile, plasmabile su esigenze specifiche. Altrimenti diventa uno strumento obsoleto. È, ad esempio, lo sforzo che è stato fatto con il recente accordo tra il sindacato confederale e la Confcommercio e che, credo, proseguirà nel  prossimo round con Confindustria.

E aver capito che questi necessari cambiamenti devono avvenire in un quadro di garanzie che solo il CCNL può dare è indice di lungimiranza e maturità del sistema.

La sfida di industry 4.0 non è la sola. Come evolveranno i modelli di business delle imprese, come la digitalizzazione impatterà sul lavoro e sull’innovazione organizzativa, come evolverà l’adozione dei modelli di data driven decision, quali saranno le professioni emergenti/declinanti, come sarà il mercato del lavoro e il nuovo welfare sono i veri temi all’ordine del giorno di chi si occupa di lavoro e impresa.

All’ordine del giorno di oggi, non di chi sa quale domani. E non c’è più tempo da perdere.

Aver deciso di giocare questa partita e di giocarla insieme qualifica ancora di più questo contratto. L’onorevole Sacconi fa bene a sottolinearlo.

Adesso tocca a ciascuno di noi. Il dado è tratto.

Contratto metalmeccanici. Un negoziato vero.

Non me ne vogliano i molti amici che ho anche nel sindacato (e che vorrei mantenere) ma questa è forse rimasta una delle poche categorie che negozia sul serio e di questo gliene va dato atto.

Almeno oggi, giorno della firma del CCNL. Pur avendo inventato loro stessi la “legge del pendolo” hanno saputo metterla da parte al momento giusto e con una certa classe. Lo dico soprattutto pensando a Federmeccanica.

Da entrambi i lati del tavolo sono sempre stati seduti ottimi negoziatori e altrettante buone ragioni. Per questo un rinnovo di contratto dei metalmeccanici insegna sempre qualche cosa. Si apprezza in sé, come un buon vino.

Non è più sufficiente per cambiare verso al contesto sociale del Paese, né per mettere in difficoltà un Governo. Neanche può  fare scuola in altri settori ormai troppi gelosi della loro autonomia.

Però è ancora in grado di segnare i confini di una comunità specifica, ricca di stimoli e di idee, di indicarne un destino comune, di produrre un tratto caratteristico che accumuna sia i sindacalisti che gli imprenditori.

E quindi le rispettive basi di riferimento. Sono fatti della stessa pasta sia quando cercano di innovare che quando resistono al cambiamento. E, proprio per questo e sempre più spesso, fuori da quella comunità, i messaggi perdono quella carica emotiva e specifica che in quel perimetro, al contrario, funzionano da collante e da molla propulsiva.

Ne sa qualcosa Landini quando è stato tentato dalla coalizione sociale da cui è fuggito consapevolmente prima che fosse troppo tardi o quando, un dirigente metalmeccanico, entrando in una qualsiasi delle diverse segreterie confederali, ne perde immediatamente colore e calore.

Sono fatti così. Devono stare tra di loro per dare il meglio. Quando Sergio Marchionne, replicando a Diego Della Valle lo ha accusato di spendere in ricerca e innovazione quanto lui spende per un parafango si è iscritto anch’egli in quel club esclusivo. Perché, sia chiaro, non sono così solo i sindacalisti.

Fino ad oggi solo Pierre Carniti nella Cisl è forse riuscito a sfuggire a questa logica. Ma stiamo parlando di una figura forse irripetibile per il sindacalismo italiano post sessantottino. In un sindacato provato da mille battaglie, indebolito nei luoghi di lavoro, in crisi di strategia dove altre categorie si fanno avanti con numeri, iscritti e intese di tutto rispetto, quello che avviene in questo perimetro, resta ancora molto importante.

Innanzitutto perché il negoziato, qui, è ancora un vero negoziato. Entrambe le parti lo sanno bene. Quindi la preparazione segue una impostazione di scuola classica. Si studiano contenuti, mosse, concessioni, tempi e contropartite.

