Di Dumping Contrattuale si muore…

L’apparenza spesso inganna. Da quanto si legge sui quotidiani  Confindustria insiste per sottoscrivere con i sindacati confederali un testo sui servizi innovativi come primo passo nel percorso che mira a concludersi, entro il mese di maggio, sugli assetti contrattuali.

Molte aziende, ed è cosa nota, pur continuando ad essere associate a Confindustria, applicano da tempo  il contratto nazionale del terziario di Confcommercio ritenendolo più rispondente a proprie esigenze specifiche e questo senza alterare equilibri contrattuali consolidati interni all’impresa stessa.

Confindustria, sia per questioni di rappresentatività ma soprattutto per evidenti ragioni di marketing associativo, spinge per ottenere  per sé un risultato specifico  propedeutico all’accordo generale.

È lo stesso spirito che ha spinto parecchio tempo fa, Federdistribuzione a “pretendere”, per il proprio perimetro associativo, una soluzione analoga. Un contratto nazionale specifico che, a prima vista, poteva rappresentare la soluzione ideale.

Gli stessi sindacati di categoria allora hanno vissuto quella richiesta come utile e possibile. Addirittura l’hanno preceduta e accompagnata inviando una piattaforma unitaria identica (più o meno) a quella di Confcommercio. Il risultato è stato però, fin dall’inizio, disastroso.

Ad oggi, le aziende che hanno deciso di applicare il contratto Confcommercio subiscono da mesi una situazione di dumping dai concorrenti che si riconoscono nella posizione espressa da Federdistribuzione mentre i loro dipendenti continuano a non aver nessun contratto. Le autorità ministeriali preposte al controllo e alle ispezioni non si muovono (opportunisticamente) sperando che la situazione evolva positivamente mentre i sindacati di categoria non riescono a sbloccare nulla per le evidenti difficoltà di mobilitazione dei lavoratori.

Lo stallo è così assicurato. Nel frattempo le singole aziende si “godono” il dumping se schierate da una parte o, al contrario, ne subiscono le conseguenze, se hanno deciso di applicare il Contratto nazionale firmato da Confcommercio.

Che lo si voglia o meno, qui sta il punto. Le aziende, oggi, non si muovono più in una logica puramente associativa. Applicano o non applicano ciò che ritengono più conveniente per il loro business a prescindere dai sistemi regolatori  predisposti dalle organizzazioni di rappresentanza. Quindi una cosa è la declinazione aziendale del “patto di fabbrica” (peraltro in linea con i rispettivi contratti nazionali già firmati) con possibili deroghe dal CCNL di categoria specifiche e contrattate, un’altra è la inevitabile “gara” al ribasso tra contratti nazionali diversi, pur sempre applicabili, in base alla convenienza di una delle due parti.

È indubbio che i sindacati confederali si trovano di fronte ad una scelta difficile. Stabilire confini applicativi sulla scorta dell’attuale regolamentazione lasciando libere le singole categorie, optare per nuove aggregazioni (ad esempio: industria, terziario, agroalimentare da cui far discendere deroghe e specificità ai livelli sottostanti), oppure subire l’idea che ogni azienda  fa un po’ ciò che gli pare in base alle proprie convenienze e ai rapporti di forza che riesce a mettere in campo.

Per questo il confronto in atto tra le sigle confederali e Confindustria non è secondario e scevro da conseguenze a catena sugli assetti contrattuali futuri  non solo del settore industriale. Quindi ben al di là delle esigenze specifiche.

Probabilmente, se guardiamo solo a dieci anni, le aggregazioni associative di entrambe le parti costruite nel novecento non avranno più ragione di esistere nelle forme conosciute fino ad oggi. Evolveranno e si semplificheranno inevitabilmente. Sicuramente questo avverrà sul tema del lavoro per la caduta delle differenze settoriali, le inevitabili evoluzioni del contesto sociale, degli stessi contenuti normativi, delle modalità delle prestazioni, della formazione necessaria e del welfare collegato.

Ma ragionare sul futuro è cosa molto difficile quando i rispettivi apparati spingono per soluzioni apparentemente più semplici.

Enzo Bianchi ci ricorda sempre  che: “Sovente costatiamo che il mondo non cambia mai. Tuttavia continuiamo a credere e sperare che val la pena di tentare e ritentare di cambiarlo”. Ognuno nel suo ambito. Questo penso sia l’auspicio che ci dovrebbe sempre guidare.

Lavoro, si. Ma come?

Nell’interessante relazione di Matteo Renzi al Lingotto il tema del lavoro non ha avuto il rilievo e la visione che, a mio parere, dovrebbe avere per un Partito come il PD.

Catastrofisti di professione e innovatori acritici hanno sempre condizionato, ciascuno a modo loro, il dibattito su questo tema lasciando il campo libero a chi prometteva che, il semplice intervento sul versante delle regole, avrebbe rimesso in moto un circolo virtuoso in grado di creare lavoro e mettere di conseguenza in soffitta vecchie teorie e rigidità conseguenti.

Nel nostro Paese, più che altrove, occorre aggiungere che la fragilità propositiva e di iniziativa delle parti sociali, unitariamente intese, ha contribuito ad impedire l’apertura di un confronto costruttivo a tutto campo sul futuro dell’impresa e del lavoro, della scuola, sul reddito disponibile, sulla quali/quantità del lavoro e sulla sua distribuzione.

L’unica cosa su cui (purtroppo) si sono tutti trovati d’accordo, pur muovendo da posizioni ed esigenze differenti, è stata la negazione di ciò che alcuni sociologi, economisti e giuslavoristi (Marco Biagi in particolare) avevano cercato di porre all’attenzione del mondo politico soprattutto di sinistra: il cambio di paradigma in atto e la necessaria revisione di tutta una impostazione sempre più inefficace.

E così, politica, aziende e sindacati si sono continuati a muovere su binari paralleli interpretando autonomamente le reciproche esigenze incontrandosi solo per gestire le conseguenze di quelle che erano ritenute “solo” crisi di singole, seppur importanti, realtà aziendali e degli strumenti per affrontarle. Oppure limitandosi a rimuovere semplici aspetti regolatori scambiando il dito con la luna.

