Una rinnovata vitalità dei contratti nazionali?

Le indicazioni che stanno emergendo in questa stagione di rinnovi dei CCNL nei diversi settori sono sostanzialmente due. Nessuno, né tra i sindacati né tra le organizzazioni datoriali, auspica la messa in soffitta del contratto nazionale e, le parti, sono assolutamente in grado di deciderne autonomamente i contenuti, i tempi, le modalità e gli argomenti da assegnare ai diversi livelli. Questa è certamente una buona notizia ma soprattutto un sintomo di vitalità in controtendenza con le campane a morto sullo strumento in sé che, troppo frettolosamente, qualcuno voleva suonare. Ovviamente nessuna delle parti in causa auspica lo status quo ma tra questo e “gettare il bambino con l’acqua sporca”, ce ne corre. Il differente approccio utilizzato nei diversi settori è la dimostrazione del “pragmatismo bilaterale” che si sta affermando nelle nostre relazioni industriali. Fuori dai riflettori dei media e a tutti i livelli, nel privato, si siglano accordi di reciproca soddisfazione. La crisi e poi il contesto nazionale e internazionale hanno determinato un clima di sano realismo che ha spinto le parti a convergere su richieste o concessioni assolutamente compatibili. Per quanto riguarda la parte sindacale restano fuori pochi casi centrali e locali (seppure socialmente rilevanti) causati da residui di ideologismi o vecchi rancori identitari e organizzativi. Sul fronte datoriale, restano aperte le situazioni dove le rappresentanze hanno preferito illudere i rispettivi rappresentati della possibilità di ottenere risultati mirabolanti costringendo i sindacati a “ingoiare” proposte irricevibili. Su questo, l’imperizia, un inutile strumentalità fuori luogo e la sottovalutazione degli interlocutori hanno infilato interi comparti in situazioni da cui non sarà facile uscirne. Ma non stiamo parlando di tendenza, stiamo parlando di code. Terziario, chimici, alimentaristi hanno tracciato a loro modo una strada preparando scenari futuri. Un discorso a parte meritano i metalmeccanici perché, secondo me, sono impegnati in un vero contratto di svolta. L’importanza di questo confronto è data dai temi posti sul tavolo da Federmeccanica e dalla consapevolezza dell’importanza degli stessi. È un approccio di segno profondamente nuovo sia nelle reazioni sindacali, sempre ragionate e motivate sia nella mancanza di strumentalità della controparte datoriale. Sono i temi, la qualità e la quantità dei contenuti e il modello di relazioni che si vuole affermare da qui in poi al centro del negoziato. Staremo a vedere ma credo che questo possa spingere tutti gli altri comparti economici e le loro rappresentanze a cercare altre strade o a ripercorrere in modo nuovo alcune intuizioni del passato a cominciare dal sistema bilaterale e del welfare contrattuale.

Industry 4.0: un’occasione per discutere di nuove relazioni industriali.

