Alitalia e dintorni, il fascino indesiderato del NO

C’è una grande differenza tra condividere un progetto, un’idea, una decisione o respingerla. Nel primo caso ci si assume in prima persona la responsabilità delle conseguenze. Nel secondo caso, no.

Bocciare una proposta consente di unificare tutti gli stati d’animo negativi. Di qualunque tipo. Da corpo ad ogni sorta di alibi. Produce la sensazione apparente che tutto possa restare come sempre anche se non sarà comunque così.

La logica NIMBY(acronimo inglese per Not In My Back Yard, letteralmente “Non nel mio cortile”) nasce così. Il NO, privo di proposta alternativa praticabile si limita a scaricare su altri gli effetti. Sui vicini, sui colleghi, sui cittadini, sui contribuenti, sulle successive generazioni.

Il NO ha un suo fascino. Mostra, a chi preferisce stare alla finestra, la voglia di resistere, la volontà di non piegarsi al più forte, la volontà di tutelare il “qui e ora”. Chi pronuncia o sostiene il NO passa, quasi sempre, per essere un paladino del più debole.

Gli anchormen e i media in generale privilegiano chi dice NO. Chi dice SI è, al contrario, banale, scontato, subalterno. Ne sanno qualcosa i sindacalisti che difendono i compromessi possibili con gli accordi aziendali, cosiddetti difensivi, che però salvano migliaia di posti di lavoro.

C’è sempre chi pensa di spostare l’asticella in su. O chi invita a votare NO ad un referendum. Nel film “La classe operaia va in Paradiso” del 1971 il grande Gian Maria Volontè interpreta magistralmente l’operaio che si fa coinvolgere dal giovane studente estremista e perde il posto di lavoro restando solo con i suoi problemi.

All’Alitalia i campioni del “abbiamo già dato” in questi giorni sfilano come prime donne sui giornali. Personaggi come Riccardo Canestrari dell’ANPAC o Francesco Staccioli di USB presentano con nonchalance il conto che dovranno pagare i contribuenti italiani per dare senso e sostanza ad un grave quanto inutile NO. Non accennano minimamente alle conseguenze di medio e lungo termine per i lavoratori di Alitalia. Né a ciò che pagheranno i contribuenti. Non è affar loro.

I sindacati confederali si sono incastrati (o fatti incastrare) in un meccanismo che non c’entra nulla con la democrazia. È una finzione di democrazia scaricare un decisione senza alternative.

Per chi straparla, dopo, di mancanza di rappresentatività dei confederali ricordo che Pierre Carniti raccontava spesso che Napoleone sosteneva che “tutto puoi chiedere ai tuoi soldati tranne che sedersi sulla punta delle baionette”.

Hanno affrontato un negoziato in una situazione di grave emergenza, in una categoria corporativa e aziendalista di vecchio stampo senza nemmeno riuscire a costruire un rapporto vero con i rispettivi iscritti (che sono la maggioranza) limitandosi a sottoscrivere, con grande senso di responsabilità, un’ipotesi di accordo con un azionista poco credibile, un management raffazzonato, i creditori alle porte e con un Governo in evidenti difficoltà a sostenere il negoziato tra vicoli europei e risorse oggettivamente scarse. Sparare contro di loro è come sparare sulla Croce Rossa. Hanno fatto l’impossibile e di questo gliene va dato atto.

Adesso vedremo se sapranno tenere il punto o cercheranno di accodarsi alla logica del “penultimatum” tanto in voga nei settori parapubblici o ritenuti ancora tali dove la Politica mette, a proposito, ma anche a sproposito, troppo spesso il becco.

In altre situazioni i “benaltristi” e i cosiddetti “finestraioli” sono rimasti a bocca asciutta. Alla FIAT, senza la FIM e la UILM, Pomigliano forse avrebbe seguito la sorte di Termini Imerese. Oggi è facile scriverlo.

Allora, media e intellettuali pronosticavano la fine di Marchionne e della FIAT, discettando sulla subalternità dei due sindacati estromessi manu militari dai salotti televisivi e dalla possibilità di informare correttamente. Il NO faceva audience, come oggi. Non però tra gli operai napoletani, soprattutto tra quelli che, dalla CIGS, speravano di rientrare in azienda. Incredibile.

Su questo punto ci viene in soccorso, la trasmissione otto e mezzo, dove Marco Bentivogli della FIM ha affrontato con la forza di chi ha dovuto dimostrare di aver ragione, un titolato rappresentante del NO a tutti i costi: Giorgio Cremaschi.

Non poteva che finire 4-0. Il fascino del NO e del benaltrismo a tutti i costi si è schiantato davanti alla cruda realtà che irrita gli amici del NO a tutti i costi. Alitalia rappresenta, ed è qui la sua vera pericolosità, una sorta di vaso di Pandora.

Da una parte l’aggressività dei populisti vecchi e nuovi che non hanno niente da perdere perché all’opposizione. Dall’altra l’arte difficile di governare tra un passato di un’azienda tutto da dimenticare e un futuro da costruire giorno per giorno.

In mezzo un vulcano che rischia di esplodere e di incendiare così l’intera prateria. Per questo va tenuto con forza il punto. Se l’accordo non ha alternative si proceda senza tentennamenti nominando un commissario all’altezza del compito.

Pensare di risolvere un problema di questa gravità con possibili ripercussioni sociali imprevedibili fidandosi della buona volontà dei diretti interessati, ormai disorientati e rabbiosi con tutti, è stato un errore. Non ne va commesso un altro ancora più grave. Accettare la logica insita nel risultato di quel voto e cioè che un NO basta e avanza e che, adesso, il problema è dell’azienda e del Governo.

Il problema è, al contrario, di tutti noi.

Alitalia, un referendum inopportuno ha prodotto un risultato inacettabile

Purtroppo quello che si temeva è avvenuto. I lavoratori di Alitalia, chiamati a pronunciarsi sull’ipotesi di accordo siglata anche dai tre segretari generali confederali di CGIL, CISL e UIL l’hanno nettamente respinta.

Inutili gli appelli prima del voto, inutili i richiami a come evitare un destino altrimenti inevitabile. Adesso inizierà un dannoso quanto pericoloso scaricabarile sulle responsabilità.

