La FIOM in FCA: prove di avvicinamento?

Credo sia utile seguire il dibattito che la FIOM ha messo a disposizione in rete sulla assemblea di Napoli dal titolo “Ci siamo: la FIOM in FCA”.

Dopo la firma unitaria del CCNL di categoria, dalla volontà di rientro in FCA di Landini, dalla sua capacità di trovare un punto di incontro con le altre organizzazioni e, infine, dalla disponibilità stessa di FIM e UILM a superare le vecchie divisioni passa una parte importante del futuro, e quindi della natura, dello stesso sindacalismo confederale e della capacità di nuovi protagonisti di segnarne l’evoluzione.

Appuntamento importante al quale ha partecipato, e anche questo non è un segnale da sottovalutare, il segretario generale della CGIL Susanna Camusso. Sono Intervenuti nel dibattito sindacalisti e delegati della FIOM CGIL e hanno raccontato quello che è il loro punto di vista sulla vita di tutti i giorni e, a loro giudizio, le preoccupazioni dei lavoratori.

C’è una visione marcatamente negativa su quasi tutto, questo è vero, però, a partire dalle parole di Landini: “forti del CCNL unitario ora dobbiamo aprire discussione con FIM e UILM anche per FCA-CNH”, sembra esserci la volontà di rientrare in gioco.

D’altra parte sarebbe forse troppo aspettarsi almeno qualche ammissione di corresponsabilità sul passato in un confronto pubblico, ma il dibattito interno segnala indubbiamente una consapevolezza nuova. Anche perché, le identità e le visioni del futuro delle rispettive organizzazioni, sembrerebbero aver imboccato strade profondamente diverse.

Per la FIM, credo, tre temi su tutti. Partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa attraverso il sindacato come strategia di fondo, l’innovazione tecnologica e organizzativa come sfida da cogliere e non da combattere, contrattazione e welfare come strumenti per sostenere il lavoro, la professionalità e il reddito dei lavoratori.

Anche la UILM credo viaggi sostanzialmente su questa lunghezza d’onda forse con una maggiore sensibilità al salario derivato dal contratto nazionale e una maggiore cautela sulle potenzialità positive dell’innovazione tecnologica.

Per la FIOM, però, il discorso resta più complesso. C’è la “carta dei diritti” ma c’è anche la permanente abitudine a volersi sovrapporre all’intera CGIL percfiocàrecuncruolo “politico” e c’è, infine una visione del futuro e dell’innovazione, a mio parere, ancora molto arretrata e passiva. La firma unitaria del CCNL è, però, un fatto rilevante e indiscutibile. Landini in prima persona si è speso superando difficoltà e resistenze.

Aver contribuito in modo decisivo a chiudere il cerchio anche con Federmeccanica consente alla FIOM di giocare alla pari su tutte le partite aperte. E su questo c’è, credo, la disponibilità dell’associazione datoriale che ha avuto la lungimiranza di scommettere su di un esito positivo del negoziato e che, quindi, si conferma in un ruolo trainante e non certo gregario al completamento del percorso innovativo contenuto nei testi del CCNL.

Ma FCA resta un’altra cosa. C’è un ulteriore soggetto, l’azienda, ben più ostico è affatto disponibile la cui strategia sembra essere quella di continuare ad intestarsi i meriti del cambiamento senza condividerli apertamente anche con chi li ha resi possibile.

Una sorta di “disintermediazione tattica” pro domo sua. Però è da qui che può passare il vero salto di qualità dell’intero sistema. Possibile se l’azienda deciderà di scommettere non solo sul suo capitale umano ma anche sugli interlocutori sindacali che lo rappresentano consentendo, così, una saldatura positiva e lungimirante con i contenuti del CCNL appena firmato.

Anche per questo un rientro della FIOM è auspicabile e, per certi versi, imprescindibile nonostante il difficile dibattito interno che, per il momento, sembrerebbe riconfermare una visione essenzialmente negativa.

Non credo, però, che i delegati di FIM e UILM si possano riconoscere in queste posizioni. E neanche l’azienda.

Ma, su questo, verrà in soccorso la realtà e, forse, la survey messa in programma dalla stessa FIOM che potrà fornire elementi utili sul presente e sul futuro non attardandosi sul passato.

Anche le traiettorie che hanno preceduto il rinnovo dell’ultimo CCNL sembrava non avrebbero mai potuto incrociarsi e così non è stato. Quindi un po’ di ottimismo è fondamentale.

L’intero sindacalismo confederale ha bisogno che, in un comparto così importante, si affermi una cultura diversa, possibilmente unitaria se vuole guardare al futuro.

D’altra parte i tre sindacati di categoria, pur partendo da posizioni molto diverse, hanno saputo trovare la sintesi necessaria al momento giusto sul contratto nazionale grazie anche all’autorevolezza dei rispettivi segretari generali. Io credo che lavoreranno per cercare di trovarla anche in FCA.

La realtà e la propaganda…

Premetto di aver rappresentato per oltre dieci anni, come Direttore Risorse Umane, la mia azienda (di allora) in Federdistribuzione. Penso di conoscerne i limiti ma anche l’impegno e la notevole professionalità.

Li ho spesso criticati apertamente quando hanno scelto di voler far da soli sul tema del lavoro ma continuo a considerare, molti di loro, amici e colleghi e continuo ad osservarne con grande attenzione la loro azione a tutela delle aziende della Grande Distribuzione.

Sul tema delle aperture festive hanno ragione a tenere il punto. Soprattutto oggi che i consumi sono fermi. Sarebbe stato meglio governare a monte il problema fissando dei paletti condivisi come ha proposto a suo tempo Confcommercio? Probabilmente si. Oggi però c’è una legge in Parlamento che definisce un numero di chiusure annuali accettabile sulla quale credo si possa convenire ma il tema resta aperto.

Alcuni esercizi commerciali hanno la loro ragion d’essere proprio se funzionano a ciclo continuo. Recentemente ho partecipato (come osservatore) ad un negoziato che aveva come obiettivo il lancio di una start up con oltre quattrocento dipendenti (con le tre organizzazioni sindacali di categoria) che concordava in due le festività di chiusura annuali per i prossimi tre anni. Senza alcun clamore mediatico.