Un recente studio curato dalla Fondazione Symbola e CNA dimostra che l’Italia è il secondo Paese in Europa per numero di aziende dove, negli ultimi tre anni, sono state introdotte innovazioni di processo e di prodotto. Di queste, più dell’80% ha meno di 50 dipendenti. Se aggiungiamo che il 95% delle nostre imprese ha meno di 50 dipendenti e meno di dieci milioni di fatturato ci rendiamo conto che il cambio di paradigma imposto da industry 4.0 è decisamente alla portata di una platea ben più ampia della sola grande impresa manifatturiera. Nell’ultimo numero della rivista Sistemi e Impresa è stata pubblicata una survey molto interessante del laboratorio Research & innovation for Smart Enterprises (RISE) dell’Università di Brescia che indaga se e come nel nostro Paese è in corso la rivoluzione digitale in ambito manifatturiero. Settanta imprese, segmentate per dimensione, sono state valutate sotto diversi aspetti evidenziando risultati significativi. È da questa realtà in continua evoluzione che occorre partire per riflettere sull’importanza e sull’impatto di industry 4.0 sulle imprese, sulla loro organizzazione e sulla gestione delle risorse umane. Ma è anche una grande occasione di ridefinizione di una strategia sul lavoro che cambia che non può non coinvolgere anche il sistema stesso delle relazioni sindacali pena una loro definitiva marginalizzazione. Non cambia solo il luogo di lavoro, il modo stesso di lavorare o il contributo che viene richiesto al singolo lavoratore ma industry 4.0 rimette inevitabilmente in discussione tutto un complesso sistema di regole e relazioni consolidate che, avendo i suoi riferimenti passati nel fordismo, hanno sempre determinato l’estendibilità collettiva e quasi automatica di diritti, retribuzioni e inquadramenti e che, nei contratti nazionali, hanno sempre trovato, negli anni passati, una sintesi condivisa. Il vero cambiamento non sta esclusivamente nella produzione materiale: le nuove capacità messe a disposizione dall’evoluzione tecnologica si inseriscono in funzioni come le decisioni strategiche o la progettazione e in settori come il terziario, l’artigianato o il consumo finale che ne erano rimasti lontani. Sono dunque le organizzazioni che devono sempre più imparare a “pensare” in modo differente. E le organizzazioni sono composte da persone a cui viene richiesto di muoversi in modo diverso dal passato. L’agire e l’interagire tra imprenditori, manager e collaboratori diventerà sempre più strategico quanto la consapevolezza che, nella filiera, cambierà sempre di più il rapporto tra produttori, servizi, distributori e consumatori finali. Con il fordismo era, in fondo, tutto più semplice. Si trattava di fotografare e categorizzare gli “esecutori” e il contratto nazionale serviva bene allo scopo. Industry 4.0 impone, al contrario, capacità di auto-organizzazione e questo a tutti i livelli della gerarchia. Serve quindi sviluppare capacità che appartengono anche al lavoro autonomo e imprenditoriale. Saper prendere decisioni, assumersene i rischi relativi, superare vecchie logiche gerarchiche e funzionali significa investire in nuove competenze. Competenze e capacità da acquisire che abbisognano la “persona” al centro, la formazione necessaria, lo sviluppo professionale, il luogo, il tempo di lavoro e l’inevitabile coinvolgimento sui risultati e sull’andamento aziendale. Al contrario il nostro sistema contrattuale si è retto, per oltre cinquant’anni, su quattro pilastri fondamentali: l’estraneità assoluta del lavoratore dall’andamento aziendale, il lavoro dipendente a tempo indeterminato come modalità prevalente di accesso, l’inquadramento professionale inteso come scala percorribile solo in salita e un complesso di diritti e doveri (identificanti la totale subalternità del lavoratore) come sistema di valori alla base delle regole del gioco. Leggi e interpretazioni della Magistratura hanno, nel tempo, convalidato e irrigidito questo schema. Per contro la stessa cultura alla base delle principali organizzazioni aziendali nei settori industriali ma anche in molte aziende della grande distribuzione rispondevano a quella logica e quindi quei pilastri ne hanno accompagnato l’evoluzione incanalando il tutto in una liturgia sostanzialmente condivisa. La crisi e la globalizzazione hanno via via inceppato questo meccanismo restituendo, nel tempo, una “dignità” ai percorsi contrattuali che in altri comparti si erano nel frattempo sviluppati riportandoli in primo piano (vedi il terziario nelle ultime formulazioni) e promuovendo anche innovazioni legislative (vedi legge Biagi) con lo scopo sia di influenzare i diversi contratti nazionali che di mettere a disposizione delle imprese strumenti più efficaci. Infine lo strappo di Marchionne fino ad arrivare all’ultima proposta di Federmeccanica. Oggi siamo fermi qui. I pilastri (che andrebbero profondamente rivisitati) restano, tutto sommato, ancora inalterati e la discussione, anziché avvenire sui contenuti del lavoro, si limita a parlare dei livelli, dei luoghi dove il dialogo dovrebbe o potrebbe strutturarsi. Ma senza una profonda rivisitazione dei contenuti è difficile costruire nuove modalità di approccio anche se il confronto fosse portato a livello aziendale. Per questo occorrerebbe che le parti sociali si interroghino sulla “direzione di marcia”. È fondamentale che le imprese abbiano voglia e convenienza ad investire sui propri dipendenti e che questi abbiamo convenienza a investire sulla propria azienda ma anche su se stessi e sul proprio sviluppo professionale e personale. Ma se non c’è una prospettiva condivisa, se non si rimettono al centro del confronto produttività delle imprese e redditi da lavoro, formazione e politiche attive, collaborazione e condivisione dei risultati nell’impresa, non si va da nessuna parte. Poi, insieme, si vedrà cosa ha senso mantenere a livello nazionale e cosa deve essere decentrato. Un vecchio proverbio tunisino afferma:”la differenza tra un deserto e un giardino non è l’acqua ma l’uomo”. È dalla centralità della persona che occorre partire. Oggi più di ieri. Ed è questa la vera sfida se crediamo in un vero cambiamento.

Un “NO”, tutto sommato, scontato..

