Coesione sociale e mercato del lavoro di Ferruccio Pelos

Lunedì  13 Febbraio u.s., Ministero del  lavoro, Inps e Istat hanno presentato  il 2° Rapporto sulla Coesione sociale nel Paese: in due poderosi volumi quanto serve  per capire la situazione nazionale, in rapporto all’Europa. L’obiettivo ambizioso è quello : ” di fornire, in modo particolare ai policy maker, le indicazioni basilari per conoscere le situazioni economiche e sociali sulle quali intervenire per migliorare le condizioni di vita delle persone”.

Riteniamo opportuno dare ai nostri lettori una visione completa del sommario di quest’opera per l’estrema rilevanza dei temi e dei dati in essa contenuti e ricordiamo che i due volumi e le tavole del 2° volume sono reperibili dal link:    http://www.istat.it/it/archivio/53075

Queste indicazioni sono articolate in tre grandi “sezioni”.
Quella CONTESTI con i seguenti capitoli:

 Il quadro socio demografico( Struttura e dinamica della popolazione, Strutture familiari,Proiezioni della popolazione)
Quadro economico ( Conti economici, Struttura produttiva)
Mercato del lavoro ( Occupati, disoccupati e inattivi in generale, Occupati contribuenti INPS, Retribuzioni dei lavoratori dipendenti contribuenti INPS, Lavoratori autonomi e lavoratori parasubordinati, Sistema delle comunicazioni obbligatorie)
Attività ispettiva di vigilanza sul lavoro
Quella FAMIGLIA  E COESIONE SOCIALE  divisa in:

Capitale umano ( Competenze e transizione al lavoro, Scuole e classi per ordine e grado e partecipazione scolastica
Tempo di lavoro e tempo di cura della famiglia (Maternità e congedi parentali)
Salute ( Cause di morte in generale, Dipendenza e disagio mentale, Infortuni e decessi sul lavoro )
Disabilità
Povertà
Povertà e consumi
Deprivazione
Disagio per rischio di criminalità
Infine quella  SPESA ED INTERVENTI PER LA COESIONE SOCIALE:

Spesa sociale aggregata (Spesa delle amministrazioni pubbliche, Spesa della protezione sociale )
Politiche attive per il lavoro
Politiche previdenziali di sostegno al reddito (Disoccupazione, Mobilità, Cassa integrazione guadagni, Assegni al nucleo familiare, Pensioni e pensionati in generale , Invalidità e assegni sociali)
Servizi sociali (Spesa per servizi socio-assistenziali, Servizi per la prima infanzia)
In questa sede  intendiamo riprendere ed evidenziare solamente alcuni dati estremamente  rilevanti sul mercato del lavoro.
Nel secondo trimestre 2011 gli occupati erano 23 milioni 94mila, mentre i disoccupati erano 1  milione 947mila unità. Il tasso di disoccupazione era al 7,8% (+0,5 punti percentualirispetto al terzo trimestre 2010), quello giovanile (15-24 anni) si attestava invece al 27,4%, raggiungendo il 44% se riferito alle donne del Mezzogiorno.

Nel 2010  gli occupati a tempo determinato erano 2 milioni  182 mila,  il 12,8% dei  lavoratori  dipendenti, in gran parte giovani e donne. Gli occupati part-time erano 3 milioni  437mila, il 15% dell’occupazione complessiva, tra la quale prevale nettamente la componente femminile.Nel primo semestre 2011 sono stati attivati oltre 5 milioni 325 mila rapporti di lavoro dipendente o  parasubordinato. Il 67,7% delle assunzioni è  avvenuto con contratti a tempo determinato, il  19% con contratti a tempo indeterminato e l’8,6% con contratti di collaborazione. I rapporti di apprendistato sono stati solamente il 3% del totale.Sempre nel primo semestre 2011 circa 687 mila rapporti di lavoro hanno avuto la durata di un giorno (supplenze nelle scuole e addetti ai pubblici esercizi).