L’assurdo è che, mentre crescevano nella società paure e disagi profondi soprattutto tra le nuove generazioni e in chi, espulso dal lavoro, non riusciva a rientrarci, il dibattito è diventato lontano, quasi surreale. Tutto rinchiuso tra gli addetti ai lavori o confinato mediaticamente su di un pallottoliere attraverso il quale, ogni giorno, venivano contati e rappresentati i successi o gli insuccessi della politiche occupazionali nel disinteresse generale.

Il referendum del 4 dicembre ha suonato la sveglia per tutti. Soprattutto per chi ha creduto possibile un cambiamento profondo del Paese prescindendo dal consenso necessario. O limitandosi ad interpretarlo. Senza consenso si possono fare prelievi forzati sui conti correnti, aumentare le tasse o modificare d’autorità il sistema previdenziale ma non si può cambiare il Paese. Né gettare le basi per poterlo fare. Questa è la vera lezione del 4 dicembre. Almeno secondo me.

Per questo un partito come il PD non può limitarsi a ribadire l’impegno verso l’art. 1 della nostra Costituzione. O limitarsi a rilanciare la filosofia del Jobs Act contro (tra l’altro) ad una buona parte del proprio elettorato. Dovrebbe sapere andare oltre.

Ben ha fatto il candidato segretario a rimettere al centro la scuola e l’alternanza scuola lavoro ma sul lavoro la posizione resta debole. Astratta.

Non si parla di nuove forme di collaborazione tra capitale e lavoro, di condivisione dei rischi e delle opportunità nelle imprese e nelle filiere economiche e produttive, di partecipazione dei lavoratori, di merito, di nuovo welfare, di diritti e di doveri. E non solo per i lavoratori. Anche per le imprese.

In un anno nel nostro Paese vengono spediti (inutilmente) oltre 140 milioni di CV. Come rispondere a fenomeni ed esigenze nuove di queste dimensioni? Solo a Bordeaux sono almeno 700 i bikers consegnatari. La CGT sta cercando di organizzarli. Quanti dovranno essere qui da noi prima che qualcuno affronti il problema in modo organico? Così come le nuove forme di lavoro autonomo indotte o create dalla rete. È sufficiente esaltarne le potenzialità senza farsi carico delle conseguenze? Altri, in altri Paesi, stanno cercano di gestire queste situazioni.

E quale dovrà essere il rapporto con le istanze del sindacato o con l’insieme delle rappresentanze sociali, anche datoriali? Soprattutto di quelle rappresentanze che cercano di interpretare l’innovazione e il cambiamento. Passare dall’io al noi è importante solo se il “noi” crea un ponte con il resto della società e dei soggetti che già vi operano con una discreta sintonia con le persone e i territori e con cui si devono condividere problemi e soluzioni all’interno di un operazione di verità e di trasparenza.

Non basta accorgersi di essersi ritrovati improvvisamente lontani dalle periferie o dalla concretezza dei problemi delle persone come hanno fatto alcuni esponenti rimasti o usciti da poco dal Partito Democratico. La visione nasce da questa consapevolezza. Altrimenti restano solo parole.

Riforma dei modelli contrattuali e ruolo delle parti sociali

Recentemente Paolo Pirani, segretario generale della UILTEC, ha dichiarato che, a suo parere, non serve più concludere la trattativa con Confindustria sulla riforma dei modelli contrattuali perché la stessa sarebbe già, di fatto, avvenuta con i rinnovi dei singoli settori industriali.

Pirani da per scontato ciò che, però, non lo è affatto. E cioè che gli impegni reciproci contenuti in ogni contratto settoriale troveranno, nella fase di gestione, l’equilibrio e la spinta innovativa necessari.

Per quanto mi riguarda continuo a pensare che un nuovo modello contrattuale non può limitarsi a riproporre uno schema che ha mostrato tutti i suoi punti deboli sia nei contenuti che nelle liturgie collegate. Occorre ripensarlo guardando in avanti.

Alcuni argomenti sono, per loro natura, materie di competenza confederale. Il peso della rappresentatività delle parti e le regole dei rinnovi, i confini applicativi e la titolarità di ciascun contratto, i livelli negoziali, i rispettivi contenuti e le eventuali derogabilità. Lo stesso welfare occorre consolidarlo su masse critiche ben più consistenti di quelle di oggi. L’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confcommercio va sostanzialmente in questa direzione.

Visto da fuori, il negoziato aperto a suo tempo con Confindustria presenta una serie di contraddizioni. Da un lato il cosiddetto “Patto di fabbrica” con al centro la proposta forte della “corresponsabilità” annunciata fin dalla assemblea generale di Federmeccanica ma mai declinata concretamente. Soprattutto nelle contropartite per il sindacato.

Da allora ad oggi sono stati rinnovati tutti i contratti del comparto industriale rispettandone giustamente l’autonomia ma confermandone l’inevitabile differenza nei contenuti e nelle strategie. Nelle richieste di Confindustria ai sindacati sono chiari i vantaggi per se stessa mentre sono praticamente inesistenti le contropartite soprattutto alla luce del fatto che le altre organizzazioni datoriali, innanzitutto Confcommercio, hanno firmato un accordo con il sindacato confederale che copre l’intero comparto del terziario di notevole spessore e prospettiva.

Questi accordi evidenziano inevitabilmente una debolezza propositiva e negoziale. Con i contratti già firmati e con gli accordi delle altre organizzazioni con i sindacati solo un accordo “alto”, innovativo e ricco di vantaggi reciproci può far uscire dall’angolo il negoziato. Ed è proprio quello che non sembra essere nelle volontà dell’attuale vertice confindustriale.

Innanzitutto i tempi. Questo negoziato si trascina stancamente da mesi senza approdare a nulla di concreto che non sia già stato affrontato nei tavoli delle singole categorie, gli annunci forti del Presidente Boccia (Patto di fabbrica e corresponsabilità) restano affermazioni, al momento, privi di conseguenze concrete, la stessa richiesta di costruire nuovi contratti dei servizi innovativi pare più un’operazione di marketing associativo che di vera necessità per le imprese. Un contratto che comprende anche i servizi innovativi c’è già ed è quello del terziario firmato da Confcommercio utilizzato da molte imprese anche di altri settori proprio per la sua flessibilità applicativa che, se traslata nei contratti del comparto industriale ne minerebbe i contenuti e lo stesso perimetro applicativo.