Oscar Giannino propone una differenza interessante tra libertà di aprire e obbligo di aprire che condivido. Ci sono zone o attività dove non ha senso forzare e altre dov’è indispensabile.

Il sindacato di categoria ha sempre avuto, sul tema, un atteggiamento ambiguo e ondivago. Prima decisamente contrario, poi favorevole ma solo per i nuovi assunti. Refrattario per anni alle rotazioni di tutto il personale perché questo metteva in discussione i diritti acquisiti da una specifica generazione, ha costretto molte aziende a forzare quasi esclusivamente sui più giovani.

E questa divisione tra i lavoratori vecchi e nuovi ha contribuito a mettere fuori gioco il sindacato stesso la cui debolezza, in termini di mobilitazione della categoria, è ormai evidente.

Annamaria Furlan, segretaria generale della CISL, in questi giorni ha detto tutto e il suo contrario. E anche questo non ha giovato. Ha criticato l’outlet nella sua ragion d’essere, poi ha ridotto il tiro sull’apertura Pasquale in sé e, infine si è lamentata della mancanza di dialogo tra la proprietà dell’outlet e il sindacato locale. Il tutto, probabilmente, per coprire l’ondivaga politica della categoria sulla materia.

Ovviamente il decreto “salva Italia” ha determinato una fuga in avanti soprattutto perché ha spinto la stragrande maggioranza delle aziende del settore, in crisi sui margini, a forzare sulle aperture anche laddove non erano strettamente necessarie.

A questo è seguita una fase più riflessiva con aperture e chiusure meglio regolate. O con accordi interessanti come quello di Esselunga che esonera dalle prestazioni festive chi ha figli sotto i tre anni. Questa è la strada.

Altri accordi, soprattutto, per quanto riguarda gli outlet o i grandi centri commerciali potrebbero riguardare forme di welfare specifico come asili aziendali o altre iniziative che attenuino i disagi a chi deve lavorare.

La vicenda di Serravalle ha dimostrato che un’azione sindacale di tipo tradizionale non funziona su questa tipologia di lavoratori. McArthurGlenn affitta spazi spesso a marchi noti o a franchisee presso i quali lavorano pochi e selezionati venditori particolari.

Venditori che vengono formati sia dalla casa madre che dall’outlet stesso sulle abitudini di acquisto di clienti provenienti da tutto il mondo. A questo si aggiungono in base alle previsioni di vendita giovani con contratti brevi.

La stessa direttrice del centro, Daniela Bricola, proviene da una famiglia di commercianti. Con una laurea in tasca ha iniziato vendendo jeans in uno store e poi via via ha occupato posizioni di maggiori responsabilità mentre, a Serravalle, ha fatto tutta la carriera interna: retail assistant, retail manager, e infine direttore del centro.

Non si è certo tirata indietro in questa tempesta che si è scatenata in un bicchier d’acqua. Ha ricordato i diversi livelli di responsabilità avanzando anche qualche disponibilità al confronto che dovrebbe essere colta.

“Meglio crumira che disoccupata!” ha gridato una lavoratrice dell’outlet ad un militante sindacale catapultato da chissà dove, insieme a qualche decina di attivisti con bandiere, a presidiare una rotonda che la insultava per la sua determinazione a recarsi al lavoro mentre oltre duemila persone già lavoravano tranquillamente e oltre ventimila clienti affollavano il centro.

Ha pero funzionato mediaticamente. I contrari (non frequentatori dell’outlet) hanno trovato una ragion d’essere. Sul versante sindacale in termini di identità come giustamente sostiene Di Vico. I loro militanti si sono sentiti rassicurati.

Sul versante politico con l’intervento estemporaneo dell’onorevole Di Maio che ha scavalcato tutti “farfugliando” teorie e motivazioni che non hanno né capo né coda che però hanno avuto, come prevedibile, un risalto esagerato.

Il rischio è che, come per i voucher, un Governo impaurito preferisca subire una emotività esasperata (più in rete o sulla stampa che nella realtà) che tutelare le aziende coinvolte e qualche migliaio di lavoratori e un settore che rischia di pagarne le conseguenze.

Il nostro è un Paese ben strano. Si può pagare in nero la badante ed essere contro i voucher. Oppure utilizzare i voucher e promuoverne un referendum contro.

Prendersela con il consumismo e andare tranquillamente a fare acquisti all’outlet.  Oppure rivendicare più lavoro pur cercando di mettere in crisi chi lo offre, e non in nero, nonostante tutto. Addirittura utilizzare strumentalmente questo tema per uscire dalla realtà e fare propaganda per il proprio partito.

Personalmente non sono contento per l’errore, grave, commesso dai sindacati confederali che hanno sottovalutato la distanza profonda tra il loro linguaggio, mediatico o meno, in rapporto ai duemila lavoratori coinvolti a Serravalle, alle loro esigenze e alle loro aspettative.

Probabilmente si giustificheranno dando la colpa alla paura dei singoli non interrogandosi sulla particolare tipologia del centro e della sua proposta commerciale. Pronti a ricominciare alla prossima festività.

La realtà però è altra cosa rispetto alla propaganda politica o sindacale che sia. Speriamo che questa esperienza serva, a tutti, per il futuro.

Declinare crescendo?

Ha ragione Di Vico. In mancanza di risultati e di negoziati seri con contropartite adeguate il sindacato italiano, soprattutto quello meno strutturato, cerca solo di rassicurare i propri iscritti. Credo però che sia inevitabile.

Prendiamo l’outlet di Serravalle. Nessun sindacalista alessandrino ha sollevato problemi di principio, alzato al voce, o preteso alcunché quando il “Centro più grande d’Europa” si è insediato in mezzo alla campagna né quando si è strutturato fino ad arrivare ai duemila posti di lavoro (di vario genere) di oggi. Anzi.