Nel  lavoro dipendente si contano nel 2011, 12 milioni 425mila occupati (anche agricoli e domestici), circa 5mila in più rispetto al 2010. Ma il numero dei  dipendenti aumenta di poco nel Nord Ovest (+0,7%) e nel Nord Est (+0,5%), mentre cala nel Sud e nelle Isole (-1,4%).
La Lombardia è la Regione con più lavoratori dipendenti, in media 2 milioni 748 mila, il 22,1% del totale (dati 2011). La sua crescita su base annua è la più alta (+1%). La Campania, anch’essa regione con molti lavoratori dipendenti, oltre 732 mila, fa registrare il calo più forte (-1,4%).
Negli ultimi quattro anni (2007- 2011) si è ridotta la quota di lavoratori dipendenti under30, dal 21,4% al 17,6%, mentre è cresciuto il peso relativo della quota femminile, dal 39,6% al 41,2%.
In crescita è il numero dei quadri (+1,8%) e quello di impiegati e dirigenti (+0,9%);  in diminuzione quello degli apprendisti (-6%) e degli operai (-0,2%) (dati 1° semestre 2011).
Il numero di dipendenti con contratto a tempo indeterminato risulta in discesa (-0,5%), attestandosi  a quota 10 milioni 563mila. Il calo è molto più rilevante per i lavoratori sotto i 30 anni (-7,9%).

Le donne con un lavoro standard sono oltre 4 milioni 193mila, in crescita dello 0,5% rispetto al 2010, mentre i maschi (più di 6 milioni 369mila) sono in calo dell’1,1%.
Il lavoro a tempo parziale riguarda in prevalenza l’universo femminile: nelle forme tipiche di part time, orizzontale verticale e misto, le donne rappresentano, nel 2011, rispettivamente il 74,2%, il 70,3% e il 76,7% dei lavoratori con contratto a orario ridotto.
I contribuenti Parasubordinati, della Gestione separata Inps, (con almeno un versamento nell’anno) sono 1,7 milioni, dei quali 1,4 milioni (85%) collaboratori e poco più di 250mila (15%) professionisti.  

La componente maschile è preponderante (58,7%, pari a circa 995 mila) su quella femminile (41,3%, circa 700 mila). Rispetto all’anno precedente, il numero dei collaboratori fa registrare un calo dell’1,7% mentre risulta in aumento del 3,2% quello dei professionisti. I lavoratori parasubordinati si concentrano nelle regioni del Nord (55,4%) e, in misura molto più contenuta, al Centro (25,9%) al Sud (12,5%) e nelle Isole (6,2%). L’età media dei contribuenti si attesta su 42,2 anni (45,0 anni per i maschi e 38,3 anni per le femmine).

Nonostante il miglioramento avvenuto negli ultimi anni, le donne continuano ad avere maggiori difficoltà a conciliare i tempi di lavoro e di cura della famiglia: in media, giornalmente, guardando all’insieme del lavoro e delle attività di cura, la donna lavora 1 ora e 3 minuti in più del suo partner quando entrambi sono occupati (9 ore e 9 minuti di lavoro totale per le donne contro le 8 ore e 6 minuti degli uomini). Per le coppie con figli il divario di tempo sale a 1 ora e 15 minuti .

L’indice di asimmetria del lavoro familiare – ossia quanta parte del tempo dedicato al lavoro domestico, di cura e di acquisti di beni e servizi è svolta dalle donne – indica che il 71,3% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne.Nelle coppie con entrambi i partner occupati, il maggior grado di asimmetria si osserva tra le coppie con figli residenti nel Mezzogiorno (74,6%), in quelle in cui l’età del figlio più piccolo supera i 14 anni (74,6%) e quelle in cui la donna ha un titolo di studio basso (72,2% nel caso di licenza elementare o media).

Le donne, in particolare quelle occupate, sono penalizzate anche per il tempo libero. Il gap di genere si riduce nel tempo, ma resta a livelli elevati: gli uomini dispongono di 59 minuti in più di tempo libero rispetto alle donne, venti anni fa la differenza era di 1 ora e 14 minuti.

Al 31 dicembre 2010 si contano in Italia 16 milioni 708mila pensionati. Di questi, il 75% percepisce solo pensioni di tipo Invalidità, Vecchiaia e Superstiti (Ivs), mentre al restante 25% vengono erogate pensioni di tipo indennitario e assistenziale, eventualmente cumulate con pensioni di tipo Ivs.

Quasi un pensionato su due (49,4%) ha un reddito da pensione inferiore a  1.000€, il 37,4% percepisce fra 1.000 e 2.000€, mentre il 13,2%  più di 2.000€.

E se avesse ragione Fornero?

