Brexit, olimpiadi, referendum. Ma c’è una prospettiva?

Se dovessimo ritenere significativo il dibattito scatenato sulle radio e in rete sulla risposta di Virginia Raggi per la candidatura alle Olimpiadi di Roma 2024 dovremmo considerare assolutamente prevalente il sostegno al NO. Una posizione affatto sorprendente visto che, il recente e travolgente successo del neo sindaco, conteneva anche un netto e preventivo rifiuto a proseguire sulla strada proposta dal Comitato Organizzatore insediato con l’amministrazione precedente. Non sono però, in questa sede, interessato ad entrare nel merito pur essendo personalmente favorevole alla candidatura. Sono più interessato alle reazioni. Ma soprattutto al distacco sempre più netto, che queste reazioni testimoniano, tra gente comune e classe dirigente. La cultura del “not in my backyard” mi sembra possa rappresentarne il vero punto di partenza di questo “pensiero profondo”. Un “movimento di opinione”, prima locale poi sempre più diffuso che individua nelle scelte di una qualsiasi classe dirigente, locale, nazionale o internazionale l’avversario da battere. In parte per ragioni opportuniste in parte causate da paure di tutto ciò che è cambiamento del proprio status vero o presunto. In parte come risposta a tutto ciò che i cambiamenti hanno prodotto o rischiano di produrre al proprio vissuto quotidiano. Dalle migliaia di comitati locali che protestano su qualsiasi cosa in piazza, in televisione o in rete, passando attraverso movimenti politici di vario genere che nascono e si sviluppano in tutto l’Occidente per arrivare fino alla Brexit. La candidatura alle olimpiadi della città di Roma ne rappresenta sicuramente un’altra tappa. Temo anche il referendum di novembre. È un’onda inarrestabile? Ma soprattutto dove rischia di portarci? A mio parere non promette nulla di buono. È come se stessimo assistendo ad un’assemblea permanente di condominio dove nessuno alza più lo sguardo sui problemi veri ma dove nessun amministratore, che vuole conservare l’incarico, si permette di far ragionare seriamente i condomini. Non c’è nessuna volontà di cambiamento vero. C’è solo una radicale voglia di mettersi di traverso su tutto. La priorità ormai è quella di impedire i disegni altrui, non di affermare i propri che, spesso, non esistono nemmeno. È la fine della politica come strumento di mediazione e di proposta. Ovviamente c’è chi cavalca questo clima. Ho la netta sensazione che questo fenomeno si sia collocato definitivamente oltre lo schema novecentesco di contrapposizione tra destra e sinistra e che, le due grandi correnti di pensiero non riescano più a entrare in relazione, se non saltuariamente, con questo magma in continua mutazione. Si sta ormai diffondendo in tutti i Paesi occidentali con sembianze diverse. Da Trump che spinge un vecchio repubblicano come Bush senior a votare per la Clinton, a Frauke Petry in Germania che si oppone alla Merkel, a Farage in Gran Bretagna che vince e saluta, a Grillo in Italia. È un “NO” deciso ad un futuro ritenuto scritto da altri che, amplificato dai media, si rafforza scuotendo le fondamenta costruite dai sistemi democratici nel novecento. Personalmente credo che questo tsunami non porti a nulla di buono. Io sono per la democrazia rappresentativa e non amo né le assemblee di condominio, né alla rete che insulta, né le trasmissioni televisive dove si spettacolarizza la paura e il disagio. Spero che la buona politica, la cultura, la buona informazione, l’impegno personale e la coerenza possano fare da argine e far “cambiare verso” il nostro come gli altri Paesi. Le grandi prove di solidarietà conseguenti al recente terremoto sono lì a dimostrare che possiamo farcela e che siamo molto meglio di come vogliamo apparire. Il novecento ci ha costretto a prove ben più complesse ma, pur a fatica, chi ci ha preceduto ha saputo indicare come superarle. Le nostre radici sono lì. Dobbiamo solo convincerci che è possibile separare il grano dal loglio.

Panda sarà lei….