Le differenze tra le due impostazioni sono notevoli. Innanzitutto i contratti del comparto industriale sono figli di una cultura che attraverso i rapporti di forza messi in campo ha determinato, di volta in volta, gli equilibri sui singoli contenuti, irrigidendone una possibile gestione dinamica tipica, al contrario, delle situazioni in rapido mutamento. Nel contratto del terziario tutto ciò non esiste.

Le vere rigidità, per assurdo, sono state costruite nelle singole imprese attraverso i negoziati aziendali soprattutto nella Grande Distribuzione proprio perché assimilabile culturalmente e organizzativamente al modello fordista industriale del secolo scorso. Infatti nel terziario di mercato la contrattazione aziendale non esiste se non in misura assolutamente marginale. E nessuna azienda, credo,  sembra disponibile a reintrodurla spontaneamente. E non certo per una questione dimensionale.

La contraddizione non risolta nei contratti industriali tra la complementarietà o l’alternatività tra i due livelli contrattuali nel terziario è stata risolta da anni. Non è un caso che, anche nella Grande Distribuzione, sono sempre più i contratti aziendali ,che hanno prodotto le maggiori rigidità organizzative, che vengono disdettati.

Così come la derogabilità degli istituti, anche economici non presente nei comparti industriali. Se prendiamo, ad esempio, lo spostamento a data da destinarsi, del pagamento di una tranche del’ultimo contratto nazionale del terziario, concordato tra le parti per evitare operazioni di dumping tra le imprese, ci rendiamo conto della profonda differenza di contesto.

Se questo è vero come si può pretendere in un negoziato complesso che i sindacati nel comparto industriale accettino un’impostazione che di fatto tenderebbe a renderli marginali proprio laddove vorrebbero sviluppare in futuro il loro nuovo ruolo negoziale, lasciando maggiore libertà alle imprese?

Da qui nasce lo stallo principale che potrebbe essere superato solo da un salto di qualità nei contenuti (ad esempio in termini di reale e concreta corresponsabilità attraverso forme di partecipazione) che oggi non sembra essere nella disponibilità o nella volontà dei negoziatori.

Oppure dal riconoscere, e qui condivido la tesi di Pirani, che solo nella futura contrattazione aziendale e nei contratti appena firmati si potrà trovare la soluzione ai problemi posti. Quindi nella vigenza concordata.

Il mondo è cambiato. Non basta rivendicare, come ha fatto giustamente il Presidente di Confindustria di essere ancora la seconda manifattura d’Europa; occorre, qui si, cambiare verso. Avere un progetto per il Paese, e, di conseguenza scommettere su nuove relazioni industriali, non accontentarsi di una logica tutta difensiva. Nelle imprese e tra i lavoratori e, di conseguenza anche in alcune organizzazioni sindacali e datoriali stanno emergendo esigenze strategie e interpretazioni nuove.

È indubbio che al past President Squinzi e quindi a Confindustria, va riconosciuto un merito oggi non abbastanza sottolineato: aver posto termine alla pratica degli accordi separati. Ma il merito di cambiare e innovare i modelli contrattuali e quindi di essere un punto di riferimento e di sintesi non si eredita. Lo si conquista con proposte e con risposte concrete. Soprattutto in tempi di grandi cambiamenti.

Il Potere del vuoto…

Non trovo una espressione migliore di quella utilizzata a suo tempo da Pierre Carniti per fotografare la situazione attuale: “Il vuoto di potere non esiste. Esiste il potere del vuoto”.

In una corsa scomposta verso il baratro, sempre meno metaforico, mentre tutta la politica litiga sul niente (vedi vitalizi dei parlamentari), la vicenda dei voucher esce dai confini della logica e assume contorni sempre più grotteschi.

Il segretario dei metalmeccanici della FIOM (categoria dove l’utilizzo dei voucher è inesistente) viene ricevuto sull’argomento dal Presidente del Consiglio Gentiloni e il Ministro del lavoro Poletti, improvvisamente assurto nel ruolo di rappresentante ombra degli scissionisti del PD, scavalca a sinistra ben sei proposte sull’argomento giacenti in Parlamento proponendo di limitare i voucher alle famiglie riportando così l’orologio del tempo a prima della Biagi.

Francesco Riccardi ottimo giornalista e osservatore attento dei temi sul lavoro, lucidamente, ha definito il nostro, “il Paese del tutto o niente”. Come dargli torto?

Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i dati delle ispezioni del Ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail. Parlano da soli. Evidenziano il problema vero del nostro Paese. Quando il tasso di irregolarità arriva al 63% su quasi duecentomila aziende ispezionate occorrerebbe fermarsi e ragionare.

Sono aziende che fanno concorrenza a quelle che rispettano le regole, aggirano norme e contratti a danno dei loro collaboratori e non pagano, in tutto o in parte, tasse e contributi. In Parlamento non giace alcuna proposta di intervento su questo tema, il Ministro del Lavoro incassa, senza alcun merito particolare, l’impegno degli ispettori che sul territorio compiono un lavoro difficile, a volte pericoloso, poco riconosciuto ma, soprattutto, che non riesce a fare un salto di qualità per la incredibile sottovalutazione del tema da parte della politica.

Sui voucher, no. Meglio buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ad un recente convegno in Veneto organizzato dalla CGIL, Federalberghi ha cercato di spiegare che la stabilità dell’occupazione della regione nel comparto è lì a dimostrare che i voucher non hanno scalfito nulla. Anzi hanno contributo a far emergere pagamenti in nero e altre forme di lavoro sommerso.

La stessa Confindustria, essendo poco coinvolta, ha comunque “sommessamente” sottolineato l’utilità dello strumento, il suo contributo nell’emersione di parte del lavoro nero e l’obiettivo, condiviso, di eliminare le distorsioni emerse.

Confcommercio, con ben maggiore convinzione sottolinea che: “Oltre al riconoscimento economico, l’utilizzo dei voucher assicura anche il pagamento di contributi previdenziali e la copertura assicurativa Inail costituendo, di fatto, l’unico strumento per pagare in modo regolare prestazioni saltuarie e occasionali. Inoltre, di fronte ad un’eventuale limitazione significativa del campo di applicazione di questo strumento non ci sarebbe alcuna alternativa, né si potrebbero coprire queste attività saltuarie con rapporti di lavoro tradizionali. Secondo i dati Inps la stragrande maggioranza delle persone pagate con voucher sono lavoratori titolari anche di altra occupazione, percettori di ammortizzatori sociali, studenti o pensionati e che il compenso medio annuo è di circa 600 euro. E’ quindi evidente che le attività pagate con voucher non sarebbero sostituite da diversi rapporti di lavoro e quindi intervenire nuovamente sullo strumento comporterebbe solo la perdita di occasioni di lavoro retribuite in modo regolare”.