Nessuno concede nulla gratis e nessuno fa inutili passi falsi. I punti di partenza di questo rinnovo erano chiari. Federmeccanica avrebbe giocato una partita difficilissima dopo la vicenda FCA nel rapporto con i propri associati e dentro una Confindustria in fase di cambiamento ma anche in crisi e, dall’altro lato il negoziato si sarebbe dovuto chiudere, per la prima volta, con tutto il sindacato di categoria. FIOM compresa.

Lo stesso doveva valere per il gruppo dirigente dei metalmeccanici. Questa lealtà e questa visione di fondo, tutt’altro che scontata altrove, qualifica lo spessore qualitativo dei rispettivi gruppi dirigenti di cui, non solo per questo motivo, non è difficile prevederne l’evoluzione futura. Indubbiamente merce sempre più rara da entrambe le parti…

Tornando nel merito Federmeccanica aveva tre obiettivi. Iniziare a smarcarsi dal fordismo culturale e sindacale di cui il contratto nazionale dei metalmeccanici rappresenta il “Summa Theologiae”, ridurne la centralità del CCNL come soggetto di governo salariale e consentire alle aziende associate di tenere sotto controllo le dinamiche retributive e di costo del lavoro anche utilizzando tutte le opzioni messe a disposizione dalle nuove forme di welfare.

La proposta di “rinnovamento contrattuale” muoveva da qui. Aprire al futuro valorizzando le persone spostando il baricentro del coinvolgimento dove ha più senso e puntando decisamente al welfare contrattuale. Le “pretese” iniziali avrebbero rappresentato l’optimum desiderabile ma se il risultato va in quella direzione è certamente positivo.

Chi nel sindacato come Marco Bentivogli puntava nella direzione del cambiamento vero può essere altrettanto soddisfatto se si realizza un maggiore spazio per la contrattazione decentrata, quindi un maggior ruolo del sindacato nei processi di cambiamento e di innovazione, un passo avanti unitario sul welfare contrattuale e un grande risultato sul diritto soggettivo alla formazione.

Solo così si prepara il futuro della categoria. Senza dimenticare il mantenimento del contratto nazionale come elemento centrale da cui ne potrà discendere l’impianto deregolatorio successivo.

Un accordo win win dove entrambe le parti hanno esercitato un ruolo positivo e concludente.

Un contratto nazionale che guarda al futuro, apre all’accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil e a quel famoso “Patto della fabbrica” cuore della corresponsabilità di cui vorrebbe essere promotore il Presidente Boccia e, nel quale, sembrerebbe voler riporre tante aspettative.

Staremo a vedere. Per oggi facciamo i complimenti ai negoziatori. Nei prossimi giorni avremo modo di leggere con maggiore cura i singoli testi.

Confcommercio e CGIL, CISL, UIL. La rivincita dei corpi intermedi..

Si può fare. Lavorare nell’interesse delle imprese del terziario di mercato e del mondo del lavoro è, da oggi, un obiettivo comune. Confcommercio e CGIL, CISL e UIL hanno siglato un’intesa importante che copre 14 contratti nazionali operanti nel terziario di mercato di cui beneficiano oltre quattro milioni e mezzo di addetti.

Un settore importante per il PIL, per l’occupazione e per lo sviluppo economico e sociale del Paese. Per questi lavoratori e per le loro aziende, indipendentemente dalla dimensione e dal settore, sono state definite nuove regole del gioco e una certezza: il CCNL di riferimento resta centrale seppure molto più aperto e flessibile.

Può essere derogato sperimentalmente anche su materie economiche, può essere decentrato sia a livello territoriale o aziendale, può aprire a intese su produttività e competitività e può intervenire anche su singoli contenuti tutti modificabili ma all’interno di regole condivise.