Dalla famosa esternazione sui “bamboccioni” di Padoa Schioppa alle dichiarazioni dei prof. Monti, Fornero e del ministro Cancellieri, a prima vista, sembra che vengano utilizzate parole fuori misura. O perlomeno che si sia commessa un’ingenuità o peggio una sottovalutazione della realtà. Le reazioni indignate della rete e di molti commentatori confermerebbero il negativo effetto mediatico di certe affermazioni. Addirittura c’è chi ha evidenziato i privilegi di cui godrebbero i figli di alcuni ministri e quindi l’inattendibilità degli stessi ad esternare consigli o opinioni. Come dire: predicano bene ma razzolano male. Dunque non possono parlare o che almeno stiano zitti. Credo sia una polemica inutile e sbagliata. Sarebbe come pretendere che possa parlare male della scuola solo chi è stato bocciato oppure che sarebbe necessario produrre il 740 prima di poter discutere di diseguaglianze sociali. Sinceramente mi sembra un modo vecchio per impedire un confronto su temi importanti. Probabilmente i figli di Fornero o di Monti non hanno mai avuto i problemi che colpiscono una parte delle giovani generazioni. Non li avevano né prima dell’incarico affidato ai loro genitori né li avranno dopo ma questo non impedisce ai loro illustri parenti di tentare di dare un contributo che consenta di aprire una discussione vera nella società italiana. Parlare di occupabilità, impiegabilità, disponibilità alla mobilità territoriale significa uscire dagli schemi a cui siamo abituati. Questo è un Paese immobile che trova un consenso diffuso solo se guarda indietro. Fatica a guardare avanti perché c’è sempre una buona ragione per non farlo. E chiunque ha un minimo di responsabilità o sensibilità sociale non può non sapere che, soprattutto per i meno fortunati, serve a poco la solidarietà pelosa. Occorre incentivre e promuovere una forte responsabilizzazione individuale. E quesa si ottiene solo se si induce alla riflessione. Aiutare i giovani a guardare lontano, oltre il proprio punto di osservazione, è fondamentale. Per questo chi ha la responsabilità di orientare il dibattito dovrebbe sempre riflettere prima di accodarsi alle banalità o alla retorica nazionale. Parlare alla “pancia” della gente è facile. Parlare alla “testa” lo è meno. Per questo Fornero comincia ad essermi simpatica….

La decrescita “felice”. Intervista a Serge Latouche su Repubblica.it

La sfida di Latouche “Così si può costruire una società solidale”. Il teorico della decrescita felice ha appena pubblicato un nuovo saggio. Dove spiega come siano possibili modelli di vita alternativi “Stiamo finendo le risorse naturali e dobbiamo porci il problema. Le vecchie teorie non servono più: occorre ripensare a tutto il sistema” “Non sono per l´austerità: vorrei riuscire a sottrarre l´ecologia a chi la sta trasformando in una serie di tesi conservatrici”

«Un certo modello di società dei consumi è finito. Ormai l´unica via all´abbondanza è la frugalità, perché permette di soddisfare tutti i bisogni senza creare povertà e infelicità». È la tesi provocatoria di Serge Latouche, professore emerito di scienze economiche all´Università di Paris-Sud, universalmente noto come il profeta della decrescita felice. Il paladino del nuovo pensiero critico che non fa sconti né a destra né a sinistra sarà a Napoli (dal 16 al 20 gennaio), ospite della Fics (Federazione Internazionale Città Sociale) e protagonista del convegno internazionale “Pensare diversa-mente. Per un´ecologia della civiltà planetaria” organizzato dal Polo delle Scienze Umane dell´Università Federico II. Il tour italiano dell´economista eretico coincide con l´uscita del suo nuovo libro Per un´abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita (Bollati Boringhieri). Un´accesa requisitoria contro l´illusione dello sviluppo infinito. Contro la catastrofe prodotta dalla bulimia consumistica.

Cos´è l´abbondanza frugale? Detta così sembra un ossimoro.

«Parlo di “abbondanza” nel senso attribuito alla parola dal grande antropologo americano Marshall Sahlins nel suo libro Economia dell´età della pietra. Sahlins dimostra che l´unica società dell´abbondanza della storia umana è stata quella del paleolitico, perché allora gli uomini avevano pochi bisogni e potevano soddisfare tutte le loro necessità con solo due o tre ore di attività al giorno. Il resto del tempo era dedicato al gioco, alla festa, allo stare insieme».

Vuol dire che non è il consumo a fare l´abbondanza?