Tutto inutile? Sembrerebbe di sì. La “scoppolata” del referendum del 4 dicembre non ha “stordito” solo il partito di maggioranza che sostiene il Governo. Ha colpito un po’ tutta la politica.

Solo Maurizio Sacconi sembra mantenere i piedi per terra dichiarando: “Il Comitato ristretto sui voucher in seno alla commissione Lavoro della Camera ha concluso i suoi lavori con una aberrante soluzione incredibilmente condivisa non solo dalla sinistra ma anche da Forza Italia. Limitare l’uso dei voucher alle famiglie e alle imprese con un solo dipendente significa non conoscere il mercato del lavoro e le concrete situazioni occupazionali che meritano uno strumento semplice per emergere”.

Oggi il Segretario Generale della Uil dichiara a buon diritto: “Dobbiamo modificare la Fornero. La riforma delle pensioni più iniqua”. I grillini sentendosi appoggiati da un’opinione pubblica sempre più perplessa, si apprestano, come sostenuto dal buon Di Maio, all’Armageddon sui vitalizi, e alla battaglia sul reddito di cittadinanza. L’attento Francesco Seghezzi osserva: “È il classico esempio in cui per disinnescare un rischio politico non si guarda in faccia alla realtà”.

Certo, la realtà, il futuro, come ricostruire una prospettiva concreta sul tema del lavoro. l’impressione è che non sembrino interessare nessuno. Intanto i problemi incalzano.

Il Presidente della Commissione Europea Juncker ha presentato ieri il libro bianco sull’Europa e su come cambierà nel prossimo decennio (dall’impatto delle nuove tecnologie sulla società e l’occupazione ai dubbi sulla globalizzazione, le preoccupazioni per la sicurezza e l’ascesa del populismo).

Il Libro bianco delinea cinque scenari, ognuno dei quali fornisce uno spaccato di quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025. Forse dovremmo confrontarci su quegli scenari piuttosto che inseguire il novecento.

Jobs Act. Se resta l’equivoco di fondo…

I pur robusti interventi economici a sostegno del contratto a tempo indeterminato non hanno sortito l’effetto sperato e, finiti gli incentivi, sta piano piano, svanendo. Era prevedibile? Per alcuni era assolutamente scontato per la modalità stessa con cui sono stati concepiti gli incentivi.

Per altri, al netto delle preoccupazioni delle imprese sul loro futuro, no. Per loro poteva rappresentare la svolta sperata. L’estenuante politica degli annunci sui progressi mensili delle nuove norme e le contestazioni di rimando hanno fatto il resto. L’obiettivo del Jobs Act in fondo era chiaro. Spingere le aziende a convincersi che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato doveva ritornare ad essere prevalente rispetto alle altre formule, anche sui nuovi assunti. L’abrogazione dell’art. 18, da molti ritenuto un elemento centrale di impedimento alle assunzioni a tempo indeterminato, andava in quella direzione.

Purtroppo il perdurare di un aspro scontro sui “massimi sistemi” impedisce ancora oggi di avviare una riflessione scevra da strumentalizzazioni e quindi è difficile affrontare con sufficiente serenità l’approccio, e quindi le motivazioni, che stanno dietro ai comportamenti concreti delle imprese. Prima o dopo il provvedimento in questione e, in alcuni casi, lontani dalle intuizioni dei giuslavoristi.

A mio parere è invece importante farlo. Il Jobs Act è stato visto ovviamente con favore soprattutto per gli sgravi contributivi e per le evidenti  vie di uscita che comunque offriva. Era in sostanza un lavoro a tempo indeterminato con un costo di uscita definito. Quindi, tutto sommato, sopportabile.

Il punto è che, per le imprese, i lavoratori, non sono tutti uguali. Con molti di loro è sicuramente necessario costruire una sorta di patto che giustifichi l’investimento e i reciproci ritorni in termini di risultato aziendale ma anche di sviluppo professionale, formazione continua, politiche retributive. Il contratto prevalente, in questo caso, è ancora quello a tempo indeterminato. Prima o dopo il Jobs Act.

Questo non significa che il rapporto durerà per sempre. Significa solo che durerà fino a quando lo scambio comporta reciproci vantaggi. Entrambi i contraenti hanno convenienza a mantenerlo, svilupparlo e consolidarlo.

Parliamo di figure manageriali, specialisti, professional, giovani inseriti in percorsi di crescita, risorse comunque importanti per l’azienda stessa e non necessariamente individuati nei gradini più alti dell’inquadramento professionale. La differenza in questo caso la fanno i superminimi, i benefit, i premi legati alla realizzazione degli obiettivi aziendali. Ma anche le opportunità di sviluppo professionale, la formazione aziendale o interaziendale messa loro a disposizione.

Tutte queste figure non sono affatto marginali nelle aziende e sono sicuramente in crescita numerica, anche e soprattutto, per gli importanti cambiamenti organizzativi che attraversano le imprese di ogni settore. Nessuno si considera ormai in azienda per sempre ma l’investimento sulle risorse umane è una sfida decisiva colta dalla stragrande maggioranza delle imprese a garanzia del loro futuro.

Fuori da questo perimetro che coinvolge più o meno un terzo delle risorse di un’azienda (tra già assunti e nuovi e pur con tutte le eccezioni del caso) ci sono gli altri. Quelli comunque garantiti dalla legislazione vigente e quelli resi flessibili sempre dala stessa legislazione per bilanciare, in tutto o in parte, il costo o le rigidità organizzative dei primi. Da un lato restano i vincoli degli attuali sistemi contrattuali, gli inquadramenti, le anzianità, gli usi e le consuetudini aziendali. E una relativamente scarsa volontà delle imprese e, forse, delle persone stesse, di investire sulla loro occupabilità e sul loro futuro anche pensando al di fuori dall’azienda nella quale sono occupati.