A differenza di altre categorie dove tra i sindacalisti esistono veri esperti di settore, nel terziario prevale ancora la figura tradizionale del sindacalista generalista cresciuto con le regole della Grande Distribuzione del 900 scolpita nei contratti nazionali e aziendali e nelle rivendicazioni che ne hanno caratterizzato una intera generazione, nel bene e nel male.

C’è però una grande differenza tra un negozio di vicinato, un supermercato di via, un discount, un ipermercato, un centro commerciale, un mall, o un outlet. Profondamente diversi non solo per la dimensione e per le problematiche ma anche nelle fasi di apertura, di consolidamento e di mantenimento. Così come negli orari, nelle giornate di vendita, nella stagionalità. E infine nella tipologia di lavoratore necessario.

A tutto questo il sindacalista generalista non era e non è preparato. La differenza è che nelle fasi espansive, pur non incidendo sugli assetti organizzativi, ne beneficiava comunque in termini di iscritti e quindi ha lungamente abbozzato.

Pochi hanno cercato di capire l’evoluzione del settore, la sua differenziazione sia dimensionale che qualitativa del lavoro. Né di comprendere l’inevitabile cambiamento del ruolo della rappresentanza.

Un outlet tipo Serravalle con oltre duemila addetti ha dentro di sé le problematiche tipiche di un grande centro commerciale e, contemporaneamente, di una via dello shopping tipo Corso Buenos Aires a Milano. Non c’è un imprenditore. C’è un gestore di spazi.

Convergono su di esso decine di migliaia di turisti stranieri portati direttamente in pullman desiderosi di accaparrarsi capi firmati a prezzi scontati. In una festività qualsiasi più di quarantamila visitatori vi si accalcano.

Tutto questo, ovviamente, può piacere o meno. Non consente solo di alimentare illusioni, desideri di possesso di capi firmati ma anche di smaltire collezioni, magazzini strapieni di merce e sostenere opportunità di lavoro. È un approccio che funziona solo a ciclo continuo.

Per i clienti del far east, ad esempio, le nostre festività nazionali o religiose sono sconosciute. Sfido chiunque di noi a indicare le festività religiose coreane o cinesi. Ma vale così per molti altri. Così come per i connazionali pensare di fare anche cento chilometri durante la settimana è semplicemente impossibile.

Per il sindacato è una sfida vera. Può ritirarsi davanti ad una rotonda con i suoi attivisti che non lavorano nell’outlet e bloccare clienti indispettiti. Oppure cercare di capire come entrare in relazione con un mondo fatto di tipologie di lavoro, interlocutori, livelli di confronto diversi uno dall’altro.

Nel primo caso avrà lanciato un segnale identitario ai suoi iscritti che approveranno questa presa di posizione ma non cambierà nulla.

Nel secondo caso potrà iniziare un lento lavoro di recupero e di comprensione di una realtà dove impresa, lavoro, luoghi e modalità assumono contorni più sfumati della fabbrica e forse potrà anche tentare di rappresentarne le esigenze.

Le buone ragioni di ciascuno e la concretezza necessaria..

A voler litigare con tutti alla fine si resta soli con i propri problemi. Anche se si hanno buone ragioni. Le aziende della Grande Distribuzione che hanno deciso di seguire Federdistribuzione uscendo da Confcommercio a poco più di 5 anni rischiano di trovarsi ad un  punto morto.

Nel comunicato di annuncio della scissione del 22 dicembre 2011 non c’erano affatto intenzioni bellicose. Federdistribuzione riconosceva “la proficua collaborazione con la Confederazione presieduta da Carlo Sangalli e la condivisione di attività e percorsi (primo tra tutti il rinnovo del Ccnl) che restano obiettivi comuni che potranno portare anche in futuro a verificare forme di collaborazione, nell’interesse di entrambe le organizzazioni e dei settori rappresentati, sia a livello centrale che locale”. E anche Confcommercio auspicò lo stesso approccio.

C’era, ovviamente, la volontà di andare per la propria strada ma anche la consapevolezza contenuta nel saggio proverbio keniota che recita “se vuoi arrivare primo corri da solo, se vuoi arrivare lontano cammina insieme”.

E questo era un proposito utile  per tutti: la complessità della crisi, la gestione dell’imminente scadenza del contratto nazionale, i rapporti locali e centrali con le istituzioni, facevano propendere per una necessaria convergenza seppur inevitabilmente competitiva sulle singole questioni. Ma una competizione sana utile ad entrambe e finalizzata a portare vantaggi alle imprese associate e al sistema commerciale in generale. E rispettoso del ruolo delle controparti sindacali.

Purtroppo così non è stato. Federdistribuzione decise di cavalcare il decreto cosiddetto “salva Italia” del Governo Monti che prevedeva la totale liberalizzazione delle aperture degli esercizi commerciali e di formalizzare alle organizzazioni sindacali di categoria la volontà di uscire dal contratto nazionale del terziario per sottoscrivere uno specifico per le aziende del comparto.

Sulla liberalizzazione delle aperture il vento del 2011 sta cambiando. E non è necessariamente una buona cosa. La crisi della Grande Distribuzione è evidente e non è riducendo il numero delle aperture o irrigidendo il sistema che la si risolve. Anzi.

Aggiungo che sentire la “moderata” segretaria generale della CISL Annamaria Furlan affermare al Corriere che: “Vedere nell’outlet un luogo dove fare un po’ di svago, fare una passeggiata e concedersi un po’ di riposo è un modello sociale sbagliato” non è certo di buon auspicio per gli operatori economici soprattutto esteri anche perché, se è un modello sbagliato, presumo che per Furlan lo sia tutto l’anno e non solo a Pasqua e che il suo pensiero valga per tutti quei luoghi, compresi i centri commerciali, dove le persone, soprattutto quelle meno abbienti, ci passano intere giornate di festa magari senza neppure fare acquisti.

Neanche Susanna Camusso si era spinta così in avanti limitandosi ad una contestazione dell’organizzazione del lavoro, del rispetto del salario e dei diritti, contestando la necessità di aprire tutto l’anno a tutela dei lavoratori del settore.