«In realtà proprio perché è una società dei consumi la nostra non può essere una società di abbondanza. Per consumare si deve creare un´insoddisfazione permanente. E la pubblicità serve proprio a renderci scontenti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. La sua mission è farci sentire perennemente frustrati. I grandi pubblicitari amano ripetere che una società felice non consuma. Io credo ci possano essere modelli diversi. Ad esempio io non sono per l´austerità ma per la solidarietà, questo è il mio concetto chiave. Che prevede anche controllo dei mercati e crescita del benessere».

Perché definisce Joseph Stiglitz un´anima bella?

«Stiglitz è rimasto alla concezione keynesiana che andava bene negli anni ´30, ma che oggi, anche a causa dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, mi sembra impraticabile. Nel dopoguerra l´Occidente ha conosciuto un aumento del benessere senza precedenti, basato soprattutto sul petrolio a buon mercato. Ma già negli anni ´70 la crescita era ormai fittizia. Certo il Pil aumentava, ma grazie alla speculazione immobiliare e a quella finanziaria. Un´età dell´oro che non ritornerà più».

È il caso anche dell´Italia?

“Certo, il boom economico italiano del dopoguerra si deve soprattutto a personaggi come Enrico Mattei che riuscì a dare al vostro paese il petrolio che non aveva. È stato un vero miracolo. E i miracoli non si ripetono”.

I sacrifici che i governi europei, compreso quello italiano, stanno chiedendo ai cittadini serviranno a qualcosa?

«Purtroppo i governi spesso sono incapaci di uscire dal vecchio software economico. E allora tentano a tutti i costi di prolungarne l´agonia, ma questo, lo sanno bene, non fa altro che creare deflazione e recessione, aggravando la situazione fino al momento in cui esploderà».

Lei definisce la società occidentale la più eteronoma della storia umana. Eppure comunemente si pensa che sia quella che garantisce il massimo di autonomia democratica. Chi decide per noi?

«Di fatto siamo tutti sottomessi alla mano invisibile del mercato. L´esempio della Grecia è emblematico: il popolo non ha il diritto di decidere il suo destino perché è il mercato finanziario a scegliere per lui. Più che autonoma, la nostra è una società individualista ed egoista, che non crea soggetti liberi ma consumatori coatti».

Qual è il ruolo del dono e della convivialità nella società della decrescita?

«L´alternativa al paradigma della società dei consumi, basata sulla crescita illimitata, è una società conviviale, che non sia più sottomessa alla sola legge del mercato. Che distrugge alla radice il sentimento del legame sociale che è alla base di ogni società. Come ha dimostrato l´antropologo Marcel Mauss, all´origine della vita in comune c´è lo spirito del dono, la trilogia inscindibile del dare, ricevere, ricambiare. Dobbiamo dunque ricomporre i frammenti postmoderni della socialità usando come collante la gratuità, l´antiutilitarismo. In questo concordo con gli esponenti italiani dell´economia della felicità, come Luigino Bruni e Stefano Zamagni, che si rifanno alla grande lezione dell´economia civile napoletana del Settecento di Antonio Genovesi».

Il capitalismo è l´ultimo pugile rimasto in piedi sul ring della storia?

«Non so se sia proprio l´ultimo pugile, perché non si sa mai in cosa è capace di trasformarsi, ci sono scenari ancora peggiori, come l´eco-fascismo dei neoconservatori americani. Certo è che siamo ad una svolta della storia. Se un tempo si diceva “o socialismo o barbarie” oggi direi “o barbarie o decrescita”. Serve un progetto eco-socialista. È tempo che gli uomini di buona volontà si facciano obiettori di crescita».

Francis Fukuyama di recente ha riaffermato di ritenere che il modello liberal-capitalistico resti l´orizzonte unico della storia. Senza alternative. Cosa ne pensa?

«Che ha una bella faccia tosta. Prima si è sbagliato totalmente sulla fine della storia, e oggi ripropone la stessa solfa. La sua profezia è stata vanificata dalla tragedia dell´11 settembre che ha dimostrato che la storia non era per niente finita. Fukuyama chiama fine della storia quella che è semplicemente la fine del modello liberal capitalista».

A chi dice che l´abbondanza frugale è un´utopia lei risponde che è un´utopia concreta. Non è una contraddizione in termini?

«No, perché per me l´utopia concreta non significa qualcosa di irrealizzabile, ma è il sogno di una realtà possibile. Di un nuovo contratto sociale. Abbondanza frugale in una società solidale. Sta a noi volerlo».

Marino Niola
Fonte: www.repubblica.it
14.01.2012

Benvenuto il luogo dove.. G. Gaber 1984

Benvenuto il luogo dove
dove tutto è ironia
il luogo dove c’è la vita e i vari tipi di allegria
dove si nasce, dove si vive sorridendo
dove si soffre senza dar la colpa al mondo.