La scelta di presentare una proposta sindacale alla vigilia del “semestre bianco” di Confindustria e con la trattativa dei metalmeccanici che si stava aprendo su basi ben diverse, lasciava intendere che il significato politico e il valore dell’iniziativa unitaria fossero ritenuti, dagli stessi proponenti, più importante dei contenuti della proposta stessa. Il “no” di Confindustria ad accettare quei contenuti come base di discussione era tutto sommato scontato. Così come è prevedibile che a breve seguirà il “no” di Confcommercio che, da poco, ha rinnovato il più importante contratto nazionale del Paese nel quale sono state individuate soluzioni utili alle imprese e ai lavoratori con gli stessi sindacati che oggi sostengono una piattaforma la cui impostazione, di fatto, rischia di essere percepita, da parte datoriale, come un  ritorno al passato. Dall’altro lato della “barricata” l’endorsement alla piattaforma della FIOM CGIL e le perplessità di Bentivogli della FIM CISL danno il segno di quanto è complesso il contesto è di come sarà difficile muoversi. Degli “attori” principali in campo mi sembra che solo Gigi Petteni, segretario confederale della Cisl, ha cercato di gettare il cuore oltre l’ostacolo individuando il confronto come un luogo dove innanzitutto condividere un “senso di marcia”, una strategia di riferimento prima di affrontare i contenuti. È chiaro a tutti che il contesto porta inevitabilmente a riflettere sui modelli di collaborazione e di condivisione tra capitale e lavoro e quindi tra manager, imprese e lavoratori. Il punto è se farlo “tra” parti sociali attraverso un nuovo modello di relazioni industriali condiviso o “nonostante” la presenza delle parti sociali. In altri termini la domanda di fondo è se prevarrà un sistema dove i corpi intermedi si impegnano a giocare un nuovo ruolo o, di fatto, accettino di essere condannati alla irrilevanza scavalcati da forme di “collaborazione costruttiva” definite direttamente nelle aziende. Io resto convinto che, fatto salvo il diritto delle imprese e delle loro rappresentanze di tenere la “barra dritta” sui contenuti, puntare alla marginalizzazione del sindacato in sé, sia un errore. Un errore destinato a coinvolgere, nel tempo, anche le stesse organizzazioni datoriali. In gioco, credo ci sia, un modello di società intesa come una comunità in cammino dove dovrebbero esistere pesi e contrappesi, interessi deboli e forti che si ricompongano nel confronto e le contraddizioni del contesto nazionale e internazionale vengano ammortizzate da una rinnovata coesione sociale e politica. Spingere i sindacati confederali su una posizione esclusivamente difensiva e inconcludente è relativamente facile. Sfidarli su un altro terreno lo sarebbe molto meno. Il mancato rinnovo di molti contratti è lì a dimostrare l’assoluta debolezza dei sindacati nel rapporto con i lavoratori e l’incapacità delle loro rispettive controparti di trovare soluzioni condivise. Non credo però sia una buona strategia attendere soluzioni da terzi o proposte che non arriveranno certo da sole….

Il poco auspicabile “pessimismo della ragione”.

La foto proposta ieri sul Corriere si commenta da sola. Una delegazione “monstre” nel solco della tradizione militante dei metalmeccanici seduta e in attesa di un improbabile epilogo. Il rito è in pieno svolgimento. La vera novità è che, purtroppo, ci sono tre piattaforme (due sindacali e una datoriale) sul tavolo. E questo non fa presagire nulla di buono sulle modalità, sui tempi di quel negoziato e sulla possibilità che si concluda unitariamente. E questo mentre gli alimentaristi sono al palo e numerosi contratti bloccati. Le reazioni alla piattaforma di Cgil, Cisl e UIL sono state, tutto sommato, comprensibili. La proposta unitaria è probabilmente destinata a non fare molta strada così com’è. Definendola “di vecchia impostazione” o “irricevibile” sia Confcommercio che Confindustria hanno segnalato una disponibilità al confronto ma una indisponibilità di merito che complica ulteriormente il quadro di riferimento. Sull’altro versante, il Governo, sembra solo voler “scaldare i muscoli” a bordo campo minacciando di entrare in gioco. Evitare l’intervento del Governo sembrerebbe essere l’unico punto su cui le parti sociali convergono, almeno per ora. E tutto questo sembrerebbe comporre un quadro non esaltante e destinato addirittura a rendere improduttivo il confronto, quindi sostanzialmente inutile. La stessa pretesa del sindacato confederale di proporre un modello di difficile accettazione dal mondo delle imprese sembrerebbe confermarne il destino. È questa dunque la fotografia della situazione? Il pessimismo della ragione spinge molti a queste valutazioni. Sembra che nessuno senta, in realtà, il bisogno di costruire un nuovo sistema di relazioni industriali. E chi lo sente, non è in grado di imporre il passo necessario per realizzare quella parte di contenuti innovativi che, in parte,  sono comunque presenti nella piattaforma sindacale. Senza una intesa, però, non si va da nessuna parte. Questo deve essere chiaro a tutti. Personalmente non immagino un accordo confederale dettagliato che valga per tutti. Penso, però, che un accordo quadro condiviso tra la parti sociali, sulla qualità della direzione di marcia, sia utile per il Paese. Lasciare le cose come stanno, cioè ai semplici rapporti di forza espressi dai rispettivi soggetti sociali in campo o alla buona volontà dei singoli, è un errore. Così come lo è stato in questi decenni. Questa impostazione ha lasciato interi settori scoperti e privi di diritti e di regole, ha consentito soprusi, ha favorito situazioni di dumping tra imprese, ha creato vincoli esagerati e situazioni dannose per molte imprese. I sistemi di “relazioni industriali”, costruiti intorno alla contrattazione, non hanno mai compreso fino in fondo la necessità e la difficoltà  che comporta gestire “persone” in un contesto che cambia. Non ne hanno mai assecondato le aspirazioni, le attitudini, i desideri. Hanno pensato sufficiente circoscrivere il perimetro di riferimento tra “diritti e doveri”. Nel taylorismo o con il lavoro vincolato di massa questo poteva avere un senso. Oggi non più. In questo modo si è faticato a comprendere e a seguire l’evoluzione delle politiche di gestione e sviluppo delle risorse umane delle imprese restando spesso ancorati ad una cultura della difesa di interessi esclusivamente economici e normativi che, una volta neutralizzati, hanno, di fatto, marginalizzato il sindacato nella stragrande maggioranza delle aziende grandi e piccole. Lo hanno reso estraneo e incomprensibile, non solo ai giovani ma anche a tutti coloro che nel lavoro, nella crescita professionale e nella condivisione delle strategie del management della propria impresa ci hanno investito e si sono impegnati. Ma hanno marginalizzato anche chi di relazioni industriali si occupa nelle imprese e per le imprese, costretti a muoversi tra “diritti acquisiti”, norme e ricorsi alla magistratura in perfetta estraneità e lontananza dalle nuove culture aziendali. Quello che abbiamo di fronte è un contesto interconnesso e molto più complicato rispetto al passato che inserisce le singole aziende in filiere globali. Solo una rinnovata collaborazione tra imprenditori, manager e lavoratori può consentire di costruire un nuovo sistema di relazioni moderno, efficace e di reciproco interesse. E questo interesse lega la qualità, la quantità del lavoro, il suo riconoscimento, lo scambio realizzabile in termini di condivisione di rischi e di opportunità, crescita personale, welfare e integrazione della singola impresa nel territorio che la ospita. Alle organizzazioni di rappresentanza la scelta di assecondare questa evoluzione o di rallentarla. Che lo si voglia o no, nessuno la potrà impedire. Di Vico ha ragione quando sostiene che: “…non è la rappresentanza in sé ad essere freno al cambiamento ma la sua burocratizzazione, il prevalere degli interessi dei suoi dirigenti sulle rispettive basi sociali”. Da qui il mio “ottimismo della volontà” perché il futuro dei corpi intermedi si gioca proprio su questo.