Dall’altro ci sono quelli che, da quei vincoli non sono tutelati e quindi si devono impegnare ogni giorno per mantenere il loro lavoro e sui quali le aziende investono in termini di crescita individuale solo quando le persone mostrano un vero interesse e una forte disponibilità a condividerne valori, obiettivi e cultura. Altrimenti vengono nei tempi e nei modi consentiti dalla legge, ritenuti sostituibili. Quindi figure professionali fungibili per le quali il tempo determinato comunque inteso è una formula più funzionale.

I sindacati, e questo è comprensibile, si sono sempre mossi, al contrario, per riportarli tutti nell’alveo contrattuale tradizionale. Missione, ovviamente impossibile.

Questo dualismo si supera solo se i sistemi contrattuali verranno ricostruiti meno sui vincoli e più sulle opportunità; sulla corrispondenza tra mansione e retribuzione, sulla revisione dei modelli di inquadramento, sul riconoscimento del merito, sulla flessibilità dei modelli organizzativi e prestazionali, sulla occupabilità e quindi sulla formazione continua delle risorse, sulla collaborazione tra capitale e lavoro e sulla condivisione degli obiettivi dell’impresa per tutti. Così come su di una strumentazione di politiche attive veramente efficace.

Una ricostruzione che deve rimettere al centro lo scambio, i vantaggi reciproci e gli strumenti più efficaci per realizzarli. Forzare per obbligare le aziende ad assumere o a investire genericamente su un modello contrattuale superato e, per certi versi, estremamente costoso, non serve a nulla.

Certo un intervento sul cuneo fiscale sarebbe auspicabile ma è illusorio pensare che questo, da solo, spinga le aziende ad una cultura del lavoro che funzionava nel 900 solo perché supportata da rapporti di forza sfavorevoli. Oggi non è più così e non lo sarà più. Io comunque resto ottimista. Una nuova cultura del lavoro non può non affermarsi nel sindacato e nelle imprese.

Ci sono, è vero, segnali di rischiosi tentativi di ritorno al passato ma anche segnali incoraggianti e importanti, ad esempio, nel recente contratto dei metalmeccanici, nel contratto del terziario così come, in altri contratti nazionali appena firmati.

L’aver ribadito in tutti i comparti l’importanza stessa del contratto nazionale come cornice di riferimento con i relativi rinvii, a livello aziendale, segnala una disponibilità che attraversa anche lo stesso mondo delle imprese. Altrimenti questa stagione non si sarebbe conclusa così.

Questa disponibilità va coltivata nella fase di gestione dei contratti appena firmati proprio per affrontare il cambiamento e rilanciare un nuovo ruolo delle parti sociali che sappia rimettere al centro il lavoro. Ovviamente il lavoro come dovrà essere domani e non come lo è stato nel secolo che abbiamo alle spalle.

Il canto del cigno del 900…

Difficile prevedere come finiranno le due vertenze aperte in questi giorni. E, comunque si concluderanno, rappresentano l’inevitabile tramonto di una cultura che appartiene al secolo che abbiamo alle spalle. Un tramonto, però, troppo lungo che non possiamo più permettercelo.

Alitalia e tassisti rappresentano, che lo si voglia riconoscere o meno, due facce della stessa medaglia. Lo stesso potere di interdizione e, sostanzialmente, lo stesso target di cittadini/consumatori coinvolti. I primi invocano la nazionalizzazione, i secondi la difesa ad oltranza contro un futuro che non li prevede. Almeno così come molti loro intenderebbero affrontarlo.

Individualmente hanno buone ragioni. Le stesse del negoziante che chiude per l’arrivo nel quartiere di un supermercato che apre h24, del lavoratore che perde il lavoro perché la sua azienda delocalizza, del piccolo artigiano mobiliere brianzolo con l’arrivo di IKEA.

Loro sono diversi solo perché hanno ancora un enorme potere di interdizione. Ma il destino è comunque segnato. Entrambi, almeno così appare, non cercano, almeno per il momento, nessuna mediazione.

Ad oggi, sei giorni di blocco del servizio da parte dei tassisti. Sull’altro versante una reazione durissima su tutte le proposte aziendali. Il tono, in entrambe le vertenze, nasconde ovviamente preoccupazione e paura. Come nel 900 ci si affida e si spera che un terzo soggetto (il Governo) ci metta del suo per riportare indietro le lancette del tempo.

Nel caso dell’Alitalia ci sono evidentemente responsabilità da distribuire. Quindi non riguardano solo i lavoratori e i loro rappresentanti. Questa però è solo una magra consolazione. Personalmente mi ricorda la vertenza Unidal (Motta e Alemagna) sul finire degli anni 70 dove, dopo la presentazione di un piano che prevedeva quasi tremila licenziamenti respinto al mittente con lotte durissime, si concluse con oltre quattromila licenziamenti e la fine di entrambe le aziende.

Alitalia oggi è ad un passo dal fallimento. Non ha più nulla della compagnia di bandiera del secolo scorso né potrà ritornare ad esserlo. Può però essere oggetto di un profondo ridisegno del perimetro di attività e di una ridefinizione del numero degli addetti, del loro utilizzo e del costo complessivo del lavoro. Il confronto non può essere spostato su altro. Né sulle recriminazioni.

E va fatto in tempi sufficientemente rapidi affinché la ragionevole certezza di un suo possibile rilancio convincano azionisti e Governo a sostenerla con tutto ciò che è in loro potere decidere. Non esiste un piano B. Così come per i tassisti. Occorrerebbe mettere a loro disposizione e alle loro rappresentanze qualcuno che li aiuti ad evolvere con progetti, idee e modalità di lavoro nuove. Spingerli a prendere atto che non è nel muro contro muro che risiede il loro futuro.

Personalmente spero che il Governo non si limiti a rimuovere il vulnus che ha causato la protesta ma che, al contrario, apra un percorso di confronto aiutando almeno i tassisti più sensibili a riflettere su opzioni possibili, su come attivarle nel tempo e su come favorirle, su come, infine, attenuare le conseguenze del cambiamento necessario.

È vero che l’Anpal è solo all’inizio ma questo potrebbe essere un importante compito da affidargli. Come si costruiscono progetti imprenditoriali piccoli o grandi non è altra cosa rispetto a come si trova un lavoro dipendente dopo averlo perso.