Non va mai sottovalutato il fatto che, oggi, la contrattazione decentrata non supera il 3% dell’intero comparto. Il testo infatti recita: “il CCNL (pertanto) non si limita a stabilire i trattamenti retributivi minimi, ma è anche sede per concordare previsioni in materia di flessibilità e produttività immediatamente esigibili per le aziende, adeguabili all’evoluzione del quadro normativo, organizzativo ed economico e dare certezza al mondo del lavoro rispondendo a nuovi bisogni”.

A differenza di quello siglato ieri per l’artigianato, l’accordo nel terziario riguarda aziende in settori molto diversi fra loro e di ogni dimensione; quindi deve necessariamente poter essere montato e smontato in base alle specifiche esigenze e contesti pur in un quadro di riferimento omogeneo. E questo, diventa finalmente possibile.

E qui penso, ad esempio, alle aziende della GDO che, anziché intestardirsi su di un loro specifico contratto nazionale che rischiano di non avere mai, potrebbero costruirsi in casa le risposte di cui hanno bisogno.

Non meno importante è la volontà delle parti di darsi atto che la loro rappresentatività deve essere certa e misurabile anche per evitare pessime operazioni di dumping contrattuale con controparti fantasma o di aggiramento di norme e obblighi da parte di imprese o comparti che “fingono” apparenti disponibilità negoziali con l’unico scopo di non pagare il costo del contratto nazionale o di ritardarne il pagamento ai propri collaboratori ma anche alla collettività in termini di minori contributi fiscali e previdenziali.

La parte finale affronta il tema dell’importante welfare contrattuale di cui il settore è stato un precursore, consolidandolo e rilanciandolo e del sistema bilaterale nel suo complesso come elemento concretamente partecipativo.

A mio parere si tratta di un accordo importante sul quale occorrerà ritornarci con maggiore approfondimento su singoli aspetti visto le diverse materie trattate ma che dimostra la volontà di Confcommercio di impegnarsi per innovare un sistema complesso, renderlo flessibile per tutelare meglio le singole imprese valorizzando però il rapporto con le organizzazioni sindacali confederali e uscendo, per la prima volta, dai confini, limitanti nella visione sistemica e strategica, delle tradizionali controparti sindacali di categoria.

Dall’altro lato, non può sfuggire agli osservatori più attenti, la posizione dinamica, costruttiva e innovativa della CGIL messa in campo insieme a CISL e UIL che, con questa intesa, contribuisce a individuare un passaggio fondamentale nella costruzione di nuove relazioni sindacali non solo nel terziario.

Susanna Camusso è riuscita a riposizionare la CGIL, senza clamori mediatici, a restituirle un ruolo centrale dopo anni caratterizzati dalle stagioni delle firme separate nei contratti nazionali di categoria, la conseguente quanto inevitabile deriva identitaria che ha contrapposto le tre sigle e, di fatto, la strisciante emarginazione di tutto il sindacato confederale dalla vita reale di molte imprese.

Questo accordo può aprire certamente una nuova fase sia per le prospettive del sindacato stesso che nei rapporti con le associazioni datoriali.

Adesso, dopo le organizzazioni dell’artigianato e Confcommercio, tocca a Confindustria. La corresponsabilità che nel terziario è stata declinata fondamentalmente nel rilancio e nel rafforzamento della cultura della bilateralità, anche per la dimensione delle imprese coinvolte, può fare un ulteriore passo in avanti? Staremo a vedere.

Una cosa però è certa. Con questo accordo i corpi intermedi si danno, di fatto, una strategia comune impedendo rischiose fughe in avanti propugnate da tanti neofiti del rinnovamento dei sistemi contrattuali che si limitavano a suggerire improbabili quando inutili scorciatoie.

Esiste certamente un problema di produttività nelle imprese, ma esistono problemi legati al costo dell’energia, alla mancanza di infrastrutture idonee e di garanzie di legalità, alla burocrazia, ai livelli di formazione e di istruzione e alla certezza del diritto che ostacolano competitività e crescita che non possono essere ulteriormente rinviate.