La contrattazione tra passato e futuro.

La contrattazione aziendale, è bene tenerlo presente, coinvolge una parte assolutamente minoritaria delle aziende italiane. Da oltre vent’anni, dove si realizza, è spesso “concessiva” da parte sindacale per le crisi grandi o piccole che si sono succedute nelle singole imprese o, addirittura, “restitutiva” nel senso che alcune cosiddette “conquiste” ottenute in momenti di forza dai sindacati sono state via via cancellate, congelate o limitate ai soli lavoratori più anziani. Quando comprende elementi economici legati ad obiettivi aziendali questi sono, nella quasi totalità dei casi, decisi dalle imprese. Nei casi concreti dove si può parlare di vera e propria “contrattazione” abbiamo, o una tradizione negoziale positiva in particolari imprese, o una situazione sindacale dove i rapporti di forza in campo sono ancora un elemento in grado di influire sul contesto. A fronte di questa realtà, mi sono domandato perché molti, e da versanti opposti, invocano il ritorno alla contrattazione aziendale come la “soluzione” senza porsi il problema di una necessaria evoluzione condivisa del contesto sociale e sindacale del nostro Paese. Il modello oggi in crisi, ha sempre fatto perno su un sistema “circolare” di natura sostanzialmente conflittuale. Il contratto nazionale di categoria ne ha costituito, per anni, l’elemento portante. La contrattazione aziendale integrava specificità e salario e innovava materie che poi avrebbero costituito elementi di proposta da estendere a tutti nella successiva contrattazione nazionale. Le crisi che si sono via via succedute hanno inevitabilmente modificato i rapporti di forza consentendo alle imprese, prima di depotenziare questo meccanismo, poi di volgerlo a proprio favore e, infine, di neutralizzarlo definitivamente. Nella proposta sindacale c’è un tentativo legittimo, ma di difficile accettazione, di ritorno a formule che, di fatto, sommano benefici tra i diversi livelli. E questo costituirà inevitabilmente un primo elemento di scontro. Perché va bene l’apprezzamento per lo sforzo unitario che sicuramente connota la proposta ma occorre considerare anche che, il conto di questo sforzo, non può essere semplicemente scaricato sulle imprese prima a livello nazionale e poi in azienda. Da questo punto di vista il negoziato sarà più importante, come sempre, delle intenzioni o dei desideri contenuti nella piattaforma. Così come lo scenario che un accordo vero su un tema così delicato può aprire in termini evolutivi del sistema. Alcuni osservatori sottolineano che è stata solo la forte preoccupazione di un intervento a gamba tesa del Governo a spingere i sindacati all’unità. Personalmente non ci credo. I segnali della necessità una ripresa del percorso unitario c’erano tutti. L’amico Massagli, un po’ malignamente, la definisce, però, una unità costruita “contro” e non “per”. Io penso, al contrario che, la ripresa del confronto, fosse comunque inevitabile. Così come la sua forte caratterizzazione difensiva e, in parte, tradizionale. Soprattutto dopo la “sortita” di Federmeccanica e la mancata chiusura di molti contratti nazionali. I risultati delle divisioni identitarie di questi anni sono sotto gli occhi di tutti e nessuna organizzazione, in termini complessivi ci ha guadagnato nulla. La ragione è che nessuno dei tre sindacati confederali è riuscito a proporre una strategia in grado di produrre benefici misurabili oltre i propri confini tradizionali. Il vecchio schema sindacale:”obiettivo-lotta-risultato” non funziona più e quindi il punto vero non è rappresentato da una piattaforma unitaria “contro” o “per” ma nella definizione di una strategia di lungo periodo. E questo comporta tempo che, sia chiaro, è una risorsa scarsa.
Se la riforma della contrattazione sarà, o meno, un primo snodo verso la costruzione di relazioni industriali innovative, collaborative e propositive allora il confronto avrà comunque avuto un senso importante. Se nessuno si fida di nessuno è difficile immaginare un sistema con oltre quattro milioni di imprese che, improvvisamente, si converte ad un “nuovo” modello a cui sono state storicamente estranee (o spesso contrarie) limitandosi a riconoscere quanto definito dal proprio CCNL di riferimento. Nelle imprese italiane vige un paradosso. Nelle piccole aziende (che sono la stragrande maggioranza) l’imprenditore generalmente non vuole avere a che fare con i sindacati preferendo un rapporto diretto con i suoi collaboratori. Semmai per la gestione di alcune problematiche tende ad affidarsi agli strumenti messi a disposizione dalla bilateralità. Nelle grandi imprese industriali i sindacalisti sono, al contrario, spesso presenti e coinvolti nelle strategie aziendali come o più degli stessi lavoratori dipendenti. Quindi esiste un problema di fondo che non è facilmente superabile. Nessuno, Governo compreso, può imporre nulla a nessuno. Il sistema attuale ha retto per oltre cinquant’anni perché i ruoli sono sempre stati chiari e condivisi sostanzialmente da tutti. Sfasciarlo è pericoloso perché aprirebbe ad una situazione di dumping tra imprese difficilmente governabile in un Paese come il nostro. Il mondo però è cambiato. La competizione, la tecnologia e la globalizzazione impongono a ciascun Paese organizzazioni e sistemi più coesi, moderni e aperti dove ciascuna parte in causa condivida rischi e opportunità. La partita sulla contrattazione è lo strumento ideale per cominciare a ridisegnare il sistema delle relazioni industriali dei prossimi anni. Per questo avere sul tavolo una proposta unitaria (condivisibile o meno) del sindacato è comunque importante. Certo non è risolutivo perché i problemi da affrontare restano ancora molti. Ma i negoziati servono proprio a questo. Ma questo, credo sia chiaro a tutti.