Occorre abbassare il livello di paura nei confronti del futuro. Occorre aiutare le persone ad affrontarlo. Altrimenti non resta che la resistenza a oltranza.

Anche se, purtroppo, questo rappresenta il canto del cigno di abitudini e convinzioni che non si rassegnano a cedere il passo a modelli di risoluzione dei conflitti più concreti ed efficaci.

Eppur si muove…

La decisione della FIOM CGIL di lanciare una indagine a 360 gradi in FCA è, di per sé, un importante segnale di riposizionamento positivo che non va sottovalutato.

Dopo la firma unitaria del CCNL era comunque necessario affrontare il rapporto con la principale azienda del settore e, sul tema, con le altre organizzazioni sindacali.

Dichiarare apertamente come nel loro comunicato ufficiale che: “La nostra è un’inchiesta senza “paracadute”. Il tema non è dimostrare quello che noi già pensiamo ma capire come le azioni dell’azienda hanno cambiato le cose e se e quanto tutto quello che abbiamo cercato di fare come Fiom in questi anni, grazie allo straordinario lavoro dei delegati, è vivo tra i lavoratori. Bisogni e desideri in stabilimenti cambiati dalla crisi, dal contratto e dalla nuova organizzazione del lavoro.

È ovvio che questo prevede la nostra disponibilità ad accettare tutti i risultati che emergeranno e, in base a questi, riorientare le scelte di carattere sindacale.”

Da qui emerge tutta la concretezza della nuova direzione di marcia della FIOM impressa da Landini che segue il rinnovo del CCNL. Non solo in FCA. L’indagine dimostrerà ciò che non può non dimostrare: il cambiamento in atto negli stabilimenti non solo dal punto di vista tecnologico e organizzativo ma anche sociale.

La FIOM aveva scommesso sul declino e il declino non c’è stato. La ripresa del lavoro negli stabilimenti non ha risolto di per sé il problema della fatica o del salario ma ha creato delle condizioni nuove di appartenenza, condivisione e impegno tra i lavoratori che non erano né proponibili né percepibili nella fase declinante.

Soprattutto da quella parte dei militanti e dei delegati che, non comprendendo il cambio di fase, insistevano nel riproporre un modello che faceva perno sul contratto nazionale e sulla contrattazione aziendale in vigore, costruita negli anni precedenti la grande crisi.

A differenza degli altri sindacati di categoria la FIOM, non riuscendo a percepire un futuro dell’azienda, ha preferito scommettere sulla difesa di ciò che il passato aveva prodotto di positivo per i lavoratori pensando di poterlo difendere con l’iniziativa sindacale o con i ricorsi in magistratura. Ha sottovalutato la determinazione dell’azienda, l’assenza di alternative praticabili, la debolezza delle dinamiche confindustriali ma, soprattutto, il modificarsi dell’orientamento dei lavoratori che hanno scelto, insieme alle altre organizzazioni sindacali, di accettare una scommessa complessa con l’azienda piuttosto che una difesa ad oltranza di una realtà che non esisteva più se non nei ricordi collettivi di prima del massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali.

Questa indagine si svilupperà in un anno decisivo per il futuro di FCA è, se fatta bene, fornirà indicazioni importanti per il futuro stesso delle relazioni industriali. Quindi se ne potranno avvantaggiare anche le altre organizzazioni sindacali.

A Landini il compito di riportare un po’ di sana concretezza emiliana nelle relazioni sindacali della più importante azienda italiana. Agli altri la disponibilità e la pazienza di reggere qualche gomitata fuori misura.

Una ripresa di rapporti unitari in FCA resta comunque decisiva per il futuro di una parte importante del movimento sindacale italiano. Speriamo che questa indagine ne consenta un rilancio.

Contratti della Grande Distribuzione. Adesso tocca al Ministero del lavoro.

L’iniziativa era nell’aria. Rita Querzé ne scrive oggi sul Corriere. Sia Confcommercio che i sindacati di categoria non potevano non rompere gli indugi e chiamare il Ministero del lavoro alle sue responsabilità.

Ci sono aziende che applicano un contratto nazionale e si sobbarcano i relativi obblighi e costi e ci sono aziende che non applicano un bel nulla ma che ne godono dei benefici economici e contributivi. Per un paio di anni e fino a poco tempo fa la indubbia capacità di lobby di Federdistribuzione è riuscita a convincere il Ministero del lavoro che la firma di un contratto nazionale specifico fosse imminente spingendo così il Ministero a temporeggiare rispetto ai suoi obblighi di vigilanza.

La vicenda è nota. Federdistribuzione è uscita da Confcommercio e ha convinto le aziende che vi hanno aderito a puntare ad un contratto nazionale specifico proponendo obiettivi ambiziosi quanto difficilmente realizzabili.

Il sindacato, con sensibilità differenti, ha tentato di restare in gioco giocando su tutti i tavoli possibili pur trovandosi di fronte a richieste, non solo irricevibili, ma che rischiavano, se accettate, di sfaldare l’intero sistema contrattuale del settore. Il punto è che non tutte le aziende del comparto aderiscono a Federdistribuzione. Molte sono in Confcommercio, altre applicano il contratto nazionale della cooperazione, alcune, infine, quello di Confesercenti.

Federdistribuzione ha insistito nel tenere al tavolo negoziale i sindacati con la promessa di chiudere in breve tempo ma, questi ultimi non ci hanno messo molto a comprendere che questa situazione rischia solo di avere come effetto collaterale grave l’assenza di una copertura contrattuale per decine di migliaia di lavoratori e quindi anche una situazione di evidente dumping tra imprese.

Le difficoltà economiche del settore e l’assenza significativa di iniziative sindacali spingono molte aziende della GDO, addirittura, a preferire l’assenza di un contratto ad un contratto comunque e quindi la situazione si è, piano piano, infilata in una palude da dove sarà sempre più difficile uscire.

Da qui le polemiche e le cicliche accuse di Federdistribuzione a Confcommercio e ad una parte del sindacato di voler impedire la sottoscrizione del contratto. Tesi sufficientemente ardita perché presuppone l’esistenza, al contrario, di una altra parte del sindacato disponibile a firmare comunque cosa fino ad oggi non manifestata in nessuna sede ufficiale.