D’altra parte queste intese non solo possono contribuire a rasserenare il clima sociale ma possono anche costruire convergenze utili alla definizione di quel patto sociale sempre più necessario a rilanciare la crescita del nostro Paese e il riferimento nel testo alla volontà di costruire “una sede permanente dove sviluppare confronti finalizzati a soluzioni e proposte in materie economiche e sociali da sottoporre alle istituzioni” va in questa direzione.

Contratto Tessili, alla ricerca dell’accordo perduto…

Non è un buon segnale lo sciopero nel settore tessile per il rinnovo del loro contratto nazionale. Non lo è innanzitutto perché avviene in un comparto dove sindacati e aziende hanno sempre lavorato per affrontare i problemi di produttività e competitività delle imprese in modo costruttivo.

La forte reazione dei tre sindacati di categoria alle proposte datoriali non sembrano dettate da una volontà di rottura pregiudiziale ma piuttosto motivate dalla sensazione che si voglia imporre una soluzione “importata” da volontà estranee al comparto.

Tra l’altro nessuna dichiarazione ufficiale dei tre segretari generali della categoria esclude la disponibilità ad entrare nel merito dei problemi cercando soluzioni adeguate.

E nessuno dei tre segretari ha mai cavalcato posizioni irrealistiche.

Questo fa però pensare che il concetto di “corresponsabilità” giustamente introdotto dal neo Presidente di Confindustria non venga in qualche modo sintonizzato con la necessaria condivisione dello stesso con le organizzazioni sindacali delle diverse categorie.

E questo non è un messaggio rassicurante. Addirittura c’è il rischio che sia contraddittorio con l’obiettivo, senz’altro condivisibile.

La tipologia delle imprese del settore e la competitività dei mercati di riferimento non consentono scorciatoie né guerre per errore.

Così come eventuali rinvii alla contrattazione decentrata necessitano di un quadro di riferimento ben più forte da quello proposto fino ad ora.

Infine il negoziato non può e non deve escludere l’adozione di misure specifiche sul salario sia in termini quantitativi che qualitativi anche innovativi ma questo deve necessariamente emergere dal confronto tra i soggetti coinvolti, titolari del negoziato stesso.

L’impressione è che così non sia. O non lo sia stato fino ad oggi.

E questo non aiuta a ricomporre un quadro di riferimento che spinga entrambe le parti a restare sul merito dei problemi.

Lo scambio di accuse fa parte della liturgia di ogni negoziato. Mi sembra però che Angelo Colombini segretario generale della Femca Cisl abbia sintetizzato bene lo stallo e il modo di uscirne invitando a togliere dal tavolo posizioni preconcette inutili a riprendere il confronto e avviarsi così alla chiusura della trattativa.

Esistono le condizioni per farlo e, credo, corrisponda alla volontà di entrambe le parti in campo.
Deve solo emergere con maggiore convinzione e lungimiranza.

Lavoro debole o contratto debole?

Nell’articolo del prof. Ichino “nuovi strumenti per sostenere chi è più debole” trovo spunti interessanti che mi spingono ad un approfondimento.

Sono assolutamente convinto che, al di là del tema della produttività e del suo calcolo, i nuovi modelli organizzativi incentivano la proattività e quindi è inevitabile che, tra due persone pur inquadrate nello stesso livello contrattuale, la resa sia profondamente diversa.

Da qui, il prof. Ichino ne fa discendere un giudizio di inadeguatezza del contratto nazionale e una sua preferenza verso altri modelli da costruire. Sempre però ipotizzando (e qui sta la mia prima perplessità) un sistema dove l’individuo, attraverso un percorso formativo può solo crescere professionalmente ed economicamente.