Ma è davvero solo colpa dei sindacati?

sindacati

È abbastanza ovvio ma anche singolare che la pubblicazione della proposta unitaria di Cgil, Cisl e Uil di riforma della contrattazione abbia suscitato reazioni essenzialmente negative. Pochi hanno colto la volontà di chiudere un’epoca di divisioni e l’intenzione comune di avviare una nuova stagione. È come se fossimo in presenza di un forte pregiudizio a prescindere su tutto ciò che proviene da quel mondo. Il paradosso è che molti tra coloro che chiedono, a parole, al sindacato di cambiare lo hanno già riposto in soffitta tra i ricordi del ‘900 e quindi non sono disposti a rimettere in discussione le proprie consolidate convinzioni. Io penso sia un errore grave perché il sindacato, pur ancora diviso, in crisi di strategia e di credibilità, provato da molte battaglie è in campo con i suoi milioni di iscritti, il suo radicamento nel mondo del lavoro e i suoi legami nei territori. Considerarlo sconfitto o marginale nella costruzione del futuro del nostro Paese in nome della disintermediazione non porterà a nulla di buono. Un altro aspetto curioso è che la stessa severità utilizzata da molti per giudicare la proposta sindacale non esiste sul fronte opposto. Non c’è alcuna proposta datoriale unitaria. Confcommercio ha la sua strategia confermata nella recente firma del CCNL del terziario che fa perno su flessibilità, derogabilità del CCNL a livello locale, rafforzamento della bilateralità e del welfare contrattuale. Non a caso il tanto citato accordo di Treviso ne è una dimostrazione evidente. Nello stesso settore Federdistribuzione si accontenterebbe, al contrario, di una semplice, quanto improbabile, “resa” dei sindacati. Nell’industria Federmeccanica ha una proposta compiuta, pur di difficile attuazione ma Federchimica ha un’altra impostazione vista la recente firma del CCNL di comparto. Potrei continuare con molti altri esempi. Confindustria sta per sedersi ad un tavolo dove, nella migliore delle ipotesi, si limiterà a mettere in discussione la proposta di Cgil,Cisl e UIL sperando che la minaccia di un possibile intervento governativo costringa a miti consigli i negoziatori sindacali. Direi un modo curioso di aprire una fase nuova. Ma questo è probabilmente dato dal fatto che tutti vorrebbero cambiare un sistema che ci ha accompagnato per oltre 50 anni ma nessuno vuole prendersi la responsabilità di indicare la vera direzione di marcia. Se il Paese ha bisogno di condivisione e coinvolgimento si sceglie una strada altrimenti se ne sceglie una opposta. Oggi tutto questo non c’è ancora. Di Vico ha ragione: non è più tempo di riti e liturgie. Occorre muoversi. Per le parti sociali è fondamentale il riconoscimento e il rispetto reciproco. Se qualcuno, nei sindacati o nelle organizzazioni datoriali, pensa che una parte possa decidere nell’interesse di tutti, sbaglia perché è interesse di tutti crescere, confrontarsi e trovare nuovi equilibri positivi. Le sfide che abbiamo di fronte si vincono con un sistema di relazioni industriali moderne ma soprattutto condivise. Questo è il compito che hanno di fronte i negoziatori. I giudizi lasciamoli alla fine.