Essere Dirigente oggi non è facile. Circondati da luoghi comuni che assimilano l’intera categoria a Sergio Marchionne o con i bonus milionari percepiti da alcuni e indicati al pubblico ludibrio su pensioni e ruolo negativo nel pubblico impiego, si rischia di svilire e banalizzare un ruolo estremamente importante anche per il futuro del nostro Paese. I dirigenti privati oggi sono oggi più di centoventimila. Nel terziario di mercato superano abbondantemente i ventimila. Molti di meno rispetto agli altri Paesi. Insidiati dal basso dai Quadri, di lato da figure consulenziali e da ruoli temporanei. Da sopra, soprattutto nelle PMI, da una scarsa propensione di molti imprenditori a riconoscerne l’importanza per il futuro delle loro imprese. Ad una analisi superficiale potrebbe sembrare una categoria numericamente in declino ma non è così. È indubbio che c’è in corso un forte assestamento, soprattutto nel settore industriale. Assestamento dovuto alle riorganizzazioni aziendali che non hanno risparmiato la categoria e ai conseguenti ridisegni dei modelli organizzativi che hanno concentrato ruoli e responsabilità decisionali. Nel terziario che sta prendendo sempre più peso, assistiamo invece ad un fenomeno contrario con un leggero e costante aumento di nomine. Un altro luogo comune che compare ogni tanto sui media è che, ormai, il ruolo del dirigente e quello del quadro sarebbero, tutto sommato, sovrapponibili e quindi che le aziende sarebbero incentivate a mantenere il collaboratore in questa categoria impiegatizia, seppure collocata al massimo livello. Forse è stata la lingua inglese che ci ha portato fuori strada. La qualifica di “Manager” più qualcosa non si nega ormai a nessuno e quindi ruoli, compiti e funzioni si pensa possano sovrapporsi facilmente. Dirigente e Quadro sono due figure professionali ben diverse. Sia in termini di responsabilità che di ruolo aziendale. E questo nonostante che retribuzione e benefit tendano ad avvicinarsi. Omologare le due figure è sbagliato e controproducente. Per il singolo che si vede privato di una concreta possibilità di riconoscimento delle sue ambizioni, dell’impegno e delle competenze acquisite e per l’azienda che, se crede nel merito, nella crescita professionale e nell’investimento nelle sue risorse chiave non può nascondersi dietro un problema di costo per i suoi ruoli apicali. Tra l’altro l’idea che un collaboratore sia solo un costo ha fatto il suo tempo. Nel caso del dirigente è addirittura controproducente. Dire, come fanno alcuni colleghi DHR che un Quadro costa meno di un Dirigente è una affermazione tutto sommato banale. Certo che è così! Ma il punto è un altro. Essere Dirigente, oggi, non è un più un punto di arrivo come in passato. È uno snodo fondamentale per chi desidera crescere, gestire risorse e contribuire al successo della propria azienda. Per arrivarci occorrono diversi elementi non tutti raggiungibili solo attraverso competenze tecniche. Occorre investire costantemente su se stesso, sui propri punti forti, sulle proprie capacità che devono misurarsi con contesti sempre più complessi. Occorre saper “indossare una maglia” e ingaggiare costantemente i propri collaboratori verso obiettivi sfidanti e risultati concreti. Occorre saper difendere le proprie idee mettendole a disposizione dell’impresa sapendole integrare con quelle dei colleghi, andare oltre alle inevitabili delusioni e costruire sempre un clima positivo e collaborativo. C’è una sostanziale differenza tra essere Dirigente ed essere Quadro. E questa differenza non è colmabile con titoli artefatti, seppure internazionalmente comprensibili. L’investimento nelle risorse chiave in tutti i Paesi avanzati comprende, status, benefit, welfare come è più che in Italia. Ed il fatto che da noi i Dirigenti, ad esempio del terziario, siano tutelati da un contratto nazionale contenente un welfare d’avanguardia su sanità, previdenza e formazione, integrabile a livello aziendale dalla contrattazione individuale, è un elemento ulteriore di civiltà e di lungimiranza. Ma questa differenza non serve solo ai dirigenti. Serve anche ai Quadri che devono trovare nel loro dirigente di riferimento un esempio, un coach importante per la carriera, uno stimolo alla crescita. Ed investire su se stessi con continuità. Per questo occorre riflettere sul tema in modo meno superficiale. Lo si deve ai giovani che, ancora numerosi, si iscrivono nelle università, affrontano percorsi internazionali impegnativi e alle loro famiglie che fanno importanti sacrifici con l’obiettivo di vederli crescere e l’ambizione dei ragazzi di volercela fare. Lo si deve ai colleghi che, dirigenti oggi, si impegnano pur in mezzo a mille difficoltà proprie e dei propri collaboratori. Banalizzare ruoli e funzioni non porta da nessuna parte. Occorre al contrario incentivare la presenza di manager delle imprese, riconoscerne il merito, spingerli ad investire nelle proprie capacità e competenze, aiutarli nei passaggi delicati, sostenerli nel disorientamento che oggi attraversa tutto il mondo del lavoro. L’azienda di domani sarà un’azienda profondamente diversa rispetto a quella che abbiamo conosciuto. Sarà probabilmente abitata da robot, tecnologicamente avanzata, ricca di stimoli e meno legata ad un luogo fisico tradizionale. Ma in quell’azienda si farà strategia, si ingaggeranno i collaboratori, si prenderanno decisioni seppure in modo profondamente diverso da oggi. Così come da qui ad allora continueranno ad esserci Quadri e Dirigenti che, nel rispetto dei differenti ruoli, daranno senso e contenuto al termine “Manager”. I primi consapevoli del loro ruolo e delle loro prospettive professionali, i secondi maggiormente strutturati, più imprenditivi e più impegnati a condividere con l’impresa rischi e opportunità. Questo ha sempre fatto la differenza e continuerà a farla. L’estinzione del Panda quindi non è all’ordine del giorno. Anzi.

Una responsabilità da condividere.

Al polo logistico di Piacenza è morto un operaio egiziano investito da un camionista. Una notizia ormai già lontana che non ha prodotto alcuna riflessione vera. Eppure ci sarebbe molto da dire e da fare. Personalmente ho vissuto  la nascita di alcuni dei cosiddetti “poli logistici” in funzione della terziarizzazione delle attività di un’azienda della GDO nella quale ho lavorato con le conseguenze del caso. La problematica dei costi e della qualità del servizio, la sottovalutazione del problema della gestione delle risorse umane soprattutto conseguente all’esplosione dell’immigrazione e la degenerazione delle relazioni sindacali del comparto. Se oggi, in quel settore, siamo ripiombati sostanzialmente negli anni ’70 è perché siamo di fronte ad una responsabilità collettiva delle imprese committenti, delle imprese fornitrici di quel servizio e dei sindacati confederali delle categorie interessate.
Innanzitutto perché si sarebbe dovuto capire subito che un magazzino logistico di nuova generazione non era semplicemente un’evoluzione del magazzino di un’azienda di trasporti o dell’impresa stessa che si stava apprestando alla terziarizzazione. Eppure il nord Europa (soprattutto gli esperti belgi e olandesi) già mostrava chiaramente e prima dell’esplosione dei giganti della rete, che software impiegato, organizzazione della movimentazione delle merci, qualità del servizio e gestione delle risorse erano ben altra cosa rispetto ai modelli precedenti.
Le aziende committenti hanno invece preferito fermarsi alle clausole contrattuali, alle penali relative e ai KPI con i quali misurare le performance del fornitore del servizio disinteressandosi sostanzialmente di tutto ciò che avveniva all’interno di strutture sempre più sofisticate e di grandi dimensioni. Le aziende fornitrici, multinazionali o meno, intenzionate a gestire il business si sono trovate improvvisamente circondate dalla pressione delle aziende committenti e da regole sempre più stringenti, dalla fragilità del loro sistema di gestione delle risorse umane e, infine, dall’esplosione del fenomeno delle cosiddette “cooperative” che si affacciavano in questo mercato, in modo sempre più spregiudicato. Alcune serie, controllate dal mondo tradizionale della cooperazione, altre provenienti dallo stesso sindacato di categoria, altre ancora nate solo con lo scopo di accaparrarsi spregiudicatamente commesse e attività. E tutto questo mentre esplodeva il fenomeno dell’immigrazione regolare e clandestina che ha, a sua volta, cambiato profondamente l’offerta di lavoro sempre più rigidamente inquadrata in etnie spesso guidate da caporioni spregiudicati. Nelle contraddizioni prodotte da questo sistema si sono infilati COBAS e centri sociali che hanno cavalcato spregiudicatamente i bisogni e le tensioni che inevitabilmente hanno coinvolto quei lavoratori. Basti citare la mancanza di comunicazione e gestione diretta dei lavoratori da parte delle aziende, l’organizzazione stessa del lavoro e del contesto, i furti e i sistemi di prevenzione e repressione, la mancanza di servizi minimi sul piano sociale, ecc. Oggi siamo qui. Ogni tanto la rabbia esplode davanti a questo o quel magazzino, i camionisti si infuriano perché vengono bloccati spesso con merce deperibile a bordo, le forze dell’ordine faticano ad intervenire perché non sono preparate a gestire il nuovo confine tra una legittima lotta sindacale di alcuni e un conflitto di interessi tra etnie, lavoratori, e imprese differenti nello stesso luogo di lavoro. Imprese committenti e fornitrici si gestiscono le conseguenze spesso molto pesanti cercando compromessi pasticciati e i sindacati confederali mostrano tutta la loro impotenza davanti a questa situazione. Per i lavoratori non cambia nulla perché ciò che è stato concesso forzatamente con una mano verrà presto tolto con l’altra. Solo i COBAS esultano e si apprestano a proporre in altri magazzini le stesse rivendicazioni con le stesse modalità. Ogni tanto, però, ci scappa il morto o gravi episodi di violenza. Ma cosa si può fare per cambiare verso? Innanzitutto le aziende fornitrici dovrebbero investire nella gestione del personale molto di più di quello che fanno oggi. Anche dotandosi di mediatori culturali. Occorre recuperare un rapporto con le persone che, però, vanno considerate tali indipendentemente dalla loro nazionalità o etnia. In secondo luogo occorre che sindacati e aziende negozino un contratto nazionale di riferimento che tenga conto dell’evoluzione del comparto. Aggiungo che occorrerebbe anche arginare decisamente il fenomeno delle cooperative fasulle. Sento già la critica: e i costi chi li paga? È evidente a tutti che il costo di queste scelte finirà inevitabilmente sulle tariffe. Personalmente sono convinto che se si sviluppasse una vera partnership tra impresa committente, impresa fornitrice e sindacati di categoria il costo potrebbe essere ammortizzato da una migliore gestione delle risorse, dei comportamenti pretesi e una maggiore qualità del servizio. Tutti argomenti che potrebbero essere compresi in un nuova visione di un contratto di lavoro più coraggioso che guarda al futuro e non al passato. Altrimenti si può continuare così. Dispiacendosi per le conseguenze e continuando a girare la testa dall’altra parte. Occorre però sapere che la brace che cova sotto quel comparto è una delle risposte che un sistema lasciato degenerare porta con sé. E che prima o poi rischia di coinvolgere tutti.