Questa impostazione (legittima) sottende l’attuale codice civile, lo stesso statuto dei lavoratori e i CCNL. Tutti prodotti del secolo scorso. La realtà che attende chi si affaccia nel mondo del lavoro è però un’altra. È fatta di discontinuità, mobilità, ripartenze, successi e fallimenti.

Quindi, sul versante personale (e qui sono d’accordo con lui) sono fondamentali strumenti utili a mantenere capacità e competenze spendibili sul mercato.

Sul versante aziendale l’inadeguatezza non è nel CCNL di riferimento in sé ma è nel combinato disposto dato dal codice civile, dallo statuto dei lavoratori e dal CCNL sotto l’aspetto dell’inquadramento professionale, delle declaratorie conseguenti e della struttura del salario.

Sostengo da tempo che la retribuzione dovrebbe essere costituita da tre parti. Minimo base, superminimo professionale e incentivo di partecipazione. Dove il primo è uguale per tutti e contrattato nazionalmente, il secondo, definite le forbici minime e massime a livello nazionale, potrebbe essere poi articolato a livello aziendale e, infine, l’incentivo di partecipazione sui risultati, le performance o quant’altro può essere utile a ingaggiare, coinvolgere e condividere tra impresa e lavoro, a livello aziendale.

Ovviamente solo la prima parte sarebbe scontata. Le altre due dovrebbero essere  strettamente correlate una, alla professionalità concretamente espressa (quindi non acquisita per sempre) e l’altra, ai rischi e alle opportunità che l’impresa vive nel suo contesto competitivo.

Il CCNL può definire tutte le materie di sua competenza e quelle decentrabili, il welfare contrattuale (sanità e previdenza),  la formazione come diritto soggettivo, diritti e doveri  e infine le deroghe necessarie affinché uno strumento come il contratto nazionale sia flessibile e adattabile ai mutamenti di contesto.

L’esempio recente del CCNL del terziario che, senza alcuna polemica o ritardo, ha posticipato la tranche di aumento prevista a novembre rappresenta una dimostrazione di ciò che sarebbe ulteriormente ipotizzabile.

Il lavoro cambia. Ad una commessa di un supermercato qualche decennio fa veniva chiesto di passare il più velocemente possibile i pezzi alle casse e su questo veniva valutata.

Oggi le si chiede anche di ascoltare il cliente, di aiutarlo nelle sue scelte, di essere pro attiva e disponibile anche la domenica. Ma non guadagna né può pensare di guadagnare di più. E, se si mette di traverso, non ha vita facile.

Può però mettersi in gioco per crescere in altri ambiti aziendali. Spesso è difficile spiegare a degli osservatori esterni cosa è il lavoro oggi. Quello visto da chi rischia di perderlo.

Non è solo fare o saper fare un mestiere. Né saperlo fare bene. È anche saperlo mantenere, potersi valutare, sviluppare relazioni utili per quando lo si perderà, magari avere consigli sui percorsi formativi necessari oggi e domani.

Le aziende non investono su numeri. Investono sulle persone sulle quali ha senso investire. Quindi non su tutti. Oggi non ci sono garanzie per nessuno (al di là della retorica sull’art. 18).

Impresa e collaboratore a qualsiasi livello, pur in posizione asimmetrica, hanno interesse ad uno scambio che dura fino a quando la convenienza è reciproca. Questa situazione sarà sempre più marcata nel contesto globale. Basti solo dire che oggi le persone vivono più delle aziende. Cosa impensabile fino a pochi anni fa.

È quindi necessario creare contesti collaborativi nuovi dentro e fuori dall’impresa. Altrimenti si farà strada un modello darwiniano dove pochi ce la fanno e gli altri si dovranno arrangiare. Il CCNL può essere uno di questi contesti.

Certo occorre un sindacato diverso e un’impresa diversa. Io lo credo possibile. Forse, il prof. ichino, meno.

Contratto metalmeccanici. La firma nel Black Friday?

Forse ci siamo. I prossimi giorni potrebbero essere decisivi per la conclusione del CCNL dei metalmeccanici.