È probabile che anche il segretario generale della CGIL non ami passeggiare per gli outlet o per i centri commerciali nei giorni festivi ma i confini tra un giudizio di natura sindacale e uno di natura etico o morale o ad un modello consumistico ritenuto in generale sbagliato credo debbano restare su piani differenti.

Certo, giudizi e convincimenti di importanti controparti sindacali non sono di buon auspicio per chi, deve investire o decidere di affrontare, e con quali strumenti, la profondità della crisi dei consumi con i suoi riflessi sull’occupazione e questo indipendentemente dalla “disfida mediatica” di Serravalle in scena il giorno di Pasqua dove tutti, il giorno successivo, la racconteranno inevitabilmente a modo loro.

Dall’altro lato, resta la ferita del mancato rinnovo di un contratto specifico così come richiesto da Federdistribuzione. Dal 1 aprile 2015, data della firma del nuovo contratto nazionale del terziario,da parte di Confcommercio,  le aziende della GDO aderenti a Federdistribuzione sono, volenti o nolenti, in dumping rispetto alle altre aziende che, al contrario, applicano quel contratto.

E questo è indubbiamente gravido di problematicità di cui non tutte le imprese ne hanno percepito le possibili conseguenze. Come ho sempre sostenuto non c’è spazio per un contratto che non sia sostanzialmente identico per quantità economiche erogate e per normative. Quindi un contratto che rischia di essere  inutile.

In più Confcommercio, come Confederazione, ha recentemente sottoscritto un accordo con CGIL, CISL e UIL che imposta regole che valgono per l’intero settore e impegna le parti al loro rispetto. Lo scenario sindacale è dunque cambiato.

L’interesse delle imprese e dei lavoratori dovrebbe prevalere inducendo chi le rappresenta a lavorare per individuare le soluzioni più idonee in un contesto diverso da quello di partenza. E queste sono all’interno del percorso indicato dal contratto del terziario già firmato sia che si scelga di optare per un contratto autonomo o magari cercando di lavorare con maggiore lungimiranza sul terreno dell’innovazione contrattuale, prevedendo dal CCNL già in essere, tutte le deroghe e le specificità del caso. Soprattutto idonee per gestire la crisi profonda del settore.

Le organizzazioni sindacali non possono che percorrere una strada nel solco di quanto concordato con Confcommercio. E questo era chiaro prima, durante e lo sarà semmai si dovesse raggiungere un necessario punto di incontro.

È probabilmente un interesse comune aprire una nuova fase soprattutto in forza del cambiamento del contesto. E forse ci potrebbero essere tante buone ragioni per farlo.

Mala tempora currunt….

Le dinamiche messe in atto dall’esito referendario stanno rimettendo in moto il quadro politico italiano e, di conseguenza, le dinamiche che attraversano i corpi intermedi.

Sul fronte datoriale la debolezza di Confindustria è evidente. Le vicende interne pesano. La stessa difficoltà a chiudere l’accordo confederale con i sindacati lo dimostra come il fatto che, i suoi comparti, hanno preferito chiudere i rispettivi contratti nazionali manifestando la volontà di mantenere comunque una forte autonomia settoriale.

Inascoltata dal Governo sui voucher (come purtroppo tutte le organizzazioni datoriali), sta tentando di rimettersi in gioco lasciando intendere al Governo la possibilità di uno scambio tra l’aumento del’IVA e una riduzione del cuneo fiscale. Scambio che non farebbe bene al Paese.

Ma, al netto dei problemi specifici di Confindustria, questa difficoltà a rientrare in gioco per poter dare il proprio contributo propositivo al rilancio del Paese è un po’ di tutte le parti datoriali. E questo non è un bene di fronte alla accentuata debolezza della politica, alle sue divisioni e in un contesto internazionale profondamente mutato.

Se Atene piange, però Sparta non ride. Nel campo sindacale ciò che i contratti nazionali avevano prodotto di buono sul terreno dell’unità tra le diverse sigle confederali e con le rispettive controparti rischia di essere vanificato dalla divaricazione che pare inarrestabile tra la CGIL e le altre due confederazioni.

Il protagonismo messo in campo dal primo sindacato italiano è evidente. La “vittoria a tavolino” sui voucher è solo il primo segnale. È difficile non cogliere nei propositi di Susanna Camusso la volontà di approfittare della debolezza della sinistra politica (vecchia e nuova) per contribuire in modo determinante a ridisegnarne il campo.

La CGIL, come peraltro le altre organizzazioni sindacali, ha capito benissimo che nelle aziende il vento è cambiato profondamente. Tra i lavoratori c’è preoccupazione per il proprio futuro e per il contesto ma c’è voglia di dare il proprio contributo, di impegnarsi e di fare la propria parte nell’interesse dell’impresa e del lavoro.

C’è, in sostanza, voglia di collaborare, di investire su se stessi e nel rapporto con la propria azienda. Certo permangono situazioni di crisi, anche grave, dove i sindacati sono costretti in un ruolo tradizionale. Ma, queste realtà, non rappresentano la norma.

Non è un caso che i contratti nazionali si siano chiusi unitariamente e il dissenso presente nell’elaborazione delle differenti piattaforme è improvvisamente scomparso lasciando il campo ad una volontà convergente nelle singole categorie. Così come non è un caso che, proprio la CGIL, ha messo in campo una spinta decisiva per chiudere rapidamente i rinnovi e formalizzare gli accordi sulla rappresentanza e sui livelli della contrattazione.

A tutto questo, però, non è seguito nessun forte ridisegno dei rapporti unitari né la volontà di riprendere una iniziativa comune che rimettesse al centro un ruolo propositivo dell’insieme delle parti sociali. È un po’ come se l’obiettivo politico della CGIL di contribuire a ridisegnare in prima persona il campo della sinistra fosse comunque prevalente a tutto il resto e quindi necessitasse di sgomberare velocemente il terreno da tutto ciò che poteva in qualche modo ritardarne l’implementazione sociale. Contratti nazionali compresi.

È vero che CISL e UIL confederali sono in evidenti difficoltà sul piano dell’iniziativa generale ma nelle rispettive categorie la generosità e la disponibilità messa in campo sul terreno unitario faceva ben sperare. Vedremo le prossime mosse.