“Venti” di cambiamento nella formazione manageriale…

Il Centro di formazione management del terziario (CFMT- formazione) supera la boa dei venti anni di attività. Il giorno 19 settembre festeggerà questo avvenimento insieme ad un partner con cui ha condiviso tutti questi anni: la SDA Bocconi. Nell’aula magna dell’Università davanti ai manager che in tutti questi anni hanno partecipato al percorso “STARTING” dedicato ai neo dirigenti verrà presentata una survey che ha coinvolto oltre 300 dirigenti del terziario italiano con la quale si è cercato di capire il rapporto tra la formazione manageriale, lo sviluppo di carriera e l’ employability dei manager. Il titolo è significativo:” 20 di cambiamento…”
Come ha sostenuto Dario di Vico, in un recente articolo sul Corriere, occorre ripensare al ruolo decisivo che l’economia dei servizi ha nel capitalismo contemporaneo, specialmente in un sistema come quello italiano impegnato a fare un difficile “salto di qualità” in termini di investimenti immateriali, trasformazione delle filiere e dei modelli di business, personalizzazione delle prestazioni.
Se la produttività e il PIL, in Italia, non crescono come accade in altri paesi europei, è anche perché la trasformazione in atto eccede l’orizzonte della fabbrica industriale, investendo in modo diretto l’economia terziaria. Che, certo, richiede l’uso diffuso di nuove tecnologie, ma richiede soprattutto il cambiamento della cultura delle persone che dovrebbero guidare e utilizzare la rivoluzione tecnologica e produttiva in corso.
Questa cultura – e in particolare la cultura manageriale e imprenditoriale – in Italia deve evolvere più rapidamente che in altri paesi, per adattarsi al mutamento di un contesto che sta diventando sempre più globale e digitale. Su questo terreno le imprese italiane hanno un compito più difficile di quello che tocca a quelle di altri Paesi, dotati di una presenza di grandi imprese multinazionali impegnate da tempo sul fronte della ricerca e dell’internazionalizzazione. In Italia, infatti, l’eredità culturale e organizzativa lasciata dal successo dei sistemi locali (distrettuali) e dall’uso diffuso della conoscenza pratica (personale, non codificata), nel periodo 1970-1990, è diventata – col tempo – un freno inibitore, che pesa sulla capacità di evoluzione delle imprese, negli anni post-2000. Rispetto alla golden age distrettuale, infatti, il vento è cambiato, ma per le imprese e per i manager non è facile abbandonare le vecchie rotte e cercarne attivamente delle nuove, in direzioni differenti. I nuovi modelli di business delle imprese nel mondo post-2000 devono infatti associare le relazioni dirette interpersonali, cresciute nei sistemi locali (di cui hanno esperienza), con quelle a distanza, che danno accesso alle reti globali. E devono, inoltre, declinare il sapere pratico e informale, usato in precedenza, con i linguaggi formali e i codici che è necessario usare nell’economia digitale. La survey che ha coinvolto oltre 300 dirigenti ha evidenziato tre elementi importanti. Innanzitutto che chi ha iniziato con il piede giusto accettando l’invito della propria azienda o decidendo autonomamente di partecipare a questo percorso ha continuato a credere nella propria formazione e ha poi proseguito scegliendo di continuare a rafforzare le proprie capacità e le proprie competenze in ambito multidisciplinare e interaziendale. In secondo luogo chi ha fatto questo corso ha saputo impegnarsi per colmare costantemente il gap tra le proprie competenze e quelle richieste dal mercato. Infine la community. Fare formazione interaziendale favorisce le relazioni, consente di farsi conoscere, rafforza la propria brand identity. La SDA è stato il partner ideale. Non si collabora oltre venti anni se non si costruisce e non si cresce insieme. Oltre 1500 dirigenti sono passati da lì. Aziende del calibro di CISCO, PUBLITALIA, CARREFOUR, AUTOGRILL, SAMSUNG, GOOGLE, KPMG, MEDIAMARKET, METRO ITALIA CASH & CARRY, OVS – GRUPPO COIN, RICOH ITALIA, TOSHIBA, così come molte PMI del commercio, del turismo, della logistica e dei trasporti, hanno mandato i loro futuri manager ai nostri corsi spesso integrando le opportunità formative di CFMT con quello delle loro Academy interne nazionali e internazionali. E questo ci rende particolarmente orgogliosi.
Insieme alla SDA Bocconi continueremo rafforzando la community, progettando nuove iniziative da mettere a disposizione dei nostri manager.
Cfmt, il centro di formazione dei dirigenti del terziario, nasce da un’intuizione di Guido Gay allora presidente di Manageritalia che vantava un percorso manageriale di primo piano in aziende come l’Olivetti di Adriano, la Penney americana e la Rinascente di Borletti ove ricordava sempre “c’era spazio, possibilità di espressione e opportunità di autorealizzazione”. Un’intuizione condivisa, sul piano contrattuale, con Confcommercio. Era il 1993. Pensare allora ad un centro di formazione sostenuto dai dirigenti e dalle imprese del settore non era facile. Non ci erano riusciti i dirigenti industriali nei loro contratti né esistevano esempi da imitare. Oggi si parla sempre più spesso di diritto soggettivo alla formazione. Arrivarci nel 1993 dimostra una lungimiranza che, allora, si confrontava con un presunto individualismo di una categoria che, al contrario, dopo la previdenza e l’assistenza sanitaria cominciava a porsi il problema della impiegabilità e della crescita professionale. Costruire un centro di formazione di alto livello a disposizione dei ventimila dirigenti e delle novemila aziende del terziario, del turismo, della distribuzione e dei servizi attraverso un contributo di sole 250 euro all’anno (di cui metà a carico dell’impresa nel quale il dirigente è occupato) consente di mettere a disposizione il meglio dei professionisti che operano nel campo della formazione manageriale ai singoli dirigenti attraverso un ricco catalogo interaziendale e di proporre, alle imprese che ne fanno richiesta, corsi tagliati su misura sulle loro specifiche esigenze. In venti anni oltre 18.600 dirigenti coinvolti e oltre 8.400 aziende dimostrano il successo di quell’intuizione. Oggi CFMT può anche contare sul supporto di un comitato scientifico di alto profilo che coinvolge docenti universitari dei principali atenei, professionisti e imprenditori, le federazioni di appartenenza delle imprese dei diversi settori e le associazioni manageriali distribuite su tutto il territorio nazionale. Insieme decidiamo progetti comuni, ricerche, iniziative pubbliche e osservatori dedicati. Per questo l’anniversario del giorno 19 settembre per noi non è un semplice anniversario ma è solo un pretesto per riflettere, ascoltare e accettare nuove sfide.