Indubbiamente l’azienda era ed è poco credibile e il piano, per quello che è filtrato sui giornali, non conteneva nulla che facesse ipotizzare una svolta vera, visibile e comprensibile a tutti. Ma proprio per questo motivo la gravità della situazione era evidente.

Il sindacato confederale è stato costretto a mettere in campo tutta la sua credibilità assumendosi un rischio altissimo di fronte alla scarsa credibilità degli azionisti per come si sono mossi fino all’annuncio del piano ma anche dello stesso management in parte rinnovato frettolosamente.

Ho già scritto che è stato un azzardo tenere il referendum. Un accordo pesante sul piano individuale ma indispensabile su quello collettivo e per la stessa prospettiva dell’azienda non doveva essere sottoposto a referendum sul quale, e lo si sapeva, avrebbero pesato l’esperienza negativa del passato, la rabbia e il disorientamento dei lavoratori. Soprattutto in una realtà come Alitalia.

Occorreva scegliere un’altra strada. Magari prevedendo alla fine del percorso un’adesione individuale. Chi pensava che questo fosse un “penultimatum” e non un vero e proprio “prendere o lasciare” si dovrà assumere, adesso, le proprie responsabilità. Soprattutto chi ci ha speculato pesantemente.

Non è un caso che dove il sindacato è più forte e credibile (non necessariamente più numeroso) in termini di rapporto con i lavoratori, i contratti vengono rinnovati e i referendum indetti, anche se in una logica fortemente difensiva, esprimono sempre una volontà costruttiva da parte dei lavoratori. Metalmeccanici, Chimici e Alimentaristi, ad esempio, ne sono la prova evidente.

C’è una consapevolezza diversa rispetto a categorie dove la concorrenza tra sigle è scaduta al punto da trascinare tutti in un gorgo fatto di diffidenza, scavalcamenti e iniziative sindacali mediocri.

Oppure laddove il sindacato confederale ha dovuto condividere il rapporto con i lavoratori insieme ad altre sigle autonome o associazioni professionali spinte solo a tutelare i propri interessi e il proprio spazio di agibilità.

E non basta ritrovare una parvenza di unità in alcune occasioni, seppure particolarmente gravi. Il rapporto con i lavoratori, in questi casi o è scarso o, addirittura inesistente.

Adesso l’unica via praticabile sembra essere il commissariamento anche perché il piano DEVE comunque andare avanti. Probabilmente occorre far passare il tempo sufficiente affinché sia chiaro a tutti che non ci sarà né un nuovo accordo, né la nazionalizzazione dell’Alitalia.

Ci sarà una realtà che inevitabilmente può arrivare fino al fallimento e un’altra che forse potrà nascere alle condizioni previste dal mercato e dalle partnership finanziarie e strategiche che potranno essere individuate.

Purtroppo ricordo il cosiddetto piano Ravalico che prevedeva, alla fine degli anni ’70, 2800 licenziamenti all’Unidal (ex Motta e Alemagna) il cui respingimento portò, poco dopo, il numero di licenziati ad oltre quattromila. Per i sindacati si apre certamente una fase difficile ma senza alternative.

Devono recuperare un rapporto con i propri iscritti aprendo una vera e propria battaglia politica contro i fautori del disastro. E devono sostenere fino in fondo ciò che hanno firmato. Cosa assolutamente necessaria per la loro credibilità presente e futura. Cosa che deve fare anche l’azienda.

Preoccupa sentire personaggi come Francesco Staccioli dell’Usb dire: “Ma come si fa a pensare che una compagnia che trasporta 24 milioni di persone con 120 aerei possa essere messa in liquidazione?” Dovrebbero essere mandati avanti quelli come lui, e i sostenitori del NO,  adesso.

Al Governo spetta il mantenimento dei patti che hanno reso possibile l’accordo, pur se respinto. Il Paese deve essere messo di fronte alla irresponsabilità di chi ha speculato politicamente sulla pelle dei lavoratori e deve essere preparato alle possibili reazioni.

Il negoziato Alitalia è terminato. Adesso occorre lavorare, con chi ha sottoscritto l’intesa, per costruire la nuova Alitalia. D’altra parte la società è già costata agli italiani più di sette miliardi di euro in quarant’anni.

Tutto questo però pone, ancora una volta, il tema della titolarità e della rappresentatività di chi sottoscrive gli accordi, della esigibilità , della validazione degli accordi stessi e del superamento di vecchie liturgie che non funzionano in settori dove il supposto ruolo integrativo o sostitutivo dello Stato o la scarsa credibilità dell’azienda e dei sindacati di categoria hanno scavato un solco profondo di credibilità e di rappresentatività reale.

Alitalia tra referendum e accordi sottoscritti

In molte situazioni sono una prova di democrazia e partecipazione. Prevederli e codificarne l’iter formale è un atto doveroso. Soprattutto per supportare e validare gli strumenti negoziali tradizionali.

Le votazioni assembleari hanno fatto il loro tempo e quindi consolidare un potente strumento di partecipazione come il referendum è certamente una scelta decisiva.

Si trasforma, però, in un boomerang quando non consente una scelta vera e, soprattutto, quando gli esiti e gli effetti chiamano pesantemente in causa altri a cui nessuno ha chiesto nulla.

Aver affidato ai soli lavoratori dell’Alitalia la decisione di salvare o meno l’azienda nella quale lavorano sono stati, secondo me, un azzardo e un errore. Alitalia non è mai stata un’azienda normale.

E la sua specificità ha sempre comportato un conto da pagare per i cittadini italiani che non hanno mai avuto, sul tema, voce in capitolo nonostante ci si dimentichi spesso che “non esistono soldi pubblici, ma solo soldi dei contribuenti”.

A votare, però, sono stati chiamati solo i suoi dipendenti. Si è sempre fatto così, è vero. Però in un caso come questo resto convinto che non sia corretto. Innanzitutto perché, indipendentemente dall’esito del referendum, gli effetti di quella votazione verranno comunque pagati da tutti.