È chiaro che una CGIL che si dovesse caratterizzare sempre più come soggetto politico è comunque destinata, prima o poi, a entrare in rotta di collisione con l’insieme del sistema della rappresentanza. E questo non è un bene. È già successo in altri Paesi con un esito scontato.

Il vero problema è che una CGIL che si dovesse sottrarre per mero calcolo politico ad un ruolo unitario e di proposta con l’insieme del sindacato confederale propedeutico ad una convergenza tra capitale e lavoro commetterebbe un grave errore destinato ad essere pagato da tutto il Paese. Purtroppo i segnali di questi giorni non sono incoraggianti.

Sgravi contributivi per i giovani. Perché ripetere l’errore?

S. Agostino ci ricorda che  “Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere”. È in quel insistere per “superbia” che sta l’errore vero (allora come oggi).

Nel prossimo Def (Documento di Economia e Finanza) ci saranno (così scrivono i giornali) sgravi contributivi riservati ai giovani con meno di 35 anni di età che vengono assunti per la prima volta con un contratto di lavoro stabile.

Sul piatto, per questa misura, ci dovrebbe essere circa un miliardo di euro l’anno. Confindustria, dal canto suo, è soddisfatta anche se questo potrebbe avere, come conseguenza, un aumento dell’IVA.

Sia chiaro, l’idea di ridurre il cuneo fiscale (a tutti) è corretta. Anzi, dovrebbe essere salutato come un atto dovuto. E non solo per i giovani. Raccontare però che, in questo modo, si contribuisce a ridurre la disoccupazione giovanile, soprattutto là dove ha raggiunto livelli di assoluta intollerabilità è un errore che rischia di portare con sé conseguenze molto negative.

Da un lato, tutti hanno capito che i 18 miliardi della decontribuzione renziana non hanno funzionato perché senza ripresa economica non si crea occupazione stabile e che, addirittura, anche in presenza di una inversione di tendenza, non sarà certo l’industria a creare occupazione.

Dall’altro, si persevera nello spingere gli imprenditori ad assumere, incentivando alcune tipologie, cercando di forzare, così, le loro esigenze. Scettiche le reazioni (non solo) della Cgil che ricorda: «sono già stati dati 18 miliardi con la decontribuzione Renzi senza grandi risultati. Meglio sarebbe investire su di un piano straordinario di lavoro per i giovani».

Personalmente non sarei così sbrigativo nel respingere al mittente questo approccio. L’intuizione della CGIL non è sbagliata. Il punto vero è, ancora una volta, decidere se siamo o meno di fronte ad un’emergenza nazionale o se il Governo chiede (semplicemente) ad una parte sociale un atto di generosità nei confronti di un segmento della popolazione.

Se non è così occorrerebbe decidere chi è il soggetto vero dell’intervento (i giovani e il loro futuro o solo il loro costo per le imprese) e agire di conseguenza. La Regione Emilia Romagna, dal canto suo, ha predisposto fin dal 2012, un piano interessante concordato con l’insieme delle parti sociali.

Oggi abbiamo i primi risultati. Per quanto riguarda il “Fondo per l’assunzione e la stabilizzazione” sono stati erogati 2463 incentivi sia per nuove assunzioni che per conferme a tempo indeterminato. Attraverso il “Fondo apprendistato” sono stati finanziati 27 mila percorsi formativi. Con il “Fondo fare impresa” sono stati finanziati 283 voucher che hanno consentito, al termine dei percorsi, al 60% dei giovani di avviare un’attività. Infine è stato predisposto un “Fondo giovani” (30/34 anni) per finanziare percorsi individuali di formazione, prevalentemente dentro le imprese, finalizzate a far acquisire competenze utili al loro percorso professionale.

Un approccio, come si può vedere, molto diverso. Soprattutto una assunzione di responsabilità molto diversa da parte di tutte le componenti sociali, istituzionali e formative della regione. Il messaggio forte che esce da queste prime valutazioni è di aver ottenuto un risultato parziale, certo modesto ma utile.

Ciascuno lo difenderà, si predisporrà per migliorarlo ulteriormente, per renderlo ancora più funzionale. Non si scateneranno inutili polemiche, né ci saranno trasmissioni televisive, indagini, pallottolieri che narreranno una realtà lontana dal Paese reale.

Ed è per questo che ho ricordato che più che ripetere l’errore è la superbia nel ricommetterlo dove sta il vero male. Oltre che nell’inutile spreco di risorse.

Il curriculum e le iperbole del Ministro. Calcetto a chi?

Le iperbole del nostro Ministro del Lavoro, prima sui giovani che sono emigrati, poi sui curricula rischiano di superare, in popolarità le metafore di Bersani. Deve esserci, a sinistra, una gara non dichiarata a chi sa farsi più del male. Gara nella quale Giuliano Poletti è decisamente in testa. I problemi che solleva non sono, però, mai banali.

È banale, semmai, la loro rappresentazione ad un Paese che vive quei problemi sulla propria pelle. Il curriculum sta al lavoro come un qualsiasi “gratta e vinci” sta alla ricchezza. Purtroppo è vero.

Ma, giocare a calcetto, come propone il Ministro non è un’alternativa utile. Dentro un curriculum ci sono le speranze e le aspettative di chi lo scrive. C’è la sua autostima, la volontà di misurarsi sul mercato, di dimostrare le proprie qualità.

Spesso il protagonismo raccontato è esagerato e il linguaggio è incerto o incomprensibile. Ci si dimentica che un CV è scritto per chi, forse, lo leggerà. Lo scopo è suscitare curiosità e interesse. Non presentare la propria autobiografia personale e professionale completa.

Centoquarantaquattro milioni di curricula certificati sono girati nel 2016. Il tempo di lettura varia da 6,5 secondi a 20 secondi per quel 5/10% di essi che verrà letto da qualcuno. Difficile essere notati.