Confcommercio, d’altro canto, non può che tutelare l’interesse delle aziende che vi aderiscono e quindi il punto, per questa Confederazione, non è impedire la firma di un contratto altrui. Anzi. Semmai si raggiungesse, in questo infinito negoziato, un risultato economicamente o normativamente più vantaggioso per le aziende questo non potrebbe che essere rivendicato sia da Confcommercio che da Confesercenti e, infine, anche dallo stesso mondo cooperativo.

Occorre sempre tenere presente che il contratto di Federdistribuzione riguarda circa centocinquanta mila addetti mentre solo quello di Confcommercio oltre tre milioni di addetti. I rischi sono evidenti.

Il problema di chi ha firmato il suo contratto nazionale è che non può tollerare una situazione dove alcune imprese godono di un vantaggio a prescindere mentre chi ha rispettato le regole ne ha un danno. Tutto qua.

Come ho già avuto modo di scrivere la strada imboccata da Federdistribuzione è sbagliata. Se qualche anno fa poteva avere ancora un senso la polverizzazione contrattuale per garantire alcune prerogative, oggi è un inutile .

Occorrerebbe una maggiore lungimiranza puntando decisamente verso modelli che prevedano l’applicazione di un unico contratto nazionale del terziario con, eventualmente, alcune deroghe necessarie che garantiscano una specificità settoriale da cui far discendere un nuovo modello di contrattazione aziendale costruito sulle esigenze della singola impresa. I modelli contrattuali che si stanno costruendo vanno tutti in questa direzione.

Capisco che non è facile cambiare strategia quando l’esigenza politica di affermare la propria esistenza associativa impedisce di alzare lo sguardo. Ma il mondo è veramente cambiato e attardarsi verso vecchi modelli contrattuali rischia solo di impedire l’evoluzione del contesto.

Le aziende della GDO stanno attraversando una fase estremamente complessa che sta rimettendo in discussione la dimensione e la presenza di molti gruppi nazionali e internazionali sul mercato, i loro modelli organizzativi, gli stessi format di vendita. Molte di loro sono impegnate in sforzi formativi importanti che consentono a migliaia di giovani di crescere e sviluppare professionalità e carriera.

La stessa Federdistribuzione è impegnata su versanti importanti dove esercita un ruolo di accompagnamento di affermazione e di ammodernamento del settore con grande determinazione. Sul versante sindacale, al contrario, le esigenze delle singole imprese, hanno sempre impedito la costruzione di una vera cultura associativa che, per sua natura deve saper operare sintesi con le rispettive controparti.

Altrimenti ci si trova nella situazione in cui si è oggi. Cosa prevedibile fin dall’inizio di questa avventura…

La nuova stagione dei metalmeccanici

La recente firma unitaria del CCNL dei metalmeccanici è un risultato positivo a prescindere. Segna la volontà di riprendere un cammino concreto che guarda ben più lontano del merito e dei risultati del negoziato.

La stessa gestione delle assemblee di ratifica, il clima presente e la volontà comune di tenere al palo, senza se e senza ma, quel 20% di oppositori di mestiere ne sono la conferma.

Le tre organizzazioni hanno scelto, insieme, di investire nella prossima contrattazione aziendale e quindi hanno costruito un contratto nazionale che ne rappresenta la cornice indispensabile. Una contrattazione aziendale, che, laddove ne esisteranno le condizioni, cercherà di “sfidare” le aziende sul terreno della produttività, del coinvolgimento e quindi della condivisione e, ultimo ma non meno importante, della formazione continua dei lavoratori.

Landini ha capito benissimo che un riposizionamento del gruppo dirigente della FIOM in chiave unitaria era necessario. Andare per salotti televisivi in tempi di grillismo imperante significa solo lavorare per il re di Prussia. Che lo si voglia o meno. Anche perché, dai territori, i cosiddetti accordi “difensivi”, si sono, nel tempo, moltiplicati e la FIOM non si è certo sottratta ad apporre la sua firma gestendone con responsabilità e preoccupazione tutte le conseguenze.

Resta aperto il vulnus principale. Il macigno sulla strada del riposizionamento definitivo: la vicenda FCA. È un passaggio delicato perché coinvolge anche l’approccio culturale di numerosi dirigenti sindacali, di molti delegati e iscritti, non solo di quell’azienda. Le loro storie personali, le loro scelte ma, soprattutto le conseguenze di quelle scelte.

D’altra parte i sindacati, non solo quelli del comparto metalmeccanico, se ripercorriamo le scelte nell’ultimo decennio, entrano ed escono dai contratti firmati o rifiutati nei rinnovi successivi senza mai fare fino in fondo i conti con gli eventuali errori commessi precedentemente. Né proponendo autocritiche.

La vicenda FCA è però diversa. L’azienda è cambiata profondamente e ha sempre giocato le sue carte provocando essa stessa i sindacati con l’obiettivo di modificare il perimetro, i contenuti e le modalità del confronto. Solo la lungimiranza delle altre organizzazioni sindacali di categoria e la loro disponibilità ad esporsi e ad assumersi forti rischi politici ha consentito di riprendere per i capelli situazioni ormai quasi compromesse.

Ma l’azienda non è mai stata intenzionata a concedere sconti neanche ai firmatari degli accordi. Il livello, le modalità e i contenuti del confronto sono cambiati disegnando uno scenario proprio di un nuovo modello di contrattazione aziendale. E quindi di relazioni industriali. FIM e UILM lo hanno capito benissimo.

E qui, a mio parere, sta il punto vero. Non è tanto un problema di come rientrare in gioco limitandosi a superare il passato. Oggi ci sono nuove regole del gioco e nuove modalità di confronto. E lo vedremo concretamente nella gestione del contratto nazionale.

Fare paragoni tra i contenuti economici del recente contratto dei metalmeccanici e quello in vigore in FCA non serve a nulla. Anzi. È un inutile esercizio di stile. L’unico vero paragone che ha senso proporre è nella filosofia di fondo tra i due modelli che è sostanzialmente identica.

Di più. Non ci sarebbe stato il rinnovo del contratto nazionale unitario in questi termini se non ci fosse stato lo strappo FCA. Realtà dove la priorità, oggi, dei sindacati che hanno accettato la sfida, credo sia quella di consolidare il lavoro nel Gruppo e il suo perimetro produttivo nel Paese. Occorrono nuovi occhi. Altrimenti non si rientra in gioco. E, soprattutto, non si esercita nessun ruolo propositivo.