Mi verrebbe da dire, dando corpo ad una facile ironia, che la scelta del 25 novembre, un venerdì, come possibile fine della corsa non è affatto casuale. Si tratta di un giorno particolarmente importante, soprattutto per i consumi. Il famoso Black Friday.
Negli USA ha sempre costituito un valido indicatore sia sulla predisposizione agli acquisti, sia indirettamente sulla capacità di spesa dei consumatori. Ed è tenuto in grande conto tanto dagli analisti finanziari che dagli ambienti borsistici statunitensi ed internazionali.

Il Black Friday indicherebbe quindi un giorno di grandi guadagni per le attività commerciali. In altri termini, un giorno importante per i consumi.

Da qui il legame significativo con i rinnovi contrattuali. Consumi e reddito sono un binomio inscindibile. E, nella formazione del reddito i contratti nazionali rappresentano, per molti, la certezza di poter mantenere, in tutto o in parte, il proprio potere di acquisto.

Quindi un giorno importante anche per il mondo del lavoro.

Questo venerdì in particolare perché ci indicherà, inevitabilmente, alcuni orientamenti di fondo condivisi sia dalle imprese che dai sindacati metalmeccanici che contribuiranno a segnare la qualità delle relazioni sindacali nei prossimi anni.

Senza dimenticare che una lettura attenta di ciò che produrrà questo negoziato ci dimostrerà che, su diversi temi, altre organizzazioni datoriali e sindacali hanno già precorso tempi e argomenti ma sui metalmeccanici pesa la loro storia che in larga parte è la storia di tutti e quindi le loro conquiste costituiscono, inevitabilmente, un punto di svolta riconosciuto e sottolineato dai media e dall’opinione pubblica coinvolta come particolarmente significativo.

Quello che resta da vedere e se, l’importanza di questa storia passata riuscirà ad andare al di là della pur significativa probabile firma unitaria per consentire all’intera categoria di affrontare gli inevitabili cambiamenti del lavoro, dei luoghi del confronto e del modello di relazione necessario oppure se, questo nuovo contratto, approfondirà gli ancora gravi limiti emersi nel dibattito e nelle strategie tra le differenti sigle sindacali.

Ma, soprattutto, tra le nuove esigenze delle imprese e delle persone e la capacità di interpretarle e di governarle delle diverse organizzazioni sindacali di categoria. Il vero “rinnovamento” passerà da qui più che dai testi scritti.

Per Federmeccanica è comunque una scelta coraggiosa e un investimento. È una scelta coraggiosa perché, di fatto, rinuncia a trascinare la vertenza in una palude in cui potrebbe rischiare di restarne impantanata.

Falchi e colombe incrocerebbero immediatamente le spade tra di loro mettendo fuori gioco la capacità di mediazione dell’associazione datoriale proprio mentre il Paese sta cercando, faticosamente, una sua via tra globalismo intelligente e populismo mediocre.

E questo non potrebbe non riflettersi anche su di una Confindustria in evidenti difficoltà di ruolo e di movimento. Esito positivo del referendum e accordo con CGIL, CISL e UIL sono due pesanti fiches messe sul tavolo dal Presidente Boccia. I risultati ne segneranno inevitabilmente la sua autorevolezza e il percorso che lo attende. Il contratto dei metalmeccanici è certamente uno snodo importante; utile ma non certo sufficiente.

Per Federmeccanica è però anche un investimento. Aver posto al centro del negoziato le persone, la loro formazione, il loro benessere, la loro crescita e il loro contributo al successo delle imprese e non più il concetto fordista del lavoratore anonimo e uguale a tutti gli altri rappresenta un cambio di paradigma culturale.

Averlo proposto (e forse condiviso) ad un tavolo contrattuale rappresenta un segnale di grande disponibilità. Certo Federmeccanica non parla esplicitamente di “corresponsabilità” ne di coinvolgimento diretto del sindacato nelle imprese né garantisce esigibilità o livelli aggiuntivi della contrattazione ma non impedisce che ciò avvenga nelle forme e nelle modalità che le singole imprese potranno decidere.