Tra l’altro, in Italia il mercato è dominato dal passa parola, dalla segnalazione o raccomandazione. Non necessariamente da intendere nella sua accezione negativa. A scuola non insegnano a scrivere un CV e nelle aziende, purtroppo, non sempre insegnano a leggerlo.

Un curriculum di trent’anni di lavoro non dovrebbe mai superare le due pagine e tutto ciò che riguarda esperienze precedenti ai 3/5 anni è di scarso interesse, per chi legge. Risultati raggiunti, contributi personali, scacchi subiti e ripartenze dovrebbero costituirne l’intelaiatura principale.

Per un giovanissimo più di ciò che ha fatto, meglio raccontare brevemente come e perché lo ha fatto. Ma un CV, pur scritto bene, senza un network sviluppato per tempo serve a poco.

E il network si sviluppa a scuola, sui social, partecipando ad iniziative, facendo sport o volontariato, mantenendo relazioni positive negli anni con i capi e colleghi di lavoro. Farsi conoscere e apprezzare è fondamentale.

E questo non lo si ottiene senza un impegno costante e continuativo non dimenticando mai che l’obiettivo di un curriculum non è ottenere lavoro ma è ottenere uno o più colloqui. Quindi è meglio essere sempre se stessi utilizzando un linguaggio consono.

Chi legge, se è in azienda, sa bene cosa gli hanno detto di cercare. Conosce i valori dell’azienda, la sua organizzazione, pregi e difetti di chi sarà il futuro capo, e del team. Può anche permettersi di sbagliare scartando un ottimo CV sapendo che nessuno se ne accorgerà mai. Chi scrive non sa quasi nulla di tutto questo. E spesso manco si informa.

È un campo dove, tra l’altro è difficile innovare. Però c’è chi può fare di più. La scuola, certamente, avvicinandosi di più al mondo del lavoro, inserendo nei propri programmi la scrittura del CV e il colloquio di lavoro. Magari chiedendo alle aziende del territorio di essere parte attiva sfruttando l’opportunità offerta anche dai percorsi di alternanza.

Le agenzie per il lavoro potrebbero attivare un canale di supporto in questa direzione, le stesse società di outplacement che più di altre conoscono bene il lavoro necessario per far riflettere le persone sul loro percorso e su come presentarlo. Si può fare molto.

L’unica cosa che non si deve fare è banalizzare un tema e una strumentazione che, per quanto criticabili e poco efficaci, rappresentano il mezzo con cui le persone, in perfetta solitudine, cercano di affrontare un mercato del lavoro sempre più complesso.

Le gaffes di cui si rendono protagonisti ministri e vice ministri del lavoro in carica sono sempre più frequenti e dovrebbero far riflettere, più che suscitare ironia, in un Paese normale. Altrimenti il “calcetto” dovrebbe essere riservato a chi fa queste battute.

Quale ruolo per le organizzazioni di rappresentanza in ottica industry 4.0?

Mi sono spesso domandato quale potrà essere, in ottica industry 4.0, lo spazio di azione in azienda, per i sindacati. Nel terziario, già oggi è minimo.

In parte per l’approccio e la cultura dei sindacalisti di settore, in parte perché, la stragrande maggioranza delle aziende non ha, né una storia di relazioni sindacali né di condivisione collettiva delle problematiche aziendali come in altri settori.

Le relazioni sindacali nel terziario, quando ci sono, sono generalmente esterne all’azienda attraverso gli enti bilaterali e le associazioni di rappresentanza. Gli stessi lavoratori si rivolgono ai sindacati solo a fronte di problemi specifici seri durante il rapporto di lavoro o alla sua conclusione.

Se escludiamo la Grande Distribuzione, che è la più legata a modelli organizzativi di derivazione fordista, nella stragrande maggioranza delle aziende del terziario il contratto nazionale viene rispettato nei minimi retributivi e in quelle norme generali applicabili al contesto specifico. Per il resto è lasciato alla gestione aziendale costituita dalla cultura interna, dall’organizzazione e dai modelli di gestione e sviluppo delle risorse.

Il singolo individuo vi si rapporta attraverso il proprio responsabile o, nelle aziende più strutturate, anche attraverso la direzione risorse umane. Nelle più evolute (quindi più vicine al contesto industry 4.0) il clima interno è generalmente monitorato attraverso vari strumenti (indagini di clima, KPI, ecc.) , la comunicazione è costante (capo/collaboratore, eventi, comunicazione, ecc.), i sistemi di valutazione e sviluppo professionale efficienti (formazione, assessment, valorizzazione del contributo individuale al business, ecc.) e infine, i riconoscimenti economici sono ben collegati ai risultati e all’andamento aziendale. Forme di welfare interno o contrattuale e benefit specifici completano il quadro.

Il rapporto è quindi personalizzato, le contropartite sono chiare così come sono chiare le possibili conseguenze negative. È un rapporto di partnership, che non prevede fedeltà né che duri per sempre. Da entrambe le parti. Ed è un modello che, ormai, tende a coinvolgere tutti. Non solo i manager dell’azienda.

Nel senso che, anche chi ne dovesse essere escluso, per ruolo o per seniority, sa quali sono le regole del gioco e le opportunità che possono e devono essere colte. E sa anche che, prima o poi, se non entra nel meccanismo, il suo contributo potrebbe essere messo in discussione. La contrattazione aziendale è praticamente inesistente perché tutto ciò che va oltre il CCNL è gestito unilateralmente dall’azienda. Né potrebbe essere diversamente.

Detto tutto questo che, a mio parere, spiega la differenza tra un modello contrattuale (quello manifatturiero) che è sempre stato costruito intorno ad un approccio collettivo e che ha “subìto” la gestione personalizzata rispetto a quello, tipico nel terziario, che viene costruito intorno alla personalizzazione del rapporto salvo utilizzare una base collettiva (il CCNL relativo) esclusivamente come punto di riferimento generale. Il punto è che tutto funziona fino a quando i confini applicativi e di categoria restano chiari, evidenti. Meno quando non hanno più ragione di esistere. Ed è questo il futuro che ci aspetta.