I futuri livelli della contrattazione.

Credo ormai sia chiaro a tutti che la riforma dei livelli contrattuali dovrà affrontare un paradosso. Senza il contratto nazionale non si va da nessuna parte ma, il contratto nazionale, così com’è stato concepito negli ultimi cinquant’anni, non consente di arrivare da nessuna parte. Il CCNL, checché se ne dica, presenta, però, ancora dei vantaggi indiscutibili. Per i lavoratori costituisce una garanzia importante di equità. Dall’altro lato le aziende del settore coinvolto, lo accettano, lo rispettano e lo applicano. Quindi è ancora uno strumento che non lascia spazio a discriminazioni e dumping salariale tra imprese. Inoltre è l’unico possibile contenitore per un valido welfare integrativo. Se prendiamo il comparto del terziario, chi non lo ha ancora firmato (ad es. FIPE, Federdistribuzione, Cooperazione) lo vorrebbe comunque avere, seppure con contenuti diversi. Fuori dal terziario, salvo FCA e pochi altri, nessuna impresa chiede a gran voce di superarlo. Semmai lo chiedono gli opinionisti, spesso troppo sbrigativi, sulla materia. È indubbio che sia una situazione molto difficile anche per le organizzazioni sindacali di quei settori che si trovano in difficoltà proprio dove hanno la maggiore concentrazione di iscritti. Questa premessa per concludere che, senza regole certe, il semplice superamento del CCNL porterebbe, inevitabilmente, ad una marginalizzazione tout court della contrattazione. Si contratterebbe di meno, non certo di più. Marco Bentivogli, leader della FIM CISL, lo ha capito benissimo e quindi insiste nel proporre una contrattazione di secondo livello, integrativa di quella nazionale, come questione di democrazia sostanziale e chiede a Confindustria di condividerne la sfida soprattutto per quanto riguarda le PMI spingendo verso un modello territoriale. Il messaggio è chiaro. La corresponsabilità non può essere a senso unico. Occorre costruire insieme le nuove regole, fidarsi reciprocamente, rendere effettiva la contrattazione aziendale e, dove non dovesse essere possibile, bisognerebbe saper costruire una contrattazione territoriale sostanzialmente esigibile. Quindi estesa anche dove oggi l’applicazione del CCNL tiene il sindacato fuori dai cancelli. Anche perché il sistema attuale è erga omnes mentre quello proposto non lo è. Al momento, però, la FIM sembra parlare solo per sé. Federmeccanica (e Confindustria), sembra optino per un modello profondamente diverso dove, oltre ad un ruolo di garanzia sui minimi, al welfare e alla formazione affidati al CCNL sarebbe, di fatto, l’impresa che decide se coinvolgere o meno il sindacato, su cosa e, sostanzialmente, a quale livello aderire. Soprattutto laddove il sindacato non è presente. Non chiarisce (almeno per ora) l’entità, il modello e i luoghi dove rendere effettiva la corresponsabilità. Modelli e proposte non semplici da far coesistere. Inoltre nel metalmeccanico tradizionale la dimensione territoriale, in molte realtà, ha ancora un senso. Non è così in molti altri comparti. È vero che il territorio resta un riferimento economico e sociale comprensibile per tutti i lavoratori (costo della vita, consumi, ecc.) ma non lo è per le imprese. Soprattutto in ottica 4.0. “Costringerle” a vincolarsi ai risultati di una contrattazione avulsa dal loro contesto competitivo potrebbe rilevarsi un errore. Per questo continuo a pensare che l’unica strada praticabile sia rappresentata da un modello di CCNL che preveda deroghe applicative chiare. Deroghe che possono essere di comparto o di azienda. Oppure di territorio ma solo in presenza di territori sufficientemente omogenei. In altri termini una volta concordato il ruolo e il peso distributivo affidato al CCNL (individuando una sorta di nuova IPCA di riferimento) si potrebbe prevedere ciò che potrà essere derogato e dove, in che modo e per quanto tempo. Quindi la contrattazione aziendale, di comparto o di territorio disporrebbe, come minimo, di una quota che, se non distribuita, verrebbe (automaticamente?) riconosciuta ai lavoratori, oppure integrata ed aumentata se, lo scambio verrà ritenuto congruo da entrambe le parti stipulanti il contratto stesso. Tra l’altro, questo approccio, consentirebbe di superare lo scoglio rappresentato dall’alternatività o meno dei due livelli contrattuali che si integrerebbero positivamente, pur all’interno di regole precise. E questo, credo, aiuterebbe anche la chiusura del contratto dei metalmeccanici. È sostanzialmente il modello adottato nel terziario. Un forte welfare (previdenza e sanità) a cui si aggiungerebbe la formazione come diritto soggettivo, minimi contrattuali con meccanismi di assorbimento definiti, materie derogabili, diritti e doveri. In attesa di una vera riforma del salario e del contesto legislativo e fiscale collegato. Il punto centrale credo sia la qualità e la certezza dello scambio. E i reciproci vantaggi. Per le imprese e le loro rappresentanze ma anche per i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali.