Resta una grande incognita tutta di parte sindacale. La FIM ha disegnato un possibile nuovo campo da gioco forse un po’ troppo ardito e complesso per i differenti compagni di viaggio anche perché, dall’altra parte, molti imprenditori sono incuriositi ma anche perplessi sulla disponibilità e sulla determinazione messe in campo dallo stesso Marco Bentivogli.

Per dirla tutta, nella convinzione generale degli imprenditori, la navigazione verso industry 4.0, prevederebbe un ruolo assolutamente marginale per le organizzazioni sindacali. E il sindacato, tutto il sindacato, è percepito, al di là dei convegni, come un freno che si aggiunge a tutti i freni già tirati che in questo Paese circondano l’impresa.

Il segretario generale della FIM sta cercando di sparigliare le carte ma la diffidenza è ancora molto diffusa. E, spesso, i sindacalisti, anziché cercare di comprendere tutto ciò che avviene dentro un’azienda o le vere difficoltà delle imprese di oggi si accontentano di una caricatura datata di ciò che preoccupa il singolo imprenditore o il manager che devono affrontare situazioni complesse.

Oppure di continuare a leggere la realtà con lo specchietto retrovisore. E questa distanza è certamente da colmare. Per questo la firma del contratto, pur importante in sé, si misurerà sugli affidamenti che sul quel tavolo verranno concordati e condivisi.

È lì, come su altri importanti tavoli negoziali, che si gioca una parte del futuro delle relazioni sindacali del nostro Paese. Credo che questo sia chiaro a tutti.

Corresponsabilità? Le navi non sono costruite per restare in porto

La stagione dei grandi contratti nazionali del settore privato si sta avviando ai titoli di coda. Ci sono distanze che devono ancora essere colmate in alcune categorie ma la sostanza non cambierà.

Un dato sembra emergere in modo pressoché definitivo. Non è più il conflitto sindacale tradizionale a spostare sostanzialmente il risultato finale. Così come la rigidità di alcune associazioni o federazioni datoriali, alla lunga, non riesce più ad imporre alcunché.

In altri termini, la legge del pendolo, è anch’essa entrata in crisi quindi i rapporti di forza, favorevoli o meno, non sono più una opzione perseguibile.

Il contesto mediatico, sociale ed economico spinge comunque e sempre per soluzioni condivise e non sollecita contrapposizioni inconcludenti e infinite. Tra l’altro molti degli stessi obiettivi enunciati da entrambe le parti nei negoziati presuppongono quasi sempre una sostanziale condivisione.

E questo vale sia per il welfare contrattuale, la bilateralità in generale ma anche per l’esigenza che emerge con forza nelle imprese più innovative di coinvolgere, condividere e ingaggiare su obiettivi comuni l’azienda intesa come comunità di persone.

Quindi occorre andare oltre l’apporto semplicemente individualistico mettendo in gioco la disponibilità, l’intelligenza collettiva e lo spirito di iniziativa dell’insieme dei collaboratori su obiettivi condivisi. Un’impresa che vuole coinvolgere deve conoscere innanzitutto le sue persone, proporre loro percorsi di crescita, premiarne il merito, condividere economicamente i risultati raggiunti.

Ma deve anche riconoscerne la maturità, l’apporto e gli specifici interessi collettivi di cui sono portatori. L’opposto dell’azienda fordista, di matrice autoritaria dove le persone erano tutte uguali, intercambiabili e da gestire nella singola mansione affidatagli. O collettivamente come numeri tramite il vecchio modello di relazioni sindacali.