In altri termini è come se in una grande azienda, soggetta ad una crisi profonda, venissero chiamati a votare solo coloro che sono stati inseriti in una procedura di licenziamento collettivo e non l’insieme dei lavoratori. Oppure se, sulle banche venete o su MPS fossero stati chiamati solo i dipendenti a decidere. L’esito sarebbe scontato. Così come rischia di esserlo in questo referendum.

In secondo luogo perché non esistono alternative al piano. Governo, azionisti, banche e parti sociali si sono confrontati, hanno definito i contenuti e verificato che non esistono ulteriori margini. Inoltre il Presidente del Consiglio, i ministri incaricati e i massimi rappresentanti del sindacato confederale italiano hanno annunciato che non ci sono alternative né piani B a disposizione.

Perché quindi chiedere ai lavoratori coinvolti un giudizio assolutamente inutile? Soprattutto in mancanza di un poco scontato plebiscito a favore. E con il rischio di gravi strumentalizzazioni da parte di chi vuole far fallire comunque l’azienda o di chi vorrebbe prococatoriamete proporne il ritorno allo Stato.

Un rito, in questo caso, pericoloso, fuori dal tempo e quindi un errore grave. Un’altra cosa avrebbe potuto essere un confronto tra i sindacati e i rispettivi iscritti con lo scopo di spiegare i contenuti dell’intesa e la sua irrevocabilità.

Che fare in questi casi?

Credo che chi sottoscrive un’intesa senza alternative se ne dovrebbe assumere la totale responsabilità. Nei confronti del Paese e dei lavoratori. Il compromesso raggiunto al tavolo negoziale, pur “difensivo”, può presentare sicuramente luci e ombre ma anche la convinzione dei sottoscrittori che è il massimo possibile in condizioni date.

Al sindacato, alle associazioni datoriali, alla politica è chiesta, in questi casi, una assunzione di responsabilità profonda quando di mezzo ci sono il posto di lavoro, la vita delle persone, il loro reddito e la continuità di una attività economica importante. Non la semplice firma su di un pezzo di carta.

Il referendum ha senso quando in votazione va un atto preciso e dettagliato. Circoscritto al contesto. Sul voto non dovrebbero mai pesare una storia di insuccessi, purtroppo, infinita, un declino vissuto come inarrestabile, la credibilità di chi, senza mai rimetterci nulla né pagare alcunché, ha proposto piani industriali inconsistenti, ristrutturazioni continue e socialmente dolorose.

Ma neanche chi propone, come i sindacati autonomi, scorciatoie spericolate facendosi scudo della rabbia e del disorientamento dei lavoratori. Tra pochi giorni avremo l’esito di questa decisione azzardata e dovremo consapevolmente gestirne le conseguenze.

Speriamo che chi è stato chiamato ad assumersi le proprie responsabilità individuali con il voto lo faccia, almeno questa volta anche per tutti noi.

Qualcosa si muove intorno a noi…


C’è voglia di cambiamento nel Paese. E non solo nella politica. Ci sono persone chi interpretano questa voglia voltandosi indietro e chi, al contrario, cerca di trovare risposte, guardando in avanti.

La politica interpreta queste volontà agitandosi in entrambe le direzioni. Il mondo del lavoro e della rappresentanza, almeno fino al referendum istituzionale, ha tentato di tenere insieme quanto di buono veniva dal passato con un presente difficile cercando, però, per quanto è possibile, di interpretare il futuro.

D’altra parte la profondità della crisi e l’Europa presentata come matrigna hanno purtroppo rappresentato per molti solo un grande alibi. Il cambiamento necessario vissuto come una maledizione inevitabile. Quindi subìto.

Comprensibile nei singoli individui perché disorientati non in chi li dovrebbe rappresentare perché il futuro non si subisce né si immagina; si fa. E, purtroppo, lo si deve fare operando quotidianamente tra chi ipotizza cose mirabolanti ma lontane e forse improbabili e chi, incapace di uscire dal porto, ripropone costantemente l’illusione di un ritorno al passato. Ma le navi non sono costruite per essere tenute ancorate nei porti.

Purtroppo quello dei corpi intermedi è un mondo un po’ autoreferenziale dove tutti pensano di avere molte ragioni e dove i torti, semmai, sono sempre degli altri. Il recente intervento di Marco Bentivogli sul Foglio ha il merito di rompere gli schemi e di proporre uno scenario con il quale è necessario confrontarsi. Uno scenario in movimento per tutti.

Da un lato la CGIL e la sua carta dei diritti. Dall’altro i pentastellati che ripropongono la disintermediazione nel lavoro scegliendo come compagno di viaggio il rancoroso ex FIOM Cremaschi. Quest’ultimo, con i Grillini, sembra però avere un solo obiettivo in comune: delegittimare il sindacato confederale.

Tutte strade, queste, decisamente impraticabili. Sicuramente per il mondo delle imprese. Così come sarebbe un errore accettare come inevitabile il declino propositivo unitario delle organizzazioni di rappresentanza. Il rischio dell’irrilevanza dei corpi sociali si combatte entrando nel merito delle questioni poste. Anche da sindacalisti come Marco Bentivogli che segnalano l’avvicinarsi del punto di non ritorno. Non solo per il sindacato confederale.

Innanzitutto nel prefigurare un futuro possibile nel quale dobbiamo essere tutti consapevoli che la tradizionale divisione del lavoro tra terziario, industria e agricoltura sta mutando rapidamente.

I tradizionali confini settoriali stanno venendo meno. La conseguenza di questa nuova divisione del lavoro è che l’industria tenderà sempre di più a terziarizzarsi e il terziario tenderà inevitabilmente ad industrializzarsi cercando di realizzare economie di scala nella gestione dei servizi, dei dati e delle conoscenze.

Nelle filiere globali che stanno emergendo da questi nuovi modi di lavorare tutto ciò che può essere meccanizzato e codificabile verrà sempre più attratto inevitabilmente da luoghi dove i costi sono minori (lavoro, energia, tasse, vincoli amministrativi e ambientali) o al contrario dove esistono capacità e talenti di eccellenza in specifiche situazioni.