Lo spreco dei NEET. Il nuovo libro di Alessandro Rosina

Un libro sicuramente da leggere. Per gli addetti ai lavori, soprattutto per imprenditori e sindacalisti. Ma anche per chi ha dei figli. I NEET (i giovani che non studiano e non lavorano) li abbiamo creati noi. In famiglia, cercando di perpetuare il più a lungo possibile il loro stato di immaturità e quindi di dipendenza e nella scuola continuando a proporre percorsi deboli sul lato tecnico professionale e dallo scarso rendimento individuale per quelli più elevati nei quali i giovani dovrebbero riporre impegno e aspettative. A questi elementi, purtroppo strutturali, occorre aggiungere la mancanza di politiche attive, il modesto impegno delle imprese ma anche la disattenzione dei sindacati. Il rischio, però, è che la colpa sia sempre di qualcun altro. E quindi ciascuno può, a modo suo, assolvere la propria coscienza. L’analisi è impietosa. Mostra la distanza con gli altri Paesi e il rischio che una generazione sostanzialmente perduta contribuisca ad un declino, aggravandolo. Rosina però, grazie alla sua formazione e al contesto nel quale riflette e propone le sue analisi non cede al pessimismo cosmico tipico di questi tempi ma individua alcune opzioni a portata di mano. Esagera in ottimismo quando “sogna” risolti tutti i problemi nel 2025 ma le sue proposte concrete sono interessanti. Innanzitutto occorre non fermarsi agli alibi. Altrimenti questi si trasformeranno in vere e proprie condizioni di svantaggio così come sperare che la fine della crisi economica possa risolvere da sé questo problema potrebbe rivelarsi una illusione pericolosa. Quattro proposte che dovrebbero essere messe al centro della riflessione comune. Innanzitutto fare in modo che tutti concludano il loro percorso educativo perché chi abbandona il proprio ciclo di studi (a qualsiasi livello) è più esposto alla precarietà ma anche a fragilità professionali e personali. Per fare questo occorre conoscere il fenomeno, monitorarne l’evoluzione, mirare gli interventi e misurarne gli effetti. In secondo luogo consentire l’acquisizione di competenze utili nella vita lavorativa. Stage e apprendistato sono gli strumenti più idonei. Però occorre maggiore lungimiranza sociale delle imprese e nelle imprese che consentano di superare il disorientamento prodotto in questi anni dall’uso strumentale di queste opportunità allineandole alle esperienze più avanzate in Europa. La terza proposta riguarda l’opportunità di una presenza attiva nel mercato del lavoro. Purtroppo i progetti messi in piedi fino ad ora, improntati al “partiamo e poi vediamo”, rischiano di produrre solo disorientamento, disimpegno e spreco di risorse economiche. E questo non possiamo permettercelo. L’auspicio dell’autore è quello di dotare il nostro Paese di un solido sistema di politiche attive incardinate su efficienti centri per l’impiego. La sua speranza è che la riorganizzazione dei servizi pubblici per l’impiego e l’istituzione dell’Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) vadano in questa direzione. Ultimo, ma non meno importante, occorre stimolare e sostenere l’intraprendenza delle nuove generazioni. Su questo non partiamo da zero. Soprattutto è già possibile constatare che dove l’intraprendenza personale trova un contesto adatto si sviluppano interessanti sinergie e prospettive di attività e quindi di lavoro. In estrema sintesi occorrerebbe un lavoro comune che favorisca autonomia, intraprendenza, senso di responsabilità e apprendimento continuo. Alessandro Rosina lo scrive e ci crede. Alla presentazione del Rapporto Giovani 2016, indagine realizzata dall’Istituto Toniolo con il sostegno di Intesa San Paolo e Fondazione Cariplo, presentata recentemente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel suo intervento ha affermato:”«Essere felici nella fase giovanile risulta sempre meno una condizione dell’essere spensierati e sempre più legata al fare, alla possibilità di mettersi alla prova con successo in un contesto che incoraggia ad essere attivi nel migliorare il proprio futuro». La conclusione, in quel convegno ma anche del libro è quindi “semplice”: Fare, Felicità e Futuro. Le tre F su cui dovrebbero puntare i giovani italiani nei prossimi anni. Ovviamente non da soli.

Contratto metalmeccanici, le carte cominciano ad essere sul tavolo..

Il recente articolo di Marco Bentivogli su FIRST on line, dal mio punto di vista, è un chiarimento necessario e certamente utile alla ripresa del confronto sul rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Innanzitutto non ci sono pregiudiziali esplicite né minacce che non aiuterebbero di certo il confronto e la successiva conclusione del negoziato. Ci sono però tre suggerimenti importanti su cui riflettere. Il primo. Il sistema delle relazioni sindacali va ripensato. E non è solo interesse delle organizzazioni dei lavoratori. Su questo non si può non essere d’accordo. Non è più, come in passato, un problema di “falchi e colombe” annidati in entrambi gli schieramenti ma è un problema di Sistema. Aziende e lavoratori devono collaborare facendosi carico di rischi e opportunità. Non subendoli. Conservazione e innovazione si ridefiniscono continuamente passando per questo crinale. Impresa e lavoro nella globalizzazione, che lo si voglia ammettere o meno, giocano la stessa partita. Ed è una partita difficile perché altrove, di fatto, hanno già scelto chi scende in campo. O Darwin o insieme. E, questo nuovo senso di responsabilità e di coinvolgimento non si deve fermare al lavoro. Non sarebbe sufficiente. È l’insieme del Sistema che deve trovare un diverso modo di collaborare e quindi di competere. E, questa collaborazione, non può lasciare in panchina le organizzazioni di rappresentanza. Simul stabunt simul cadent. Il secondo. Questo contratto deve saper mettere al centro la persona. Fondamentale. Non un anonimo lavoratore indifferenziato in un contesto fordista. “Salute, benessere, valorizzazione e realizzazione nel lavoro”. Questo significa previdenza complementare, assistenza sanitaria, formazione. Ma anche politiche attive, opportunità di crescita, merito. Questo elemento, che potrebbe costituire il “cuore” di questo rinnovo, trova già convergenze apprezzabili tra le parti in causa. Il terzo riguarda la questione salariale. Su questo permane un equivoco. Anche in Bentivogli. Le aziende, soprattutto in un logica post fordista, non hanno interesse a discriminare. Non è più così da tempo. Le aziende hanno politiche retributive precise che non negoziano e che si stanno sviluppando ulteriormente. Il compito del sindacato è un altro.  C’è un problema legato all’inquadramento, alla possibilità di rimettersi in gioco come persona o di essere messi in discussione professionalmente dall’azienda che, prima o poi, dovrà essere affrontato. Dalle confederazioni, dalle categorie e nelle imprese. Un’altra cosa è affidare al CCNL il compito di tutelare il potere di acquisto e, alla contrattazione aziendale, quello di occuparsi di produttività, coinvolgimento, salario ad obiettivi, ecc. Su questo la posizione di Federmeccanica è oggettivamente debole. Visto da fuori è l’area dove i tatticismi stanno ancora prevalendo sulla strategia. Su questo Bentivogli è chiaro molto di più di altri sindacalisti. Il CCNL ha una funzione che deve essere rispettata. Semmai occorre definire, insieme, contenuti e deroghe possibili. Quindi andrà individuato un nuovo equilibrio. Il rischio è che si sacrifichi il potenziale di innovazione contenuto nelle reciproche proposte (pur su tematiche differenti) per accontentarsi di una firma comunque. Bentivogli sembra voler esorcizzare questo rischio. Però dipenderà anche dagli altri negoziatori anche perché credo che su questi tre elementi, e sull’equilibrio tra di essi, si giocherà la possibilità o meno di sottoscrivere il contratto in tempi ragionevoli.