Benvenuto il luogo delle confusioni
dove i conti non tornano mai
ma non si ha paura delle contraddizioni
dove esiste il caos ma non come condanna
dove si ride per come è strana la donna.

Benvenuto il luogo dove
il futuro è sempre più precario
benvenuta l’incertezza di un luogo poco serio
dove esiste ancora qualche antica forma di allergia
benvenuta l’intolleranza, benvenuta la pazzia.

Benvenuto il luogo dove
si crede a tutto e non si crede affatto
dove sorge la città delle madri dal corpo perfetto
benvenuta la donna che riflette tutto su se stessa
benvenuto il luogo dove tanta gente insieme non fa massa.

Benvenuto il luogo dove
se un tuo pensiero trova compagnia
probabilmente è già il momento di cambiare idea.
Il luogo dove l’estetica è importante
e poi malgrado l’ignoranza tutto è intelligente.

Benvenuto il luogo dove
non si prende niente sul serio
dove il rito è superato ma necessario
dove fascismo e comunismo sono vecchi soprannomi per anziani
dove neanche gli indovini pensano al domani.

Benvenuto il luogo dove
tutto è calcolato e non funziona niente
e per mettersi d’accordo si ruba onestamente
dove non c’è un grande amore per lo Stato
ci si crede poco
e il gusto di sentirsi soli è così antico.

Benvenuto il luogo dove
forse per caso o forse per fortuna
sembra che muoia
e poi non muore mai nemmeno la Laguna.
Dove tutto è melodramma con un po’ di indignazione
dove diventano leggere anche le basi americane.

Benvenuto il luogo lungo e stretto con attorno il mare
pieno di regioni
come dovrebbero essere tutte le nazioni
un luogo pieno di dialetti strani
di sentimenti quasi sconosciuti
dove i poeti sono nati tutti a Recanati.

Benvenuto il luogo dove
dove tutto è ironia
il luogo dove c’è la vita e i vari tipi di allegria
magari un po’ per non morire, un po’ per celia
il luogo, caso strano, sembra proprio l’Italia.

Non si puo’ essere a lungo ricchi e ignoranti

Questa frase è di Romano Prodi. La pronunciò quando, prima ancora di dedicarsi alla politica e in un periodo di relativa crescita economica, faceva il professore. Mi pare che ci siamo. Un Paese meno ricco lo siamo già, anche se una parte può permettersi di ostentare lo scialo e la sovrabbondanza. E siamo meno ricchi non solo per colpa degli altri: gli speculatori internazionali spregiudicati, i banchieri d’oltre oceano cinici, i governanti europei  iperprudenti. Siamo meno ricchi perché produciamo poco e male, perché troppi non praticano l’onestà fiscale e il lavoro legale, perché nelle istituzioni si predica bene e si razzola male. Ma siamo meno ricchi anche perché non c’è cura della crescita culturale ma si privilegia la tv spazzatura, se c’è da tagliare – nello Stato come nell’impresa – in testa alla lista c’è sempre e da sempre la formazione, l’investimento in innovazione, la scuola e la ricerca.

Ci siamo. Ci stiamo accorgendo che si assottiglia la torta della ricchezza; ci accorgiamo di meno che ciò dipende anche dalla progressiva perdita di capitale in conoscenze: gli abbandoni scolastici, la dequalificazione delle strutture scolastiche, il degrado delle università, il rifugio nelle “lauree deboli”, l’asfissia della ricerca, la fuga dei cervelli all’estero e poi lo scarso rinnovo delle tecnologie, la bassa produttività del lavoro, la forte propensione al capitale prestato rispetto a quello a rischio che fa delle nostre aziende il fanalino di coda del sistema europeo in fatto di autofinanziamento. Tutto ciò, ci rende meno professionalizzati, meno creativi, meno adatti al cambiamento. C’è un deficit di qualità della nostra capacità di far fronte alla crisi che ci spinge a rifugiarci nelle valutazioni quantitative, nella ricerca affannosa e miracolistica dei posti di lavoro da creare, dei consumi da incentivare, delle risorse da trovare.