Il lavoro, che lo si voglia o meno, tenderà a polarizzarsi. Da una parte quello povero che sarà trasversale nei servizi alle imprese, nella GDO, nell’agroalimentare, nella logistica, nell’industria ma anche nelle start up (se, una volta per tutte, decidessimo di uscire dalla retorica che le accompagna).

Dall’altra quello di maggior contenuto professionale che coinvolgerà tutti i settori e renderà superflui le tipologie contrattuali utilizzate fino ad oggi, i confini di inquadramento, i modelli retributivi. E tutto questo non è materia delle singole imprese e non sarà materia da affrontare in un futuro remoto.

Industry 4.0 è un’occasione. È una opportunità per ridisegnare un percorso che non sarà breve ma deve andare nella giusta direzione. Per questo non credo che il problema sia legato semplicemente ai luoghi della contrattazione.

Le aziende sono cambiate profondamente mentre il modello contrattuale, i contenuti proposti, il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza è rimasto sostanzialmente lo stesso. Sono stati trovati degli adattamenti che, via via, stanno scontentando un po’ tutti.

Per questo, c’è chi pensa (forse troppo sbrigativamente) che un semplice spostamento a livello aziendale possa risolvere il problema. Non sarà così. Anzi. Il contratto del terziario è lì a dimostrare una strada diversa, che può piacere o meno.

È però molto interessante per le imprese che pur rispettando il CCNL di riferimento possono muoversi con maggiore rapidità ed efficacia. Non è un caso che un terzo delle aziende iscritte ad Assolombarda preferiscano il contratto nazionale del terziario firmato da Confcommercio rispetto ai rispettivi contratti di categoria.

L’altro versante è rappresentato (schematicamente) dal contratto dei metalmeccanici che ha disegnato un percorso diverso dove il sindacato è disponibile ad affrontare in un contesto di reciprocità tutti i problemi sul tappeto delle imprese ma anche dei lavoratori in un contesto sicuramente collettivo. 

Quello che è certo è che non si arriverà ai prossimi rinnovi senza aver messo mano ad un nuovo modello contrattuale (assetti, contenuti e luoghi). E questo vale per tutti.

Alitalia tra tre fuochi…

Com’era prevedibile la vicenda Alitalia si trova di fronte alla sua principale contraddizione. Machiavelli avrebbe detto: “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al popolo”. Questo è il punto.

Alitalia è un’azienda privata così come lo sono quasi tutte le grandi aziende italiane. A differenza che altrove il vezzo di tentare sempre “privatizzare gli utili e socializzare le perdite” non sembra essere ancora stato accantonato.

Quindi i soggetti in campo, come nel 900, sono tre. Non due come dovrebbe essere normalmente. Gli azionisti, il Governo e i dipendenti attraverso i sindacati che li rappresentano.

Dietro le quinte i creditori che premono per un piano che consenta loro di recuperare le risorse investite e le autorità europee che vigilano sui contenuti di un eventuale accordo che non deve configurarsi come aiuti di Stato.

Un rompicapo di difficile soluzione. Il piano industriale presentato è stato evidentemente ispirato dai creditori che, se dovessero decidere di staccare la spina, porterebbero al fallimento della società con gravi danno per loro ed a un costo, per le finanze pubbliche, non inferiore ai dieci miliardi di euro.

Questo determina la sgradevole coincidenza dei punti di forza e di debolezza di tutti i negoziatori intorno al tavolo. Ciascuno sa che può tirare la corda ma ne conosce anche il prezzo nel caso dovesse spezzarsi.

Per un negoziato è la situazione più difficile. Nessuno può permettersi di vincere ma tutti devono rispondere in modo trasparente del loro operato. L’azionista se non punta al fallimento della compagnia ma, al contrario, al rifinanziamento del debito e ad una riduzione di costi, alza il prezzo sperando di lasciare un margine di mediazione al Governo. I sindacati non possono, almeno in questa fase, non puntare ad una modifica del piano che ne sottolinei lo sforzo e il ruolo, i creditori, dal canto loro, possono fare forti pressioni ma non hanno alternative praticabili.

I fatti, ad oggi, vanno esattamente in questa direzione. Il CEO Cramer Ball ha assicurato la «piena disponibilità» a lavorare con i sindacati e il futuro Presidente Luigi Gubitosi ha confermato, a sua volta, l’impegno a fornire tutti i dettagli necessari. Le stesse dichiarazioni tranquillizzanti di Ball sulla crescita del lungo raggio e che due terzi dei tagli non sono di costo del lavoro vanno in questa direzione.

I sindacati hanno respinto la prima versione del piano dichiarando lo stato di agitazione ma hanno aderito ai tavoli tecnici con disponibilità ad entrare nel merito. il Governo, dal canto suo, si è mosso in modo corretto sgombrando il campo da ipotesi fantasiose di possibile pubblicizzazione della compagnia e assegnandosi un ruolo di facilitatore del negoziato.

Soprattutto evitando di dare giudizi sommari sul piano. Tutte queste mosse erano prevedibili e inevitabili. Il difficile viene adesso. Le carte messe sul tavolo dall’azienda sono indubbiamente insufficienti e sembrano finalizzate solo a prendere tempo. La soluzione non è nel piano presentato. In quelle determinazioni, al massimo, ci sono sono solo le precondizioni economiche, politiche e sociali.

Alitalia può essere ancora ripensata sia in chiave di alleanze continentali win win che di potenziali nuovi business legati al turismo di domani? Ma se così fosse,  i soggetti seduti a quel tavolo sono gli interlocutori autorevoli di cui ci sarebbe bisogno? Credo di no. Il punto sta qui perché solo in questo potrebbe risiedere una possibile scommessa per il suo futuro.

Purtroppo lo stesso piano strategico del turismo (2017-2022) non prevede nulla a riguardo. Quindi non c’è nulla di concreto da mettere sul tavolo del negoziato.

Per questi motivi temo che il destino di questa azienda rischia di essere già scritto: una lunga agonia in attesa di un compratore finale che sappia integrarla semplicemente con il proprio business.