Tutti in corsa per gestire il capitale umano delle imprese?

Negli anni 90 in Francia uscì un libro dal titolo estremamente significativo: “Tous DRH”. Tutti direttori risorse umane. Spiegava cosa e come fare a gestire le risorse umane in azienda senza dover ricorrere per forza agli specialisti della funzione RH. Si rivolgeva ai manager delle vendite, della logistica, dell’amministrazione invitandoli a gestirle in prima persona. Indicava una necessità ma anche una tendenza che presto si sarebbe affermata, non solo in Francia. Una necessità perché le risorse umane dovevano ovviamente essere gestite innanzitutto dai propri responsabili e non da altri. Gestire, per un’azienda, significa ascoltare, spiegare, ingaggiare, condividere, motivare, riconoscere. E, queste capacità tutti le devono e le possono apprendere. Segnalavano però anche l’inizio di una tendenza dovuta anche (non solo) alle quotazioni di borsa che fino alla crisi avrebbero eccitato a dismisura fondi di investimento e top manager di molte imprese con le inevitabili riorganizzazioni aziendali provocate da continue acquisizioni, fusioni e incorporazioni che hanno, tra le altre conseguenze, stravolto gli organigrammi preesistenti. Le funzioni di staff e molte altre funzioni aziendali sono state ridotte al minimo. Così come alcune attività esclusive delle Direzioni Risorse Umane. In Italia l’effetto di queste politiche ha determinato, nel tempo, una forte riduzione di peso delle Direzioni Risorse Umane le cui responsabilità sono state inglobate, verso l’alto dai CEO stessi o dai Comitati di Direzione e, verso il basso, dai manager di linea trasformando la funzione più da consulente interno “senza portafoglio”. Da qui il presidio sui costi, sui tagli, sulla formazione finanziata e, di conseguenza un sostanziale ridisegno del ruolo sempre più tattico e sempre meno contributore della strategia ovviamente in modalità e gradi diversi a seconda del settore e dell’azienda. D’altra parte davanti a un CEO che ragiona con la trimestrale in mano c’è poco da fare strategia sulle risorse umane e sulla gestione dei talenti! La profondità della crisi e la necessità di alzare lo sguardo hanno aiutato a superare in parte quella fase. Da un lato la necessità di coinvolgere, ingaggiare e investire sul capitale umano dell’impresa sono tornati centrali soprattutto con il parallelo venire meno del fordismo anche nelle sue ricadute gestionali e quindi contrattuali. In questo nuovo contesto le risorse devono essere trattenute, motivate e gestite individualmente o in squadra ed è impossibile riservare queste politiche solo agli alti livelli. La gestione delle risorse deve essere oggettiva, meritocratica e trasparente. Soprattutto, per il collaboratore, perché dovrà sempre più accompagnarlo nel suo percorso professionale, anche oltre l’azienda stessa. Dall’altro lato i veri professionisti della funzione hanno saputo dimostrare che il clima interno, fondamentale per affrontare qualsiasi sfida, non si rafforza declamando valori non agiti, affogando dubbi e incertezze in sfarzose quanto inconcludenti convention motivazionali o lanciando inutili survey dai risultati stupefacenti adatti più alla Pravda di antica memoria che ad un’impresa che ha bisogno di coerenza, esempio e realismo. Nel frattempo il sindacato, in tutto o in parte, si è praticamente eclissato dalla vita delle aziende (non in crisi) ritagliandosi un ruolo marginale e notarile nei confronti delle imprese ma soprattutto allontanandosi dalle nuove generazioni che via via si affacciavano al lavoro in modalità diverse dal passato lasciando purtroppo la convinzione in molti manager di medio e alto livello, di poter fare di tutto e di più, di “interpretare” regole e contratti in modo sempre più spregiudicato e di poter osservare il sistema delle relazioni sociali e delle associazioni di rappresentanza come una sorta di mondo in via di estinzione. E di conseguenza, di “sopportare” i colleghi manager delle direzioni risorse umane impegnati a sottolineare rischi e opportunità non colte. Anche questa fase, fortunatamente, sembra però volgere al termine. L’irrigidimento sui contratti nazionali di alcune federazioni datoriali ne segnala i titoli di coda, la chiusura di altri contratti nazionali (terziario, chimici e alimentaristi) e lo stesso confronto (pur complesso) aperto sul tavolo dei metalmeccanici segnala la volontà di provare a percorrere nuove strade. I soggetti più attenti del sindacato, delle imprese e delle associazioni datoriali più sensibili stanno segnalando la necessità di questo cambio di fase. La scelta della “corresponsabilità” proposta da Confindustria o della “collaborazione intraprendente” proposta tempo fa da Confcommercio vanno entrambe in questa direzione. Così come le riflessioni che attraversano alcune Federazioni di categoria del sindacato. C’è un vecchio proverbio arabo che recita: “La differenza tra un deserto e un giardino non è l’acqua ma l’uomo.” Quello che ci attende è una scommessa nuova. Per le imprese e per il sindacato. Una scommessa che va oltre la vecchia cultura collettiva di derivazione sindacale e fordista ma anche dalla cultura aziendale che pensa di gestire autonomamente un soggetto, il collaboratore, che sempre più sa quello che vuole e che non necessariamente coincide con i voleri dell’impresa nella quale è momentaneamente impiegato. Per questo bisogna stare attenti a non commettere l’errore di semplificare troppo il contesto sperando che il sistema trovi un suo equilibrio da solo. Se così fosse sprecheremmo solo una buona opportunità. Le imprese che oggi credono di poter fare da sole devono poter cogliere i vantaggi di un rapporto nuovo e costruttivo con un sindacato diverso dal passato e il sindacato deve abbandonare l’idea che ciò che non è più possibile realizzare con i rapporti di forza possa essere riprodotto, più o meno con gli stessi risultati, con altre modalità. Quel mondo è finito. Manghi nella prefazione dell’ultimo libro di Marco Bentivogli accenna al rischio che il sindacato si sia “fermato nostalgicamente su di un breve e irripetibile periodo facendone un paradigma obbligatorio”. Se così fosse, non si andrà da nessuna parte. In un mondo globalizzato l’impresa e il lavoro possono tornare essere centrali ma solo se si percorrono strade nuove. Non possiamo pensare che con le regole del ‘900 siamo in grado reggere l’urto della concorrenza mondiale, costruire una nuova cultura del management, formare milioni di persone orfane del fordismo e di organizzazioni top down e definire un modello autoctono maggiormente collaborativo e costruttivo. Dobbiamo, insieme, individuare le priorità e creare le condizioni per rilanciare la nostra economia. Certo le risorse economiche a disposizione sono poche ma è difficile pensare di bypassare il confronto con questo Governo che ha lanciato segnali inequivocabili di volontà riformatrice, magari rinviando la soluzione sperando nel prossimo, seduti sulla riva del fiume. Il ruolo di questo Governo è importante e non va sottovalutato anche se occorrerebbe osare di più. Non bisogna accontentarsi di un “accordicchio” finalizzato solo a influenzare i giudizi dei nostri partner europei. I recenti accadimenti luttuosi dimostrano che il Paese cerca concretezza, consapevolezza, unità e lungimiranza. Cogliere queste esigenze significa pensare veramente alle nuove generazioni e alle loro esigenze e non a legittimi quanto ormai irrealizzabili interessi di ciascuna delle “botteghe” coinvolte.