Quindi la capacità del sindacato di trovare nuovi livelli di mediazione può fare la differenza. La vicenda FCA lo dimostra inequivocabilmente. Le conseguenze che questa prospettiva può avere per l’attuale assetto anche della rappresentanza sia imprenditoriale che sindacale, ancorate tuttora a un modello che deriva dal secolo scorso è facilmente immaginabile.

Il compito della nuova rappresentanza, che voglia impegnarsi a gestire la transizione in corso, è dunque di aiutare le imprese e il lavoro, che si presenta sempre più anche in forme differenti e deregolamentate, a non esserne travolti presidiando alcune azioni chiave. Innanzitutto investendo sul capitale umano e sulle infrastrutture necessarie alla rivoluzione digitale/globale in corso.

Poi impegnandosi a promuovere le innovazioni collettive (politiche, contrattuali, sociali, infrastrutturali, normative, di welfare e di apprendimento/ricerca) che è necessario realizzare per sostenere i percorsi delle imprese e dei lavoratori nel difficile confronto con i nuovi competitors. E su questo, gli ultimi rinnovi contrattuali hanno cominciato a dire qualcosa di nuovo.

Infine occorre stimolare lo sviluppo di iniziative che favoriscano forme (chiamiamole pure come vogliamo) di collaborazione intraprendente, corresponsabilità, partecipazione, condivisione del rischio tra i tanti soggetti coinvolti dai percorsi di transizione a monte, all’interno e a valle dell’impresa.

Ultimo ma non di minore importanza occorrerà partecipare alla trasformazione in senso creativo ed efficiente dei contesti di vita e di lavoro che condizionano produttività e creatività delle imprese (smart cities, ambienti creativi, attrazione dei talenti, relazioni utili con la ricerca e le università, servizi innovativi di welfare ecc.).

Per fare tutto questo non occorre disintermediare alcunché. Occorre esattamente l’opposto. Occorre più rappresentanza, seppure diversa, non meno.

Marco Bentivogli ha fatto bene a lanciare un segnale forte a tutto il sindacato (e non solo alla sua parte) segnalando l’urgenza dei cambiamenti necessari e la loro direzione di marcia. Sarebbe importante che la sfida venisse raccolta da tutti.

Il trivio necessario…

Nessuno ha notato la concomitanza tra due eventi apparentemente opposti. L’8 aprile, al teatro Brancaccio di Roma l’attivo dei delegati della CGIL mentre, a Ivrea il movimento 5 stelle ha scelto lo stesso giorno in un luogo simbolico e la figura di Adriano Olivetti per lanciare Sum01 “Capire il futuro”.

Da una parte un pezzo comunque importante del Paese, rappresentato dalla CGIL, che cerca di ricostruire intorno ad un’idea, condivisibile o meno, di centralità dei diritti, dignità del lavoro e una diversa distribuzione del reddito il proprio futuro politico e sociale. Una parte che individua nella globalizzazione più i rischi che le opportunità.

Dall’altra un movimento eterogeneo che sa di poter vincere politicamente perché è riuscito ad intercettare sia la protesta che la voglia di cambiamento che sta crescendo nel Paese, soprattutto tra le nuove generazioni. Un movimento che ha, nel cuore della base e dei militanti, i tassisti ma ha Uber nella testa dei suoi ispiratori.

Non è un caso che il mov 5 stelle ha scelto Olivetti e la sua Ivrea. Immagine rassicurante di un imprenditore visionario lontano dagli stereotipi manageriali e imprenditoriali ” sempre bravi a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite” di cui il nostro Paese resta uno dei principali produttori.

C’ė, nei vertici del movimento, la certezza assoluta della vittoria e quindi la volontà di rassicurare il Paese che conta. Ma anche di spiegare alle sue diverse anime interne, invitate in platea, che non c’è spazio per i protagonismi movimentisti della prima ora. Un passaggio difficile. Soprattutto perché il movimento rischia la diaspora di una parte consistente dei militanti “duri e puri” proprio nell’ultimo miglio. La vicenda di Roma è lì a dimostrarlo.

Dall’altra parte la CGIL che vinta la partita dei voucher “a tavolino” sembra aver scambiato, purtroppo, un tramonto per un’alba e cerca di serrare le fila per nuove battaglie contando esclusivamente sulle proprie forze e su quella parte della sinistra esclusivamente impegnata in una rivincita contro Renzi e ciò che rappresenta.

Un dato che li accomuna è la convinzione di potercela fare da soli. Entrambi sicuri di attrarre verso di sé il resto del mondo di riferimento. I primi sul piano sociale, i secondi su quello politico. È il NO che, inevitabilmente, li unisce. Anche se è un NO di segno opposto. Il NO a tutto ciò che cambia il lavoro costruito dai baby boomers (che oggi governano il sindacato) e lo mantiene ancorato ad una tradizionale cultura fordista, per i primi. Il NO a tutto ciò che quelle generazioni hanno costruito nel bene e nel male, in Italia e in Europa, per i vertici dei secondi.

Si elideranno a vicenda? Probabilmente si. Il punto è stabilire chi ne pagherà le conseguenze. A mio parere manca ancora all’appello un terzo soggetto credibile. Sociale e politico.

Paolo Pirani, segretario generale UILTEC, con una battuta felice ha centrato il problema: “Più che un Partito della Nazione occorrerebbe un Patto per la Nazione”. Indubbiamente è l’ultima chance che ha a disposizione questo Paese prima del burrone. Chi non crede nella deriva movimentista o in quella tecnocratica digitale non può stare alla finestra. Non siamo di fronte ad un bivio ma ad un trivio.

È difficile pensare che un Paese come il nostro con differenze territoriali e culturali così profonde e con il nostro debito pubblico possa “salvarsi” mettendo le generazioni l’una contro l’altra o scegliendo strade diverse da tutto il resto d’Europa.

Nel sindacato, nei corpi intermedi più in generale e, probabilmente nel Paese c’è anche voglia d’altro. Lo stesso referendum del 4 dicembre lo ha dimostrato. Che lo si voglia ammettere o meno è da lì che occorre ripartire per ricostruire, insieme, un’altra idea di Paese. Più moderno, inclusivo, unito nei territori, nelle generazioni e nei suoi valori di fondo.