Per un “capitalismo dei partecipanti”

Severino Salvemini sul Corriere ha rilanciato un dibattito importante. Il suo assunto di partenza è chiarissimo:” ..bisogna dare vita ad una nuova dinamica di governo aziendale dove i diversi portatori di interesse possano far sentire di più la propria voce”. E così il tema che fa riferimento alla partecipazione o, in altri termini, alla collaborazione, al coinvolgimento dei collaboratori, ritorna in primo piano. Il “campo da gioco” è l’impresa di domani. Il clima interno, i processi di condivisione del rischio e delle opportunità dell’impresa, i soggetti da coinvolgere, le modalità e i limiti del coinvolgimento segneranno la qualità del lavoro e del nuovo ruolo che le rappresentanze sindacali potranno avere dentro e fuori le aziende. Per questo occorre saper guardare avanti. Oggi più che mai. La proposta di Cgil, Cisl e Uil, la stessa proposta di Federmeccanica, pur muovendo da presupposti ben diversi, secondo me, potrebbero convergere in quella direzione. E questo sarebbe indubbiamente il vero fatto “nuovo”. Anche un’eventuale legge sulla rappresentanza dovrebbe puntare a favorire questa direzione di marcia. C’è un grande bisogno di condivisione nel nostro Paese. L’esperienza della crisi, che sembra non finire mai, ha fatto implodere i sistemi di relazione ereditati dal passato: in un capitalismo iper-frazionato come il nostro, tutto si è sfilacciato anche attraverso il (poco responsabile) gioco del cerino.
Se ciascuno cerca di passare agli altri il cerino acceso che ha in mano, sperando che a scottarsi siano loro, è facile capire come le relazioni tra committenti e fornitori, banche e imprese, lavoratori e imprenditori, territori e sistemi produttivi in essi insediati si siano logorate e non reggano ormai più alla pressione degli eventi.
Molti anelli della catena produttiva stanno saltando o sono sempre più paralizzati e privi di capacità di risposta. E questo mette in seria di difficoltà anche le strutture della rappresentanza in generale, a cui oggi si pone una opportunità fondamentale quella di contribuire ad arrestare la disgregazione delle filiere produttive, delle relazioni sociali e dei sistemi territoriali, usando la loro capacità di generare senso e legami per invertire l’andamento delle cose, proponendo una logica di collaborazione tra le parti, sia nell’affrontare la crisi giorno per giorno, ma anche nel costruire un futuro comune che possa riattivare il meccanismo dello sviluppo, oggi gravemente inceppato.
Inoltre, occorre considerare che gli strumenti da mettere in campo per affrontare la pressione competitiva dei mercati sono anche altri, e riguardano le parti sociali direttamente coinvolte: bisogna condividere i rischi, le perdite ma anche le opportunità, trovando un criterio ragionevole per ridimensionare certe attività distribuendo i sacrifici tra le molte parti co-interessate alla sopravvivenza di una certa impresa o di una certa fascia di attività.
E’ un processo difficile, in cui la contrattazione sociale può forse fornire la cornice normativa e logica: ma tocca alle singole persone, alle singole imprese, alle singole banche, ai singoli territori dire in che modo possono contribuire alla sopravvivenza ed eventualmente – in prospettiva – al rilancio di attività che non vogliono vedere chiudere o fuggire altrove. La contrattazione aziendale ha già in molti casi trovato formule ragionevoli di distribuzione dei sacrifici che le parti in causa sono disposte ad assumere, in uno spirito di collaborazione mutualistica, di reciprocità, in vista di un interesse comune per la sopravvivenza. Bisogna fare tesoro di queste esperienze anche se il loro contenuto è spesso una rinuncia, una riduzione delle aspettative e delle pretese contrattuali, un’accettazione di sacrifici che aiutano il sistema di cui si fa parte a non soccombere, di fronte alle gravi difficoltà. Ma certo, tutto questo non basta. La collaborazione solidale (redistribuzione politica e contrattuale del reddito, in nome dell’equità) e quella mutualistica (modificazione delle condizioni di lavoro e di reddito di ciascuno, in nome di un interesse comune alla sopravvivenza del sistema produttivo) servono solo ad evitare danni più gravi.
Questo nuovo modello di collaborazione necessaria da costruire insieme nasce dal fatto che, per mantenere i nostri livelli di occupazione e di reddito nel lungo termine, dobbiamo trovare il modo di aumentare di molto il valore co-prodotto dalle nostre imprese e dalle nostre filiere, in modo da compensare gli svantaggi di costo di cui soffriamo nei confronti dei concorrenti emergenti, e delle multinazionali che li utilizzano come parti delle loro filiere globali.
Questo aumento della produttività (valore prodotto per ora lavorata e per euro investito) richiede interventi correttivi importanti, rispetto alle tendenze spontanee del sistema produttivo esistente e dei modelli di business che esso ha espresso sin qui.
È necessario quindi sviluppare una vera collaborazione tra chi sviluppa progetti, investe risorse, assume rischi in vista di un traguardo comune, che riguarda – prima del singolo imprenditore-innovatore – l’impresa (con i suoi stakeholders, prima di tutto i suoi lavoratori), la filiera (con i suoi fornitori, committenti, distributori e consumatori), il territorio (con le istituzioni locali), l’economia della società nel suo insieme (espressa dalle differenti parti sociali). Ed è in questo contesto che l’accordo tra le parti sociali diventa un tassello auspicabile e fondamentale.