Governo, riforma del modello contrattuale e sindrome di Münchausen

Leggendo gli articoli che via via appaiono sulla stampa, in relazione alla prossima probabile riforma della contrattazione, si ha la netta impressione che un rischio possa essere anche quello di farci solo del male con l’unico scopo di attirare attenzione e simpatie dall’Europa. Magari per ottenere qualche dilazione sui conti pubblici. E così di continuare a manifestare i sintomi di una specie di sindrome di Münchausen, di cui, ultimamente sembriamo affetti. La riforma della contrattazione è un passaggio delicato e importante che non va sottovalutato. Non esistono scorciatoie.
Purtroppo l’insistenza sulla necessità di decentrare la contrattazione come unica soluzione fattibile e a portata di mano lo dimostra in modo evidente. Ne parlano molti, a proposito ma anche a sproposito. Giuslavoristi, opinionisti, consulenti aziendali, esperti e inesperti della materia. Alla domanda sul perché non c’è abbastanza contrattazione aziendale, in Italia, si è trovata una risposta semplice e cioè che ci sarebbe una contrattazione nazionale pesante che, di fatto, la rende marginale. E ancora che la produttività è bassa anche perché non c’è la possibilità per le aziende di legare parte dei salari a questo scopo. A mio parere si tratta di pericolose semplificazioni. Premetto che non sono affatto contrario ad un rilancio serio della contrattazione aziendale. La trovo assolutamente idonea a risolvere alcuni problemi (produttività, vincoli organizzativi, coinvolgimento, salario legato a particolari performance, ecc.). Mi piace di meno quando lascia l’azienda, sola, in balia delle sue priorità del momento e delle contropartite richieste da sindacalisti di vecchio conio per condividerle. Oggi, la contrattazione aziendale, è praticata da una modesta minoranza di aziende, seppur significative. Nel terziario non sfiora il 3%. Nell’industria, presa complessivamente, forse non arriva al 10%. La punta è nei metalmeccanici con circa il 30%. E queste percentuali, sono in calo, non in crescita. Ed è, infine, per buona parte una contrattazione di natura “concessiva” o “restitutiva” perché affronta temi legati a ristrutturazioni, tagli, riduzioni di costi, flessibilità. Certo ci sono anche aziende che scommettono sul welfare e sul benessere dei propri collaboratori ma lo fanno senza coinvolgere il sindacato o limitandosi a coinvolgerlo solo sul piano formale. Come sulla formazione. Così come molte imprese hanno una propria politica retributiva e di sviluppo delle risorse che si integra con il CCNL ma che non è condivisa con nessuno. Continuo a pensare che i problemi veri, per le aziende, di cui nessuno sembra preoccuparsene siano rappresentati dalla struttura della retribuzione (salario minimo, salario professionale e salario a obiettivi) , da un inquadramento ormai obsoleto (mansionari e livelli), da un codice civile che è stato predisposto in epoca completamente diversa da oggi (dove la mansione era per la vita e comunque sempre in crescita) e dal costo del lavoro comprensivo di carico fiscale e contributivo eccessivo. Tutti argomenti che, a livello aziendale, non possono essere nemmeno sfiorati o quasi. Nelle condizioni attuali la stragrande maggioranza delle imprese non sarebbe interessata ad alcun tipo di contrattazione aziendale. Qualcuno, prima o poi, lo dovrà pur dire. Le aziende più attente, semmai, vogliono gestire autonomamente i propri collaboratori sia sul piano economico che professionale. Il neo Presidente di Confindustria Boccia, nel suo discorso di insediamento lo ha lasciato intendere molto bene: “occorre trovare una soluzione che consenta, a chi non vuole o non può contrattare in azienda, di avere un contratto nazionale di riferimento”. Quindi di cosa stiamo parlando? Ho sentito raccontare, in un recente servizio televisivo sull’argomento, che questa “riforma” consentirebbe al Governo di ottenere, in cambio dall’Europa, una maggiore flessibilità nei conti pubblici. Se fosse così, facciamola pure. Ma, almeno, tra di noi, non prendiamoci in giro. Senza un contratto nazionale di riferimento e una sorta di nuova IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato) stabilire la prevalenza della contrattazione aziendale tout court significa, nel lungo periodo, abbassare i salari reali per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Questo deve essere chiaro. La mancanza di regole certe sulla esigibilità spingerà molte aziende in affanno o in difficoltà a muoversi con estrema decisione su questo versante. E, molte altre ad approfittarne creando pericolose situazioni di dumping.
Ma sopratutto questa scelta, se sganciata da altri interventi conseguenti, cristallizzerebbe definitivamente la cosiddetta “legge del pendolo” come unico elemento di (dis)equilibrio tra le parti. Il più forte comanda e detta tempi e contenuti. Ieri era il sindacato, oggi sono le aziende, domani, chissà. Non mi sembra né un sistema da condividere, né collaborativo, né moderno. Quindi cosa occorrerebbe fare? Innanzitutto mantenere il contratto nazionale di riferimento stabilendo tra le parti le materie che possono essere derogate ad altri livelli (aziendali, di comparto, ecc.) quindi il luogo dove può avvenire lo “scambio” e su cosa. Inoltre occorrerebbe definire le materie specifiche del livello aziendale e come si articola il confronto dove c’è una rappresentanza sindacale ma anche come si procede dove non dovesse esserci. E quali garanzie concrete per i lavoratori. Infine occorrerebbe aprire un confronto con il Governo sul costo del lavoro e sulle leggi che dovrebbero essere modificate per rendere effettivamente flessibile (non precario) il rapporto di lavoro, in entrata, in costanza e dopo. E le contropartite per il sindacato confederale e per i lavoratori in termini di concreta ed effettiva “corresponsabilità”. Vantaggi e svantaggi. E, tra le parti, un negoziato di merito sul nuovo modello contrattuale. Altrimenti la montagna è destinata inevitabilmente a partorire un topolino. Continuo a pensare che da questa situazione non se ne esce con mosse ad effetto né con scorciatoie. È necessario ricostruire un modello di regole per il lavoro che deve saper trovare un nuovo equilibrio tra diritti, doveri, strumenti e rappresentanza. Soprattutto occorre uscire definitivamente dalla logica dei rapporti di forza che, di volta in volta, rendono asimmetrico e quindi sbilanciato il rapporto di lavoro. Aldo Moro ci ha insegnato che “questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. E questo vale sia per gli imprenditori che per i lavoratori. E, ovviamente, per le loro rappresentanze. Occorre decidere, una volta per tutte, di fare un passo avanti per mettere a disposizione soprattutto delle nuove generazioni un sistema moderno e più attento alle esigenze concrete di flessibilità delle imprese e che concretizzi questa “corresponsabilità” rafforzando il ruolo del capitale umano in azienda e della collaborazione, qualificando il welfare di natura contrattuale, il diritto soggettivo alla formazione e la tutela del salario reale. L’autunno è ormai dietro l’angolo. Il tempo a disposizione non è molto per decidere quale dovrà essere la direzione di marcia. E Il rischio che la situazione si aggrovigli tra contratti aperti e risorse scarse a disposizione del confronto con le parti sociali è, purtroppo, molto alto.