Cosa che non è riuscita ad Ethiad e agli attuali soci. L’importanza della vertenza Alitalia è fuori discussione. Nessuno può permettersi che degeneri socialmente, che fallisca o che venga caricata sulle spalle di un Paese che non può permetterselo. Questo i negoziatori di entrambe le parti lo sanno benissimo. E lo sa anche il Governo.

In passato sarebbe bastato creare un nuovo carrozzone e finanziarlo all’infinito. Salvare cosi capra e cavoli. Oggi quella opzione non è praticabile. Per questo Alitalia è tra tre fuochi. E non si spegneranno da soli..

Il rischio di scambiare una battaglia di retroguardia per la guerra

La CGIL ha vinto la sua battaglia sui voucher e ha ritrovato una nuova unità interna propedeutica alla gestione unitaria congressuale e al suo riposizionamento sociale.

Come ho sempre sostenuto, chi ha parlato di leadership debole di Susanna Camusso, era fuori strada. Aveva ereditato una CGIL isolata politicamente e sindacalmente, scavalcata a sinistra dalla FIOM e a destra da altre importanti categorie e con un gruppo dirigente a fine corsa. È indubbio che la situazione, oggi, sia profondamente cambiata.

Adesso può legittimamente rilanciare la sua iniziativa provando ad uscire definitivamente dall’angolo dove la fine della stagione dei rapporti di forza favorevoli sul campo e degli accordi separati l’avevano in qualche modo confinata. Cisl e Uil confederali stanno accusando il colpo nel senso che non sembrano in grado di reagire propositivamente.

Tutto questo, però, porta con sé delle conseguenze. Essere corteggiati quasi esclusivamente dalla sinistra interna del PD e dagli scissionisti non può certo bastare alla CGIL anche perché oggi l’opposizione politica e sociale, quella vera, è ormai dislocata politicamente altrove e lo sarà a lungo e, nella quasi totalità delle aziende, tra i lavoratori occupati, c’è un indebolimento complessivo del messaggio sindacale generale.

Il rischio di essere ritornati al centro, si, ma del “nulla” è molto forte.

Confindustria è in difficoltà per diverse ragioni e questo ha lasciato il campo all’iniziativa delle federazioni nei singoli comparti economici. Federalimentare ha già segnalato la volontà di giocare le sue carte. Federmeccanica, dal canto suo, ha tirato fin dall’inizio la sua volata rendendo residuale il ruolo della casa madre sul cosiddetto “patto di fabbrica” trovando in FIM, FIOM e UILM solidi interlocutori. I differenti contratti nazionali hanno proposto strade diverse. Tutte andate a buon fine.

L’impressione è che il “rinnovamento” contrattuale si possa diffondere, pur in differenti modalità, in tutte le categorie più importanti seppure in modo differenziato.

Sul versante del terziario il contratto firmato da Confcommercio si presta, per come è stato concepito, a ulteriori adattamenti. La stessa neutralizzazione dell’ultima tranche in pagamento per oltre tre milioni di lavoratori, come misura concordata tra le parti, rappresenta una dimostrazione evidente di capacità di adattamento all’evolversi della realtà.

I contratti che mancano all’appello in questo comparto sono il frutto più di inesperienza negoziale delle controparti datoriali che da distanze ideologiche con i sindacati di categoria quindi, prima o poi, sono destinati a trovare una loro conclusione.

Per questo la vicenda mal gestita da tutti sui voucher, il cui epilogo è stato determinato più dal dibattito interno al PD che dal problema in sé, può innescare delle conseguenze che, se non gestite, rischiano di paralizzare l’iniziativa sindacale e quindi il sistema delle relazioni industriali nei prossimi mesi.

La CGIL faticherà a proporsi, da una parte, con un atteggiamento moderato nei differenti comparti economici nella contrattazione aziendale e di categoria e, dall’altra rivendicare una forte intransigenza sulla sua “carta dei diritti” incalzando le altre organizzazioni confederali proprio dove sono oggettivamente più deboli. Il rischio è che le contraddizioni esplodano riportando il sistema alla stagione della competizione e degli accordi separati anche in considerazione del possibile mutamento del quadro politico prossimo venturo.

Inoltre questo atteggiamento difficilmente potrà essere accettato dalle imprese. Alle aziende, il contesto e i vincoli che si creano a livello generale, pesano tanto (se non di più) di quanto siano soggettivamente disposte a concedere in termini di “rinnovamento” e di partecipazione. Qui sta il punto.

Cisl e Uil, sempre a livello confederale, non sembrano in grado di sottrarsi da questa morsa. Il “balbettio” sui voucher è lì a dimostrarlo.E posizionarsi come alternativa sociale al grillismo, da parte della CGIL, di questi tempi avrebbe l’unica conseguenza di tirar loro la volata.

Il Paese è indubbiamente stanco di narrazioni mirabolanti. Questo è vero. È però preoccupato per un futuro incerto, e si sente sempre più schiacciato economicamente verso il basso. Nelle imprese stesse si sta diffondendo la convinzione che il 2017 non migliorerà nulla nei fondamentali economici e che il Governo poco farà di positivo.

Ma a questa deriva non si risponde accompagnandola quasi fosse ineluttabile. A mio parere c’è solo una strada possibile. Se il sindacato, tutto il sindacato, non vuole essere risucchiato in un contesto che rischia di essere sempre più ingestibile deve rilanciare l’iniziativa sul “patto per il Paese”. Non c’è alcuno spazio fuori da questa opzione.

Per chi è nel mondo del lavoro, oggi, la priorità è restarci. Per i giovani è, al contrario, entrarci. Per gli altri è, quanto meno, di disporre di un reddito comunque costruito e della possibilità di rientrare in gioco prima possibile.

Le risposte a questi problemi, però, non si trovano ritornando ciascuno sui propri passi. Si trovano solo facendosi carico, con grande generosità, di un futuro da condividere e nel quale sapersi anche disegnare un nuovo ruolo. Ovviamente molto dipenderà anche dalle organizzazioni datoriali e dalla loro capacità di proposta. Ma molto dipenderà anche da chi, in tutto il sindacato confederale, è chiamato ad individuare una rotta alternativa. CGIL compresa.