In questa “nuova” impresa la cultura tradizionale della contrapposizione e del conflitto collettivo ancora presente in una parte del sindacalismo italiano non ha più ragione di esistere nei termini prodotti nel secolo che abbiamo alle spalle. Anche il linguaggio, utilizzato spesso dal sindacato stesso per insistere in una logica caricaturale un po’ forzata delle posizioni della controparte, rischia di essere controproducente innanzitutto per chi lo utilizza.

Senza mai dimenticare che, l’inevitabile conclusione, ormai generalmente “win win” di qualsiasi negoziato, rende l’enfasi spesso utilizzata nella comunicazione tradizionale assolutamente inadatta a gestire i risultati ottenuti.

Quando la narrazione impiegata a sostegno delle proprie tesi è distante dalla realtà il distacco che si crea tra chi parla e chi ascolta diventa inevitabile.

E, se tutto questo è vero, non sarà sufficiente lavorare sui luoghi del confronto. Non esiste alcun automatismo tra decentramento e un conseguente ruolo collaborativo e propositivo. Ne c’è alcuna disponibilità esplicita di tutto il sindacato né da parte degli imprenditori di darlo per acquisito.

Su questo equivoco merito e metodo rischiano di non coincidere e quindi di sprecare un’opportunità di innovazione e di crescita per l’intero sistema. L’impresa di oggi, ma soprattutto quella di domani non può prescindere dalla implementazione un vero sistema collaborativo.

Il successo sarà sempre più costruito insieme  ai clienti, ai fornitori, e ai partner ma anche insieme ai propri collaboratori con i quali andranno condivisi rischi e opportunità. Ciascuna componente, con il suo contributo, rafforza o indebolisce il brand, quindi, di fatto, accelera o frena i potenziali risultati.

Ma questo cambiamento presuppone visione, coerenza, rispetto e valorizzazione di tutti i soggetti in campo. Ma, soprattutto, coinvolgimento. E questo coinvolgimento non si ferma davanti ai cancelli né può escludere il sindacato a prescindere.

Soprattutto in tempi dove la navigazione è a vista e i rischi sono talmente elevati che non possono essere esclusivamente in capo all’imprenditore. Certo quando si coinvolge occorre saper ascoltare, condividere, ingaggiare e poi comunque decidere. Ma è una navigazione diversa dal passato. Più responsabile e attenta al contesto e a tutto l’equipaggio.

È la corresponsabilità.

Una parola tutta da riempire di significato concreto perché  le navi non sono costruite per restare in porto. Lo stesso vale per il sindacato. Tutto il sindacato. Ormai fermo ad un bivio: accettare il declino continuando a sognare un ruolo e un peso che non c’è più nelle singole imprese o cogliere la sfida della corresponsabilità fino in fondo?

E questa sfida non può essere raccolta se si inseguono ancora superate egemonie novecentesche o se si cerca solo di farsi concorrenza nelle imprese scavalcandosi sui contenuti del confronto con l’azienda stessa. A mio parere il sindacato in questo modo rischia solo di fare la fine dei polli di manzoniana memoria che si beccavano tra di loro mentre venivano portati dal pollivendolo.

La stagione che abbiamo alle spalle ha lasciato in eredità solchi profondi dentro il sindacalismo confederale tra differenti sigle difficili da superare. Forse non sarà sufficiente un rinnovo unitario di uno o più contratti per invertire la tendenza.

Per questo, un semplice spostamento del livello del confronto in un contesto ancorato a modelli più o meno formalmente conflittuali, suscita legittime perplessità negli imprenditori e, di per sé, non farà evolvere un bel nulla.

A volte mi sembra che chi ne scrive la faccia troppo semplice. Senza un riorientamento culturale unitario, il ruolo del sindacato, e quindi la contrattazione aziendale, non decollerà in chiave collaborativa neanche attraverso robusti incentivi economici ma resterà confinata (ad esaurimento) solo laddove ha messo radici tradizionali. O sotto il saldo controllo delle imprese.

E questo non è sempre un bene. Il sistema ha bisogno di profondi cambiamenti e di equilibrio, non di scorciatoie.