 

In realtà,  se non vogliamo scivolare sempre di più nella povertà, dobbiamo fare molte cose ma soprattutto   avere il coraggio di rafforzare il nostro grado di conoscenza, di competenza, di proiezione nel futuro, mettendo sotto esame tutto l’apparato istituzionale e le strutture private per farli uscire dalla morta gora in cui sono giunti. I sistemi di formazione – da quelli di base a quelli superiori, da quelli aziendali a quelli amministrativi, da quelli per i giovani a quelli per gli adulti – devono essere rivisitati. In un dibattito pubblico, un medio imprenditore di successo ha detto: la fatica più grande che faccio è abituare i lavoratori a cooperare tra loro, perché la scuola non li ha allenati a copiare. Può sembrare paradossale, ma è la verità. Copiare non può essere sanzionato sempre dalla matita blu, se implica un lavoro di gruppo, una reciproca ricerca di soluzioni, una corale costruzione di un progetto, finanche un comune darsi la mano perché i meno dotati tengano il passo dei più dotati.

Tutto ciò non è avulso dalla discussione in corso sul futuro del mercato del lavoro. Il suo dualismo non  ha una sola componente, la precarietà ma è determinato anche dalla inveterata convinzione che le competenze formative hanno poco a che fare con le professionalità che servono concretamente  e che le professionalità obsolete devono trascinare fuori dall’attività le persone che le identificano. Queste due componenti vanno affrontate congiuntamente perché sono interconnesse sia sul piano culturale che su quello fattuale. Culturalmente, perché è prevalsa per un lungo tempo l’idea che l’autonomia della cultura doveva essere separata dalla vita produttiva e professionale. Fattualmente,  perché l’obsolescenza del mestiere deve tradursi al meglio in assistenza.

 

La prima questione, il superamento della precarietà, ha uno sbocco logico, ma finora impraticato.  Si deve entrare al lavoro per la via maestra: quella dell’apprendistato, contratto a tempo indeterminato che mixa lavoro e formazione sulla base di regole legislative e contrattuali. Terminato il periodo di apprendistato, lo sbocco naturale è l’assunzione a tempo indeterminato a meno che ci sia una motivata ragione che impedisca quella soluzione. Fa da ostacolo a questo scenario, la fitta serie di contratti a tempo, meno onerosa del contratto a tempo indeterminato e quindi decisamente più conveniente, per le aziende, che il ricorso all’apprendistato. La decisione fondamentale è quindi quella di far “costare”  queste forme contrattuali più flessibili quanto o un po’ di più dei contratti standard. Soltanto così l’apprendistato diventa effettivamente  il contratto prevalente per entrare nel mercato del lavoro.

Quanto alla seconda questione, le strade da imboccare sono in parallelo: da un lato, utilizzare gli stages e i tirocini soltanto come alternanza tra scuola e lavoro, per accorciare i tempi di inserimento lavorativo e integrare impresa e scuola in fatto di bagaglio culturale, tecnico e scientifico. Dall’altro, fare  formazione continua nei luoghi di lavoro in modo tale che, specie nei tempi di crisi, di ristrutturazione, di innovazione chi è in possesso di una professionalità obsoleta non venga immediatamente considerato un sovra peso, ma venga coinvolto in politiche formative per essere riutilizzato nei nuovi piani industriali. Una formazione di questo genere andrebbe detassata dal lato dell’impresa ed incentivata dal lato del lavoratore, considerando le ore di formazione ai fini pensionistici, anche se fatte fuori dall’orario di lavoro.

 

Una nuova visione della formazione come volano di uno scambio tra l’impegno delle aziende a non licenziare o a mettere in CIG e quello del lavoratore a riqualificarsi, semmai sopportando salari e orari ridotti, può aprire scenari diversi al tema della flessibilità in uscita, al destino dell’articolo 18, alla prospettiva di ammortizzatori sociali a carattere universale. Di questo bisognerebbe discutere a tutto campo, sapendo che la posta in gioco è l’innalzamento culturale dei lavoratori e dell’intera realtà italiana. Non credo che di fronte all’alternativa “più ricchi ma anche meno ignoranti” o “ meno ricchi e più ignoranti” ci sia qualcuno che opti per la seconda. Il problema è che non si facciano chiacchiere al vento. Il Ministro Profumo, per la sua parte, sembra ben intenzionato. Si capiscono meno le intenzioni del Ministro Fornero, dalla quale ci si attenderebbe una forte sensibilità per un  proficuo  rapporto formazione – lavoro. Anzi, esso potrebbe essere il nocciolo duro di un patto sociale, da più parti invocato, per ridare virtuosità alla ripresa economica del Paese.