Signore, io sono Irish…

Un vecchio e indimenticato pezzo dei New Trolls negli anni 70 descriveva la domenica di uno schiavo nero che, dopo una durissima settimana impiegata a raccogliere il cotone, il giorno del riposo si trovava costretto a fare 60 miglia a piedi per andare e tornare dalla messa.

Allora la domenica aveva questo duplice scopo: riposare e dedicare a Dio, per i credenti, il settimo giorno. Riposare significava recuperare veramente le forze. E non metaforicamente. Da allora molte cose sono cambiate. Nel lavoro, nel vivere la propria religiosità e nel dare significato al termine “riposo”.

Per il lavoratore coinvolto in una particolare attività economica e per quello che, quel giorno, lo utilizza per trasformarsi anche in consumatore. Sul lavoro festivo, purtroppo, si va da un estremo all’altro.

L’outlet di Serravalle Scrivia, suo malgrado, rischia di trasformarsi in una sorta di linea di confine. Finirà come sempre. Da una parte la narrazione dei contrari al lavoro domenicale quasi esclusivamente sui media, dall’altra la realtà di migliaia di lavoratori/consumatori che, quel giorno, come in tutte le altre festività, affolleranno l’outlet per passare una giornata di festa magari con qualche acquisto.

Un outlet, un grande centro commerciale ma anche un supermercato dovrebbero essere aperti sempre. Soprattutto oggi dove i concorrenti sono del livello e dell’aggressività commerciale di Amazon o E Bay. Questi ultimi con negozi virtuali aperti tutto l’anno h 24 con saldi a getto continuo per tutto l’anno. Se non fossero frequentati anche nei giorni festivi non avrebbe alcun senso tenerli aperti. I costi di gestione sarebbero pesantissimi.

Domenica scorsa sono stato al “Centro” di Arese. C’erano decine di migliaia di persone. Famiglie, giovani, un po’ di tutto. Dal 1963 al 2005 c’era l’Alfa Romeo. Poi più niente. Sono cresciuto a due passi dal Portello a Milano. Anche lì fino al 1963 c’era l’Alfa Romeo. Poi il nulla. Il centro commerciale ha rivitalizzato il quartiere e trasformato un luogo degradato in un centro di incontri e di svago tutto l’anno.

A differenza di altre città Milano ha saputo interpretare bene il passaggio da città industriale a città del commercio e del terziario. Ha gestito con intelligenza le contraddizioni tra Grande e piccola Distribuzione. Ha assorbito gli inevitabili contrasti. Questo ha creato occupazione vera. Sopratutto per molti senza alcun titolo di studio, donne e giovanissimi anche provenienti da altri Paesi.

Occorrerebbe prendere atto che come la televisione si è trasformata negli anni in un antidoto alla solitudine per molti anziani questi centri sono diventati accoglienti, pieni di vita e luoghi frequentatissimi tutto l’anno. E non solo per fare acquisti. Negarlo o far finta di non vederlo è un errore.

O meglio è uno di quei residui di atteggiamento fine 900, un po’ snob, che comprende anche il giudizio sui Mc Donald’s, sulla Coca Cola, sul terziario in generale visto come ancillare rispetto ad un mondo che non esiste più. Personalmente poi, lo dico sommessamente,  provo un certo imbarazzo per tutti quei laici che si nascondono dietro il tema religioso esclusivamente per sollevare un inutile polverone..

Per centinaia di migliaia di persone lontane da questi dibattiti sono luoghi dove passare il tempo. Sarebbe ora di comprenderlo e guardare avanti. Anche perché il lavoro sarà sempre più terziario. Povero o ricco di contenuti che sia.

L’amico Giuseppe Sabella centra il problema quando invita a riflettere su di un punto: “Il lavoro futuro passa inevitabilmente per una nuova umanizzazione dei luoghi di lavoro. E, chiaramente, il lavoro festivo va pagato come tale.” Sono perfettamente d’accordo.

Per questo ci sono i contratti di lavoro che devono evolvere proprio perché il lavoro cambia. Aprire 360 giorni all’anno non significa lavorare tutto l’anno. Significa organizzare il lavoro e i riposi e retribuire il giusto. E il giusto lo si deve concordare  nei contratti di lavoro.

Ma il lavoro nel terziario resta profondamene diverso da quello industriale. Ruota intorno al servizio, non al prodotto. Si dice: “ma all’estero non è così”. È vero. Il tessuto distributivo degli altri Paesi e le regole sono diverse. Anche il tessuto industriale, però, è diverso.

Ogni Paese ha le sue regole, i suoi contratti di lavoro e una cultura commerciale differente. Si aggiunge: “C’è molto lavoro povero”. Si. Però  questo fornisce uno sbocco a migliaia di giovani, sopratutto donne che non proseguono gli studi e che possono entrare nel mercato del lavoro e crescere. E, assicuro i più scettici, la formazione messa a disposizione nella Grande Distribuzione è di notevole entità e qualità.

C’è molto da fare sul piano contrattuale. Certo che si. Verso il basso perché il fordismo è entrato nei centri di Distribuzione, nelle attività di consegna e nel lavoro povero della GDO e verso l’alto anche in quegli stessi o in altri settori. C’è da affrancarlo proprio dalla cultura fordista senza però dimenticare che molti di quei lavori saranno presto sostituiti da macchine o direttamente dai consumatori stessi.

Francesco Riccardi sull’Avvenire esagera quando scrive: “I sindacati – e in particolare la Cgil – hanno compreso da tempo, però, che in gioco non c’è tanto e solo una questione contrattuale su orari e retribuzioni, che si possono sempre negoziare, ma qualcosa di assai più prezioso: i diritti di ciascun lavoratore e di tutti…”.

Mi sembra francamente una esagerazione. Non credo che i sindacati si siano mai proposti di bloccare a Pasqua o in altri periodi, Gardaland, i parchi tematici o le multisale cinematografiche. Non c’è molta differenza e anche lì lavorano, pur nel rispetto dei loro diritti, migliaia di lavoratori del terziario.