Un negoziato difficile ma non impossibile

Le carte sono finalmente sul tavolo. Il negoziato sul nuovo modello contrattuale parte in salita, come è ovvio, ma può iniziare. Ai commentatori, in questi giorni, non resta che riportare la naturale esibizione muscolare dei contendenti. Qualsiasi negoziato comincia così. Entrambe le parti in causa ribadiscono le proprie posizioni di partenza. Sarebbe persino ridicolo il contrario. La predisposizione delle cosiddette “piattaforme” rende necessario un grande lavorio di mediazione. Non solo per quelle sindacali. In questo caso, tra l’altro, non c’è nemmeno sul tavolo una proposta precisa di Confindustria. I chimici hanno firmato il loro contratto nazionale e gli alimentaristi stanno trattando su quelle basi. E non credo si offenda nessuno che quei rinnovi vengano considerati nel solco della tradizione con qualche modesta innovazione qualitativa. Federmeccanica, sulla spinta di FCA e delle esigenze di rinnovamento di un settore dominato dalla conservazione in tema di relazioni sindacali, ha sparigliato le carte con una sua proposta. Quindi non c’è una visione comune nelle categorie industriali sul versante imprenditoriale. Non c’è nemmeno una posizione comune tra Confindustria e gli altri settori che vantano, a buon diritto, la loro autonomia sul tema. Il Governo osserverà, da una giusta distanza, l’evolversi del negoziato. Ed è meglio così. Nessuno vuole lasciare le cose come sono oggi. E questo è già un ottimo punto di partenza. I confederali hanno faticato a trovare un punto di incontro condiviso e quindi è impensabile che lo abbandonino prima ancora di aprire il negoziato. Quindi dobbiamo aspettarci un periodo abbastanza lungo fatto di scambi di accuse, di trincee scavate, da una parte e dall’altra e prese di posizioni ufficiali sui media con conseguente banalizzazione degli argomenti altrui. Qualche politico ha già cominciato definendo “ferro vecchio” la proposta sindacale ed esaltando la proposta di Federmeccanica. Credo che, nelle prossime ore, ci dovremo aspettare analoghi comportamenti da qualche esperto di provocazioni della sinistra politica e sindacale. Niente di nuovo. Anche questo fa parte dei riti e delle liturgie dei negoziati importanti. In entrambi i campi ci sono però esperti negoziatori che sanno dare un giusto peso a queste sortite. Le posizioni sono distanti ma non incolmabili. C’è un tema legato alla quantità di risorse da mettere sul tavolo, con quali tempi e come ripartirle se i tavoli dovessero aumentare. Un altro legato alle modalità di erogazione da utilizzare per consentire al lavoratore di guadagnare il massimo possibile e all’azienda di spendere il minimo possibile. Il tutto condito da forme di partecipazione, più o meno convinta e convincente e di sostegno al welfare aziendale. Il rischio che la montagna partorisca il classico topolino è molto alto. Il 2016 è un anno a “difficoltà progressive” per il Governo. Aprire un altro fronte con la sinistra politica e sociale non serve a nessuno, soprattutto al premier. Quindi fare un accordo serve a tutti. Al sindacato che potrebbe uscire dall’angolo nel quale è finito dove i contratti nazionali o aziendali rischiano di non rinnovarsi mai. Alle imprese perché avere certezze sui costi e una migliore gestione del clima interno possono accompagnare meglio la ripresa. E, infine al Governo, che non si troverebbe a dover pagare il conto come è avvenuto molte volte in passato. Tutto bene, quindi? No. Siamo solo al via. Purtroppo nel nostro Paese non sempre ciò che sarebbe giusto e utile si realizza facilmente. Occorre pazienza e impegno. E questo non credo manchi ai negoziatori.

La proposta unitaria sulla contrattazione: un passo avanti.