Raffaele Morese

Buon Natale e buon 2012 a tutti!!!!

Lode della cattiva considerazione di sé (Wislawa Szymborska)
 

 
La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.

Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.

Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.

Il cuore dell’orca pesa cento chili,
ma sotto un altro aspetto è leggero.

Non c’è nulla di più animale
della coscienza pulita,
sul terzo pianeta del sistema solare.

Ultimi interventi legislativi sul Welfare e sul Lavoro

Art.1, comma 20 – Età pensionabile donne 

L’elevazione dell’età pensionabile delle lavoratrici del settore privato, nel corso dell’iter parlamentare del provvedimento è stata anticipata all’1.1.2014, rispetto all’1.1.2016, come previsto dal testo originario del decreto-legge in esame ed all’1.1.2020, come previsto ancor prima dalla manovra di luglio (art.18 del D.L. 98/2011, convertito con la Legge n.111/2011).

Pertanto, per le lavoratrici dipendenti del settore privato e per le lavoratrici autonome la cui pensione è liquidata a carico dell’assicurazione generale obbligatoria nonché della Gestione Separata INPS, la decorrenza dell’incremento di un mese del requisito anagrafico di sessanta anni per l’accesso alla pensione di vecchiaia nel sistema retributivo e misto ed in quello contributivo,  è anticipata a partire dal 1° gennaio 2014.

Tale requisito anagrafico è incrementato di ulteriori due mesi a decorrere dal 1° gennaio 2015, di ulteriori tre mesi a decorrere dal 1° gennaio 2016, di ulteriori quattro mesi a decorrere dal 1° gennaio 2017, di ulteriori cinque mesi a decorrere dal 1° gennaio 2018, di ulteriori sei mesi a decorrere dal 1° gennaio 2019 e per ogni anno successivo fino al 2025 e di ulteriori tre mesi a decorrere dal 1° gennaio 2026.

Pertanto, l’età pensionabile raggiungerà i 65 anni, a regime, dal 1° gennaio 2026, invece che dall’1.1.2028 come prevedeva il testo originario del decreto-legge in esame e dall’1.1.2032 come previsto dalla manovra di luglio.

Anno Incremento in mesi decorrente dal 1° gennaio dell’anno (rispetto all’anno precedente) Incremento cumulato in mesi
20142015

2016

2017

2018

2019

2020

2021

2022

2023

2024

2025

2026

12

3

4

5

6

6

6

6

6

6

6

3

13

6

10

15

21

27

33

39

45

51

57

60

Resta ferma la disciplina vigente in materia di decorrenza del trattamento pensionistico (cosiddette finestre mobili) e di adeguamento dei requisiti pensionistici agli incrementi della speranza di vita.

Art.6, comma 6-bis – Contenzioso bonus bebè

 

Nei confronti di coloro che hanno beneficiato del bonus bebè (assegno di mille euro per ogni figlio nato o adottato nel 2005)  senza possedere i prescritti requisiti reddituali, non si applicano le sanzioni penali ed amministrative qualora restituiscano le somme indebitamente percepite entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge.

I procedimenti penali ed amministrativi eventualmente avviati sono sospesi sino alla scadenza del predetto periodo e si estinguono a seguito dell’avvenuta restituzione.

Misure a sostegno dell’occupazione

 

Art. 8 – sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità

La norma introduce la possibilità che la contrattazione di secondo livello deroghi le previsioni contenute nei contratti collettivi nazionali per realizzare intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività, adozione di forme di partecipazione dei lavoratori.

Sono, inoltre, state definite le condizioni necessarie per la legittimità e l’applicabilità dei predetti accordi.

Con riferimento al primo aspetto, è stato previsto che la legittimità sia subordinata alla sottoscrizione da parte di associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi delle previsioni di legge e degli accordi interconfederali vigenti (ivi compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 sottoscritto fra Confindustria, CGIL, CISL e UIL).

Per quanto concerne, poi, l’applicabilità la norma dispone che siano efficaci nei confronti di tutti i lavoratori interessati solo se sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario relativo alle rappresentanze.

I predetti accordi potranno riguardare le materie l’organizzazione del lavoro e della produzione riferimento ai seguenti aspetti:

a)     impianti audiovisivi e introduzione di nuove tecnologie;

b)     mansioni del lavoratore, classificazione e inquadramento del personale;

c)     contratti a termine, contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, regime della solidarietà negli appalti e casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;

d)     disciplina dell’orario di lavoro;

e)     modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento.