Il lavoratore FCA di oggi si sente, al contrario, in partita. Si riconosce nella sua azienda, ne condivide gli obiettivi, è parte attiva del suo rilancio. E quindi si aspetta dal sindacato un comportamento coerente. Sentire, in una intervista televisiva, un delegato sindacale di uno stabilimento del sud chiamare l’AD di FCA “dottor” Marchionne è un segno dei tempi.

C’è rispetto dei ruoli, sobrietà nei comportamenti e nelle dichiarazioni, condivisione di obiettivi. Le nuove relazioni industriali si costruiscono in FCA e altrove, anche su queste tre caratteristiche semplici. Ma, come tutte le cose semplici, sono molto difficili da declinare….

I sindacati tra tattiche e strategie..

La chiusura unitaria del CCNL dei metalmeccanici ha segnalato un dato importante. Dove più acuta era la crisi di rapporto tra le diverse organizzazioni sindacali (e la rispettiva controparte) il lavoro di ricucitura messo in campo dai rispettivi protagonisti è stato più costruttivo e convincente che altrove.

Il fatto segnala indubbiamente una maturità e una visione che i lavoratori, soprattutto quelli più vicini alle rispettive organizzazioni sindacali, non hanno mancato di apprezzare.

Proporre, come chiave di lettura, una FIOM consenziente perché militarizzata e quindi dipendente dai voleri di Maurizio Landini come ha fatto Giuliano Cazzola mi sembra francamente esagerato anche perché tenere in una perenne tensione inconcludente una organizzazione sindacale e i suoi militanti può funzionare con un COBAS di modeste dimensioni non con una grande organizzazione che comunque fa parte della CGIL.

Il contratto dei metalmeccanici non è affatto sbilanciato a favore delle imprese. Contiene impegni, costi, soprattutto futuri, che vanno ben al di là di di quanto un’associazione di imprese ha mandato di sottoscrivere se non in una fase di riorientamento strategico delle relazioni sindacali, dei ruoli della contrattazione e del futuro dell’intero sistema.

C’è un equilibrio sostanziale che rappresenta una indubbia particolarità in un contesto dove le piattaforme sindacali, pur preparate con cura, si sono infrante contro muri datoriali sempre meno disponibili.

Gli impegni contenuti e la gestione dello stesso contratto ne marcheranno il cammino, lo collocheranno nella giusta dimensione e ne consentiranno una giusta valutazione solo alla fine del percorso concordato tra le parti.

Modalità di partecipazione dei lavoratori alla crescita e allo sviluppo delle loro imprese, ruolo della contrattazione aziendale, revisione dell’inquadramento, formazione dei lavoratori come diritto soggettivo, sicurezza sul lavoro, solo per citare alcuni temi rilevanti, costituiscono una base di confronto di notevole contenuto e spessore. Ed è su questo che si chiariranno i confini dentro il quale il cosiddetto “Patto di fabbrica” troverà o meno uno sblocco plausibile e concreto. Oppure resterà solo sulla carta. Ed è per questo che il percorso di confronto tra i massimi organismi di FIM, FIOM e UILM avviato oggi è molto importante.

Non va però sottovalutato, che tutto questo avviene in un contesto di relazioni tutte da ricostruire tra le diverse organizzazioni sindacali sia in categoria che a livello confederale.

Innanzitutto in categoria dove le tendenze egemoniche della FIOM, che si sono manifestare fortunatamente solo nel rinnovo del contratti minori o in periferia, non sembrano destinate a rientrare facilmente nonostante l’impegno di tutte le segreterie nazionali.

Così come in FCA dove, sempre la FIOM, non segnala alcuna volontà concreta di “redenzione” quasi come continuasse ad attendere la realizzazione della profezia negativa evocata con una certa ossessione in tutti questi anni che ha trasformato Maurizio Landini in una sorta di Voldemort della saga di Harry Potter che, temendo di essere sconfitto da un bambino nato da poco, tenta di ucciderlo, continuando ad attaccarlo fino a quando, almeno nella saga è lui ad essere sconfitto definitivamente.

Per non parlare della carta dei diritti proposta dalla CGIL che, pur rappresentando un interessante punto di osservazione di una possibile evoluzione del mondo del lavoro non ha nulla che la possa mettere in relazione con il disegno strategico concordato con Federmeccanica nel dettato contrattuale dei metalmeccanici appena firmato se non sui principi generali. O con quanto ipotizzano tutte le organizzazioni datoriali per rilanciare il lavoro e favorire la ripresa.

Infine il referendum con la sproporzione evidente tra i contenuti rimasti sul tappeto e le conseguenze politiche e sociali che potrebbe innescare. Conseguenze che solo un sindacato unito su proposte chiare potrebbe evitare. Ultimi ma non ultimi gli imminenti congressi sindacali con tutte le tensioni e i nervosismi tipici delle stagioni riservate alla riproduzione.

Segnali a volte difficili da decifrare o da interpretare per un osservatore esterno soprattutto perché le tattiche e i segnali trasmessi rischiano di prevalere sulle necessarie strategie da mettere in campo.

D’altra parte le difficoltà della Politica sono evidenti. Così come sono altrettanto evidenti le difficoltà di una sinistra sociale che fatica a rientrare in campo perché insiste su un’idea di lavoro sempre più difficile da realizzare quindi lontana dalle esigenze del Paese e dalle urgenze delle nuove generazioni. E, come già sottolineato, sempre più lontana dalle disponibilità delle imprese e delle loro organizzazioni di rappresentanza.

Il rischio è di abbandonare la strada della concretezza e della contrattazione tipiche del sindacato per rifugiarsi nella pura testimonianza.

Ed è su questo, sulla comprensione del contesto e delle risposte che solo il confronto tra sindacati e con le rispettive controparti può determinare, che la differenza tra espedienti tattici e visione strategica chiarirà il ruolo che i gruppi dirigenti dei sindacati, confederali e di categoria ma anche di tutti i corpi intermedi, vorranno giocare nei prossimi mesi e che ne segnalerà il possibile rilancio o il declino. I segnali, purtroppo, sono ancora abbastanza contraddittori.