A suo tempo Confcommercio pose il problema della regolamentazione delle aperture cercando di consentire alle Regioni uno spazio di manovra soprattutto quando, nel gennaio del 2012, entrò in vigore la riforma c.d. Salva Italia del Governo Monti, con la liberalizzazione totale degli orari di apertura, 24 ore giornaliere e 365 giorni l’anno.

Non ci fu nulla da fare. Né nessuno (anche di chi oggi protesta) disse nulla. Comunque Federdistribuzione conferma un aumento degli occupati significativo a seguito della liberalizzazione. Che di questi tempi, non credo sia comunque da sottovalutare.

ALI…Taglia?

La domanda che si pone oggi il sempre più interessante Mario Sechi sul Foglio sulla vicenda Alitalia è centrale: “Perché il mercato globale delle compagnie aeree ha registrato nel 2016 profitti netti aggregati pari a 35,6 miliardi di dollari e invece Alitalia sta(va) per fallire?”

Prima dell’arrivo di Luigi Gubitosi il piano era già scritto da settimane sui giornali: duemila esuberi e il taglio del 30 per cento dello stipendio dei piloti. Del piano industriale, intendendo con questo un piano di vera svolta, nessuna traccia.

Anche oggi di quel piano non se ne sente parlare. Ovviamente non un progetto generico scritto per non turbare la politica in altre faccende affaccendata o i sindacati preoccupati per l’insieme dei lavoratori ma un piano vero, oggettivo, utile ad uscire finalmente dalla drammatica situazione in cui l’azienda è costretta. Oppure in grado di annunciare verità ormai non più rinviabili per i costi che il nostro Paese deve e dovrà continuare a sopportare in mancanza di scelte definitive.

Nelle ristrutturazioni aziendali di grande portata la qualità e la competenza del management messo in campo sono fondamentali. Così come la conoscenza del contesto politico/sociale e del comparto economico relativo. Oltre ai freddi numeri che hanno solo lo scopo di delineare il nuovo perimetro aziendale occorre saper proporre una visione, ingaggiare chi deve sostenerla e convincere i sindacati che la strada che si vuole intraprendere è inevitabile ma anche positiva per quella parte dell’azienda che resta è che quindi è chiamata a scommettere sulla prospettiva.

Per poter realizzare tutto questo la missione affidata dal consiglio di amministrazione ai migliori cacciatori di teste è di individuare i manager più performanti sul mercato internazionale che possano dimostrare, nei progetti seguiti e attuati, le loro attitudini e capacità di muoversi in contesti complessi portando qualità e innovazione strategica. A questo dovrebbe seguire un assessment di tutto il management interno con lo scopo di valutarne la qualità e le caratteristiche in relazione al piano industriale da predisporre. Convinta, ingaggiata, resa protagonista e messa bordo la nuova prima linea è l’unica e la sola referente dell’insieme dei collaboratori.

Da qui in poi il confronto con il sindacato, soprattutto se l’azienda è in “zona Cesarini” cioè ad un passo dai libri in tribunale, deve essere costruttivo, serio e trasparente. La vicenda Alitalia non sembra avere nulla di queste caratteristiche forse perché, per alcuni autorevoli osservatori, non esiste già più alcuna possibilità di ristrutturazione e di rilancio anche perché  le scelte fatte fino ad ora, sembrano piu in linea con il passato, che in sintonia con un futuro auspicabile.

Personalmente non ci voglio credere. Un vecchio proverbio arabo recita: “Tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Alitalia non è e non sarà più l’azienda con oltre ventimila dipendenti né la compagnia di bandiera.

È un’azienda che oggi non supera i dodicimila e che perde ogni giorno centinaia di milioni di euro Dispone di una flotta di 121 aerei e, nel 2016 ha trasportato 22,6 milioni di passeggeri Conta circa 8o destinazioni ed ha 6 basi di riferimento sul nostro territorio. Il fabbisogno economico, da qui alla fine dell’anno arriverebbe a circa 900 milioni.

Per banche e creditori vari l’unica soluzione è il taglio dei costi che, da solo, non porta probabilmente da nessuna parte anche perché siamo quasi ad aprile. I ministri dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, e dei Trasporti, Graziano Delrio, in un comunicato diffuso al termine dell’incontro con i vertici della compagnia aerea hanno dichiarato: “È un piano molto ampio che contiene numerosi elementi da approfondire e che richiede un’implementazione rapidissima».

Il neo presidente Gubitosi non è Marchionne e l’Alitalia non è la Fiat. E non vedo sindacalisti direttamente coinvolti in grado di assumersi responsabilità in prima persona come hanno fatto FIM e UILM nella vicenda FCA. Inoltre il Governo, oggi, non può permettersi né di avallare un’uscita dal contratto nazionale né un piano indigeribile per i sindacati.

Eppure la vicenda Alitalia è paradigmatica di quello che oggi è il nostro Paese. Ed è per questo che la soluzione marcherà in modo indelebile la qualità di chi si siede fa al tavolo. Politici, sindacalisti, azionisti e banche.

Abbiamo davanti a noi le vicende che hanno coinvolto compagnie in situazioni veramente critiche come Swiss Air, Iberia, Vueling i cui vertici hanno saputo puntare su piani aziendali innovativi seppur molto pesanti.

Di fronte a questa azienda e ai suoi problemi ci si può rassegnare alla sua fine ineluttabile accettando un piano che va bene a tutti ma che pregiudicherà, posticipandone solo la fine, il futuro per migliaia di lavoratori. Oppure fare ciò che serve.

Il punto, però, non è trovare un accordo a qualsiasi costo. È scontato che lo si troverà. Il punto è che questo accordo segni finalmente una svolta vera utile all’impresa, ai lavoratori che resteranno e al Paese.

Una inutile dimostrazione di forza

Certe notizie non si vorrebbe mai leggerle. Un operaio licenziato per inabilità al lavoro dopo un trapianto è una inutile dimostrazione di forza. In quell’azienda c’è qualcuno che ha sottovalutato l’intera vicenda, l’ha gestita con altrettanta superficialità e ha suggerito ai vertici aziendali una soluzione boomerang.