La norma, inoltre, riconosce altresì forza giuridica generale ai contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, sottoscritto fra Confidustria, CGIL, CISL e UIL, a condizione che siano stati approvati con votazione a maggioranza dei lavoratori.

 

Art. 9 – Collocamento obbligatorio e regime delle compensazioni

La modifica dell’art. 5 della L. n. 68/1999, permetterà di rispettare gli obblighi di assunzione  di lavoratori disabili a livello nazionale.

Pertanto, i datori di lavoro privati che abbiano alle loro dipendenze lavoratori occupati in diverse unità produttive potranno realizzare automaticamente la procedura di compensazione territoriale, comunicandola ai servizi competenti delle province in cui si trovano le unità produttive mediante l’invio del prospetto informativo di cui all’art. 9, comma 6, L. n. 68/99, da cui si evince l’adempimento dell’obbligo a livello nazionale.

La medesima possibilità con l’identica procedura è stata prevista, inoltre, per i gruppi di imprese che potranno effettuare la compensazione, ferma restando la quota di riserva per ciascuna singola impresa, anche nell’ambito del gruppo stesso.

Art. 10 – Fondi interprofessionali per la formazione continua

 

La previsione amplia i beneficiari degli interventi di formazione continua, riconoscendo ai Fondi interprofessionali la possibilità di promuovere azioni di formazione per gli apprendisti e per i lavoratori coordinati e continuativi nella modalità a progetto.

Art. 11 – Livelli di tutela essenziali per l’attivazione dei tirocini

La norma detta una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale, prevedendo che i tirocini formativi e di orientamento non curriculari abbiano una durata non superiore a 6 mesi, comprese le eventuali proroghe, e che possano essere promossi esclusivamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro e non oltre dodici mesi dal conseguimento dei relativo titolo di studio.

I suddetti limiti non operano, tuttavia, nei confronti di talune tipologie di soggetti, quali i disabili, gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti e i detenuti ammessi a misure alternative di detenzione, quelli promossi a favore degli immigrati, nell’ambito del decreto flussi, dei richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, nonché quelli rivolti a soggetti svantaggiati destinatari di specifiche iniziative di inserimento o reinserimento al lavoro.

 

Art. 12 – Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro

La previsione introduce quale ulteriore ipotesi di reato quella di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, che si aggiunge a quelle già esistenti per i casi di esercizio senza autorizzazione delle attività di somministrazione e intermediazione di manodopera.

In particolare, la norma, nel considerare sia la fattispecie della mediazione abusiva, che quella svolta da soggetti autorizzati, determina quale elemento distintivo del reato lo sfruttamento (rinvenibile anche nel caso di violazione sistematica delle norme di tutela del lavoro di legge o di contratto), la violenza, la minaccia o l’intimidazione dei lavoratori.

La sanzione prevista è la reclusione da 5 ad 8 anni a cui si aggiunge la multa da euro 1.000 a 2.000 per ciascun lavoratore reclutato.

 

 

il nuovo contributo di solidarietà

In considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013 sul reddito complessivo di cui all’articolo 8 del testo unico delle imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, è dovuto un contributo di solidarietà del 3 per cento sulla parte eccedente il predetto importo. Ai fini della verifica del superamento del limite di 300.000 euro rilevano anche il reddito di lavoro dipendente di cui all’articolo 9, comma 2, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, al lordo della riduzione ivi prevista, e i trattamenti pensionistici di cui all’articolo 18, comma 22-bis, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, al lordo del contributo di perequazione ivi previsto. Il contributo di solidarietà non si applica sui  redditi di cui  all’articolo 9, comma 2, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e di cui all’articolo 18, comma 22-bis, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Il contributo di solidarietà è deducibile dal reddito complessivo. Per l’accertamento, la riscossione e il contenzioso riguardante il contributo di solidarietà, si applicano le disposizioni vigenti per le imposte sui redditi. Con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro il 30 ottobre 2011, sono determinate le modalità tecniche di attuazione delle disposizioni di cui al comma 1, garantendo l’assenza di oneri per il bilancio dello Stato e assicurando il coordinamento tra le disposizioni contenute nel presente articolo e quelle contenute nei citati articolo 9, comma 2, del decreto legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, articolo 18, comma 22-bis, del decreto legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze,  l’efficacia delle disposizioni di cui al presente comma può essere prorogata anche per gli anni successivi al 2013, fino al raggiungimento del pareggio di bilancio.”.