Contratti pubblici, farli, si, ma pensando al futuro..

Ha ragione Annamaria Furlan segretaria generale della Cisl ad essere preoccupata. Se gli interventi importanti a sostegno delle imprese voluti dal duo Calenda-Padoan verranno messi in contrapposizione a quelli necessari per pensionati e contratti condivisi dal duo Nannicini-Poletti si commetterà un errore grave perché è indubbiamente vero che gli interventi sul versante sociale costituiscono anch’essi un volano importante per i consumi e per l’economia. Occorre trovare, insieme, le risorse necessarie. Sette miliardi per i contratti, 2,5 per la previdenza. Questa sembrerebbe essere la richiesta sul tavolo tra Governo e Sindacati. All’inizio la proposta di Madia era di trecento milioni. Pochi prima, troppi adesso. Restando sul contratto della PA vorrei essere subito chiaro. A mio parere non esiste lo spazio per un contratto nazionale che recuperi lo stop di tutti questi anni. Occorre saper andare oltre. E, soprattutto, lo scambio inevitabile tra dare e avere deve essere chiaro, esigibile, trasparente e, finalmente, condiviso. Ci sono due elementi che potrebbero aiutare il negoziato aggiungendosi al quantum economico che il Governo può mettere sul tavolo per concludere la trattativa spalmandone i costi su più anni. Innanzitutto il tema dell’organico nei differenti comparti, della sua quantità, della distribuzione sul territorio, della necessaria mobilità e del livello di rimpiazzi possibili legati al turn over. E questo cercando di salvaguardare al massimo le problematiche dei lavoratori, pur all’interno di un contesto riorganizzativo complesso. In secondo luogo come e quanto redistribuire degli eventuali risparmi ricavati da questa operazione. Per la PA si tratterebbe del primo confronto nel quale il sindacato confederale si può presentare unitariamente come soggetto in grado di negoziare una riorganizzazione complessiva e concordata dopo la fase della concertazione di vecchio conio. Per farlo occorre il tempo necessario per coinvolgere i lavoratori del settore e quindi far crescere una nuova consapevolezza che sappia mettere ai margini tutte quelle forme di sindacalismo opportunista e radicale che si sono potute sviluppare negli anni per complicità con la politica e per errori dai quali lo stesso sindacalismo confederale non è rimasto immune. Le posizioni di partenza (300 mio vs. 7 mdi) sono ovvie e scontate. In ogni negoziato la fase della rappresentazione delle rispettive posizioni di partenza è inevitabile. E non serve banalizzarle. Occorre, al contrario, che i negoziatori siano credibili, che abbiano il mandato e conoscano a fondo la materia. Soprattutto un progetto serio su cui misurarsi. Oggi, nella PA le preoccupazioni sono diverse e diffuse. Non c’è una massa compatta, fordista, desiderosa di risposte egualitarie. C’è una grande consapevolezza della posta in gioco, così come del fatto che la riorganizzazione, comunque necessaria, può essere una grande occasione di coinvolgimento e partecipazione. Ma anche di un recupero di immagine necessaria presso l’opinione pubblica. Le proposte del Governo non sono certo neutrali. Così come la natura e la maggioranza che sostiene questo Governo che non dovrebbe essere sottovalutata dai sindacati. Ma anche la necessità di puntare decisamente sul merito, sulla formazione, sulla qualità del servizio al cittadino utente e sulla salvaguardia dei redditi più bassi. Questa però è un’occasione importante nella quale il sindacato confederale e di categoria potrebbero ritornare ad essere protagonisti e collegarsi al processo riformatore che è comunque in atto nel Paese e che può trovare in questa vertenza una conferma importante. Ma è un’opportunità anche per il Governo e per le forze politiche che lo sostengono. Gli ultimi segnali confermano la volontà di confrontarsi con il sindacato. Il ministro Madia è stato chiaro. Così come i sottosegretari coinvolti. Il negoziato ci sarà. Nessuno può sottrarvisi senza una motivazione profonda. In questa fase non serve farsi condizionare da chi preferirebbe far saltare il banco per altri fini. E, questa vicenda, non dovrebbe, in alcun modo, essere collegata al referendum o al suo presunto esito. Un rinnovo di contratto nazionale, seppure difficile e complicato come quello della PA, paga decenni di errori e di compromessi politici e sindacali e vive di dinamiche proprie. Però qualsiasi errore del passato non giustificherebbe un errore ben più grave che consiste nel non credere utile e possibile questo negoziato. È, credo evidente a tutti, che non si cambia la PA contro i lavoratori pubblici né consegnandoli all’estremismo inconcludente delle organizzazioni autonome. Occorre credere fino in fondo in questa opportunità e lavorare sotto traccia per una soluzione possibile evitando di ascoltare gli interventi interessati sollecitati dalle lobbies che non vogliono che il Governo storni risorse importanti in questa direzione. È un esercizio di riformismo nel quale le forze che vogliono cambiare il Paese si dovrebbero impegnare. Ciascuno dovrà fare la sua parte, Non solo il sindacato confederale.