Misurare la distanza tra la proposta sulla contrattazione di Cgil-Cisl-Uil che verrà ufficialmente presentata giovedì  e quella di Federmeccanica serve a poco così come pensare che, in un Paese dove la contrattazione aziendale è un fenomeno assolutamente marginale, il Sindacato potesse abbandonare con eccessiva superficialità le sponde sicure dei contratti nazionali o di vecchi o nuovi automatismi più o meno efficaci. Tre elementi importanti di sfondo caratterizzano la proposta e, per questo, sarebbe utile, oggi, concentrarsi su di essi. Il primo. Un documento unitario sulla stessa ragion d’essere di un sindacato, la contrattazione, non è cosa da poco. Chiude, di fatto, una parentesi durata più di un ventennio. La stagione degli accordi separati, dei contratti non firmati da questa o quella sigla di categoria non hanno pagato. Ed oggi questo è chiaro a tutti. Le divisioni hanno contribuito a indebolire la capacità di iniziativa di tutto il sindacato confederale. E che la CGIL scelga decisamente la strada di un accordo con CISL e UIL in aperto contrasto con la FIOM dimostra la forza e la credibilità nelle sue articolazioni sul territorio e nelle categorie dell’attuale gruppo dirigente confederale. In secondo luogo la conferma decisa sul tema della partecipazione dei lavoratori allo sviluppo delle imprese attraverso un sistema duale. Una sorta di modello partecipativo tedesco adattato alla specificità italiana. In terzo luogo l’esigibilità erga omnes dei contratti nazionali. Il resto è materia di un negoziato che si annuncia complesso, lungo e difficile ma quello che importa è la direzione di marcia. Federmeccanica ha, dal canto suo, presentato una ipotesi stimolante. Difficilmente digeribile dal sindacato dei metalmeccanici ma, non per questo, etichettabile in modo tradizionale o liquidabile con qualche slogan. La cautela nelle dichiarazioni ufficiali espresse fino ad oggi ne rappresenta la conferma. Le carte sono sul tavolo. Le posizioni sono molto distanti ma non inconciliabili. Adesso tocca ai negoziatori. Confindustria dovrà decidere se questa partita sarà chiusa dall’attuale presidenza o dalla prossima. Lo stesso varrà per i sindacati che, su questa impostazione, si giocano i prossimi congressi. Ma non c’è solo Confindustria in campo. Confcommercio resta firmataria del più importante contratto nazionale e altri comparti sono interessati a dire la loro senza subire vecchie egemonie che non hanno più ragioni di esistere. Finalmente si apre una fase nuova per le relazioni sindacali del nostro Paese e soprattutto si chiude quella che ci ha accompagnato dagli anni ’60 del secolo scorso. Era ora che quel modello andasse in pensione. Speriamo sia la volta buona.

Buon Anno!

Ogni anno nuovo è importante. Il 2016 lo è ancora di più perché si capirà se la ripresa c’è ma soprattutto quanti ne potranno concretamente beneficiare. Pur sapendo benissimo che nulla sarà come prima coltiviamo tutti la speranza che, almeno ciascuno di noi, sul piano individuale, possa “tirare il fiato” e togliersi di dosso, almeno in parte, quella preoccupazione per il futuro, per sé e per i propri figli. Forse ha ragione Checco Zalone. L’Italia nella quale siamo nati e cresciuti, un po’, ci manca. Da un lato c’è indubbiamente chi vorrebbe uscirne in fretta ma, dall’altro, si fa strada il rimpianto, giusto o sbagliato, che allora c’era posto per quasi tutti mentre, nel mondo che ci aspetta, non sarà certamente così. O meglio che sarà molto più difficile raggiungere i propri obiettivi e riuscire a mantenerli nel tempo. Sappiamo tutti che non si possono paragonare situazioni avvenute in ere geologiche differenti. In mezzo ci sono l’euro, il muro di Berlino e la globalizzazione. La crisi economica, le guerre e le migrazioni hanno fatto il resto rendendo inadeguati tutti i nostri strumenti di previsione e di riflessione. La Politica, dal canto suo, è deflagrata perdendo autorevolezza e favorendo il ritorno in superficie di malesseri sociali, egoismi individuali, contraddizioni tra territori, categorie, generazioni e ceti sociali che rendono sempre più difficile il compito di ricomposizione che spetterebbe proprio a chi governa la cosa pubblica. Le elites culturali o non dicono più nulla di interessante sul piano sociale, o la buttano quasi sempre in politica. Spesso parlano sottovoce lasciando il campo agli urlatori di professione. La stessa idea di disintermediazione porta inevitabilmente acqua al mulino del “fai da te” economico e sociale che, in un Paese, forte del suo tessuto di piccole e piccolissime imprese, è l’esatto contrario di quello che servirebbe. Il problema non è costruire una nuova immagine del nostro Paese nel mondo. Quella non cambierà tanto presto. Più che preoccuparci di come ci vedono altrove dobbiamo pensare a come ci dobbiamo vedere tra di noi. Ricostruire un senso civico, superare la continua litigiosità politica su problemi dove la concordia nazionale dovrebbe essere scontata, mettere da parte modesti interessi di categoria o di ceto e darsi da fare per rimettere in piedi una comunità nazionale che condivide valori, il cammino da compiere e i sacrifici per realizzarli. Abbiamo un grande Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha dedicato la propria vita a questi valori e alla loro concreta realizzazione. Bene, ascoltiamolo questa sera, nel suo primo discorso di fine anno, cogliamo l’essenza del suo pensiero e cerchiamo di trasformare il 2016 in un anno veramente nuovo e innovativo. Innovativo per la qualità dei rapporti tra noi cittadini e lo Stato, innovativo per le relazioni tra le categorie economiche, le organizzazioni di rappresentanza, le generazioni e le singole persone. Solo così faremo, insieme, qualcosa di diverso e di utile per i nostri figli. E infine, Buon Anno a tutti i 6811 visitatori del mio blog che dal 15 giugno 2015 hanno deciso di dedicare parte del loro tempo alle riflessioni che propongo!
Mario Sassi