Solo per questo, dovrebbe essere contestato. Per l’accanimento verso il lavoratore che, giustamente, è costretto a tutelare i suoi diritti nelle sedi opportune, per tutti i collaboratori che assistono indignati ad un comportamento aziendale che domani potrà essere riservato anche a loro, per l’immagine pubblica di un’impresa (soprattutto se multinazionale) che non può permettersi di trovarsi al centro di polemiche di questa dimensione nel 2017.

Solo pochi anni fa, in un’azienda importante della Grande Distribuzione del comparto non food, un dirigente, colpito da una gravissima malattia fu gestito, fino alla fine, con tutta la cautela e gli ammortizzatori necessari ben al di là di ciò che prevede il Contratto nazionale. Dal vertice aziendale, dai colleghi e dai collaboratori. Sono tanti i casi virtuosi che andrebbero sottolineati con altrettanta convinzione.

L’azienda è una comunità che ha il suo punto di forza nel clima interno. Questo è determinato da un insieme di fattori che superano le disposizioni aziendali e i contratti firmati, che vanno certamente rispettati, ma modellati sulle persone. I valori a cui quell’impresa si ispira, il rispetto reciproco, l’ascolto e la comprensione dei problemi che vivono i collaboratori dentro e fuori il luogo di lavoro e i comportamenti concreti dei capi e dei colleghi ne costituiscono la base su cui l’impegno e il coinvolgimento sugli obiettivi aziendali possono o meno realizzarsi.

È certamente vero che ogni azienda ha una sua cultura che determina i comportamenti del management e quindi la coerenza generale degli atteggiamenti che vengono premiati o che inibiscono carriere e qualità del lavoro dei singoli collaboratori ma certi limiti non andrebbero mai superati.

Nelle riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali, nei confronti quotidiani tra capo e collaboratori, nei processi di valutazione interni il rispetto reciproco è fondamentale. I casi di gravi malattie sono addirittura normati nei contratti più avanzati.

Nell’ultimo contratto dei dirigenti del terziario, ad esempio, il periodo di comporto ordinario è stato fissato in 8 mesi, mentre la precedente formulazione del CCNL prevedeva un periodo di 12 mesi. Tuttavia, in caso di patologia grave e continuativa che comporti terapie salvavita, possono essere prolungati fino ad ulteriori 180 giorni, estendendo la precedente tutela fino ad arrivare ad un periodo complessivo di conservazione del posto di lavoro con corresponsione dell’intera retribuzione di 14 mesi. È questa è solo una dimostrazione di come le parti (in questo caso Manageritalia e Confcommercio) affrontano il rischio di abuso di uno strumento abbassandone la copertura ma condividendo una soluzione intelligente per chi ne dovesse avere veramente bisogno.

Nascondersi dietro il fatto che l’inidoneità di un lavoratore rispetto alla mansione giustifichi il licenziamento non assolve l’azienda se esiste una soluzione alternativa. Tra l’altro, in questo caso, l’età del lavoratore e la sua lontananza dalla pensione rende difficile individuare altre soluzioni di natura economica.

Per queste ragioni una impresa attenta al contesto interno ed esterno non dovrebbe mai trovarsi in situazioni cosi riprovevoli né essere costretta a prenderne atto per la reazione dell’insieme dei suoi lavoratori. Il danno di immagine è fatto. Purtroppo. Resta solo l’intelligenza del vertice aziendale nel prenderne atto e nel rimediare immediatamente.

Il lavoro che verrà, è già qui…


La reazione del Ministro dei Trasporti sulla povertà dei contenuti lavorativi dei consegnatari di Foodora è piaciuta al segretario della CGIL Susanna Camusso. In effetti è un lavoretto.

La cosiddetta new economy genera anche modeste attività di consegna. Lavoro povero. Così come la nuova logistica genera, a sua volta, lavoro poverissimo. Vale anche per Uber che trasforma normali pensionati o disoccupati in neo tassisti part time o Airbnb che trasforma la vicina della porta accanto in una affittacamere. Non è tutto oro quello che luccica.

Alcune grandi multinazionali “approfittano” delle esigenze di reddito di un ceto medio impoverito per crescere in assenza di regole. Ma questo è un altro tema. I lavoretti sono sempre esistiti. Prima c’era il cassaintegrato in nero che sostituiva l’artigiano o l’universitario trentino che raccoglieva le mele nella Val di Non, oggi sostituito da immigrati rumeni.

Cosa sta cambiando allora nel lavoro? Per tanti lavoratori tradizionali, apparentemente nulla. Ci sono ancora operai, impiegati pubblici e privati, lavoratori dei servizi o della Grande Distribuzione per i quali non è cambiato il contenuto del loro lavoro. Per ora.

È cambiato però completamente il contesto nel quale, anche questi lavori vengono eseguiti. Molte delle loro imprese, se hanno un mercato globale devono cambiare, innovare, riorganizzarsi, comprimere anche i loro costi, impegnarsi in investimenti ad alto rischio per poter competere e rispondere alle richieste di flessibilità imposte dalle filiere globali nelle quali sono inserite.

Le aziende dove lavorano nascono e muoiono con una rapidità sconosciuta fino a poco tempo fa. E quindi, pur impegnati in una attività tradizionale, devono essere preparati a cambiare molto più spesso dei loro genitori.

Se le loro aziende interagiscono nel mercato interno devono competere con nuovi soggetti economici che operano in altri Paesi con regole diverse, controllano funzioni o mercati a monte o a valle, cambiano offerta e domanda di beni e servizi. Condizionano i consumatori.

Anche le imprese manifatturiere tradizionali sanno che, al prodotto, pur innovativo e al processo tecnologico che serve a metterlo sul mercato, devono predisporsi ad un salto culturale e aggiungere una serie di attività che assicurino nuovi servizi per il cliente o per il mercato di riferimento.

La parte di manifattura tradizionale e il lavoro che in essa si svolge, pur evolvendo necessariamente verso modelli non fordisti, perdono di centralità per l’impresa nel suo complesso che deve saper fare anche altro per competere.

La nuova cultura del lavoro nasce da qui. In un mondo che cambia, una parte delle mansioni e dei mestieri, pur necessari e numerosi, normati dalla contrattazione e dalle leggi nella seconda parte del 900, perdono valore economico e riconoscibilità sociale mentre ne nascono altri. Alcuni, pur non normati, sempre poveri come contenuto, altri di maggiore contenuto professionale per le capacità e per le competenze richieste.

Stabilire regole comuni di entrata nel mondo del lavoro, pensare che queste opportunità siano a disposizione di tutti allo stesso modo, definire norme indifferenziate, luoghi di lavoro tradizionali, orari e strumenti di lavoro identici per tutti è una operazione inutile. O meglio è una riproposizione di uno schema che non può funzionare.

A fronte di un “accanimento terapeutico” di norme e leggi prodotte da giuslavoristi, prima e da economisti, poi, la stragrande maggioranza delle imprese ha scelto di “gestire dinamicamente” leggi e contratti cercando di ridurne l’effetto frenante sul business e sull’organizzazione. Sfruttandone le potenzialità o lasciandole in un cassetto. Contando anche sulla sostanziale ritirata del sindacato dalle problematiche gestionali dell’impresa e dalla convergenza che si crea con l’insieme dei lavoratori in caso di crisi o di necessità particolari.

La positività di alcuni contratti sta proprio nella libertà che lasciano alla singola azienda di adattare norme e regole alle esigenze. Non è un caso che il Contratto Nazionale del Terziario lascia, meglio di altri, questa flessibilità ed è per questo è utilizzato da migliaia di aziende di differenti settori merceologici. Così come non è un caso che è proprio l’ultimo residuo di cultura fordista commerciale, la Grande Distribuzione, che spinga per un contratto nazionale dedicato tutto concentrato sul costo.

E qui sta un altro paradosso su cui riflettere. La modernità del modello organizzativo della GDO era tale nel 900. Oggi non lo è più. Deve competere con modelli tipo Amazon che la insidiano sempre di più in termini di organizzazione delle vendite, delle promozioni, degli orari di vendita, del rapporto con i consumatori.

E questo spinge tutta la GDO a continue riorganizzazioni con forti  pressioni e aggressività sui costi, innanzitutto su quello dei fornitori e del lavoro, che si riflette inevitabilmente sulle relazioni sindacali e con i fornitori.

Così mentre molti piccoli esercizi si stanno in parte attrezzando e oggi, attraverso una evoluzione digitale alla loro portata accrescono il loro potenziale di mercato, la GDO si avvita su se stessa senza riuscire ad innovarsi nei format di vendita. Anzi, il modello di riferimento, gli ipermercati, rischia di trovarsi in una crisi irreversibile.

Per tutto queste considerazioni il lavoro che verrà è già qui. Intreccia il suo lato povero o tradizionale su cui occorre trovare risposte diverse dal 900 che assicurino diritti di cittadinanza esigibili, un salario minimo, dignità nuove e un welfare contrattuale adeguato. Ma presenta anche nuove opportunità, soprattutto per i più giovani e per coloro i quali vogliono crescere professionalmente. E per le aziende che vogliono investire su se stesse e sui propri collaboratori.

Per queste imprese le regole devono essere lasche, intelligenti, costruite per motivare, coinvolgere e raggiungere gli obiettivi di business. Non legate a modelli superati.

Lavorare a questa nuova impostazione che comprenda gli uni e gli altri con le rispettive differenze dovrebbe essere il compito delle parti sociali e degli esperti della materia. Al centro attraverso leggi e contratti nazionali evoluti, in azienda coinvolgendo i diretti interessati.

Taxi e Alitalia. Siamo sicuri che c’è tempo da perdere?

Taxi e Alitalia, in fondo, rappresentano bene il modo di operare di un Paese che preferisce non prendere atto della realtà e sposta sempre in avanti il momento delle scelte e delle decisioni.

Cosa è successo? In fondo nulla. Appunto. Un grande caos di sei giorni culminato con una manifestazione a tratti violenta, un incontro con il Ministro dei trasporti che ha partorito un mese di riflessione nel quale si troverà un accordo per rinviare più in là la resa dei conti con un futuro che incombe e che indica, sempre meno sommessamente, una strada opposta.

Hanno vinto tutti. Quindi chi ha perso non era in quelle stanze…

Nessuno che spieghi ai tassisti la differenza tra vincere una battaglia per abbandono dell’avversario e il rischio di perdere la guerra se la categoria non cercherà di evolvere, di cambiare atteggiamento, di lavorare per il proprio futuro e non di rivendicare esclusivamente un diritto inesigibile: quello di impedire qualsiasi cambiamento.

Sembra che, in questo Paese, nessuno se la senta di affrontare i problemi. Mi ha stupito il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che, dopo l’annuncio del ritiro della disdetta del contratto aziendale Alitalia si è dichiarato soddisfatto. Da lui non me lo sarei aspettato. Lo credevo di un’altra categoria.

Ma veramente qualcuno può pensare che un rinvio del problema ad un prossimo confronto su un nuovo contratto aziendale tra un’azienda “alla frutta” e una categoria sindacale che non sa cosa fare, vista la dimensione del problema, possa portare ad un risultato utile? Separare il tema degli esuberi, quindi del piano industriale, da quello del contratto aziendale è un errore. Anche in vista di possibili nuovi partner.

È comprensibile che lo commettano i sindacati che devono gestire le conseguenze sui loro iscritti, non lo è affatto per il Governo che si troverà, inevitabilmente,  a dover pagare il conto. Anche dei ritardi. Così come è stato nel negoziato che ha portato alla definizione delle nuove regole interne all’avvio del progetto precedente. E qui si ritorna al tema. La paura delle reazioni, quindi, ancora una volta, si concorda che è meglio “allungare il brodo”.

Queste due vicende sono paradigmatiche di un Paese che non riesce a prendere atto che i problemi non si risolveranno da soli e che lo sforzo da mettere in campo per affrontarli non può essere lasciato solo sulle spalle del Governo o di un’azienda.

Il “ce lo chiede l’Europa” non funziona più. Occorre prendere atto che che occorre uno sforzo e una assunzione di responsabilità comune. E qualcuno che parli chiaro al Paese. Altrimenti, di rinvio in rinvio, finiremo male, molto male. Tutti insieme.