Conad/Auchan. Riflessioni sull’importanza e sulle tappe del negoziato sindacale

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

L’ultimo mio articolo sulla vicenda Conad/Auchan relativo all’accordo raggiunto tra Margherita distribuzione  e i sindacati confederali ha superato le diecimila visualizzazioni. Il penultimo ci è andato molto vicino. È stato indubbiamente uno dei pezzi più letti sia in Margherita Distribuzione che nell’insieme della GDO sul tema.

Non mi sono addentrato nel dettaglio dei contenuti perché sono difficili da argomentare quando non si partecipa direttamente ad una trattativa. Su questo basta leggere le tabelle proposte direttamente dai sindacati o dall’azienda. E, soprattutto, chi non è direttamente seduto al tavolo non è  quasi mai in grado di spiegare le apparenti incongruenze nei trattamenti di determinati gruppi  proprio perché frutto di richieste o di mediazioni che a volte  sacrificano il particolare al generale.

La persona singola quando legge un accordo sindacale guarda a sé stessa.  Il sindacato e l’impresa tendono inevitabilmente all’insieme.

Diversi lettori del blog, digiuni di ciò che sottendono le dinamiche di una trattativa, mi hanno sollecitato, partendo dall’esperienza che li coinvolge da vicino,  a spiegare meglio le dinamiche di un percorso negoziale, la distanza tra aspettative e risultati ottenuti, tra le parole d’ordine che hanno mobilitato i lavoratori e caratterizzato la fase precedente rispetto al contenuto dell’intesa raggiunta e le ragioni che hanno spinto le tre organizzazioni confederali a firmare al tavolo ministeriale e a differenziarsi (almeno fino ad ora) nel negoziato aziendale.

Cercherò di fare un po’ di chiarezza.

In un negoziato sindacale complesso di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale le posizioni di partenza sono sempre divaricanti. Direi necessariamente contrapposte  perché trattano di persone, del loro futuro, dei loro interessi in campo ma anche di altrettanto legittimi interessi aziendali. I lavoratori coinvolti chiedono al sindacato di battersi per conservare al massimo possibile ciò che c’era in termini di posto di lavoro, diritti, condizioni salariali e professionali.

Soprattutto quando i livelli di sindacalizzazione sono bassi le aspettative sono molto più alte. Nessuno si fida di nessuno. Chi subentra nella gestione aziendale è considerato uno che sottovaluta il contesto interno, un intruso, un pericolo. Chi, in questo caso, ha lasciato ed è “fuggito” in Francia, un traditore.

Resta il sindacato su cui caricare ansie, speranze e aspettative concrete. Quindi c’è sia la  sostanza del contendere che la sua rappresentazione sociale ed economica. Il sindacato per assumere il ruolo di interlocutore deve alzare i toni, compattare la propria base su parole d’ordine semplici, efficaci, unilaterali. L’obiettivo è serrare i ranghi, rafforzare la leadership di chi si appresta a negoziare, creare solidarietà nell’opinione pubblica. 

Dall’altra parte, quella aziendale, si alza un muro difensivo, si ribadiscono le proprie buone ragioni e i toni sono altrettanto duri. È la fase dell’incomunicabilità. La durata di questa fase, fino a qualche decennio fa, dipendeva dai rapporti di forza messi in campo in grado di sgretolare il muro difensivo aziendale.

Oggi non funziona più così per due ragioni. La prima è che i rapporti di forza hanno cambiato segno e quindi le aziende  si presentano al tavolo con la convinzione di aver già esplorato tutte le opzioni possibili. Il “perché e il “come” non sono quasi mai argomento di negoziato ma di comunicazione unilaterale. Resta il “quando” e il “quanto” su cui trattare.

La seconda è che quando c’è in gioco il futuro o il risanamento di un’impresa comprometterli con uno scontro prolungato comporterebbe al massimo una vittoria di Pirro. In questi momenti prevalgono quindi le prove muscolari, le sparate sui social, chi rappresenta i lavoratori tenta di mettere l’azienda di fronte alle sue contraddizioni, punta ad avere dalla propria parte istituzioni locali e opinione pubblica. Dell’avversario si propongono caricature, se ne enfatizzano le scorrettezze, spesso lo si mette al centro di oscuri quanto innominabili interessi in gioco per attirare su di sé la maggiore solidarietà possibile. Si cerca la massima visibilità. Ovviamente l’azienda si tutela affidandosi ad esperti dei media e alla loro capacità di veicolarne la posizione e le altrettante buone ragioni.

Tempo, questo, purtroppo sottratto al negoziato costruttivo, al rafforzamento dell’interlocuzione sociale, al convincersi reciprocamente dell’utilità di un percorso condiviso e responsabile che spesso provoca ulteriori danni collaterali che si riverberano su chi dovrebbe garantire soluzioni, posti di lavoro che è portato a defilarsi e a sottrarsi dagli  impegni concreti, ma parte fondamentale delle liturgie sindacali che ci trasciniamo dal 900.

La fase dell’incomunicabilità finisce quando le due parti cominciano a lanciarsi segnali di avvicinamento. Altro non è che la disponibilità a fare qualche modesto passo in avanti verso le ragioni dell’interlocutore. I negoziatori più esperti  lo percepiscono immediatamente. Questi segnali deboli aprono una seconda fase. Quella dell’esplorazione delle ragioni altrui.

Per il sindacato, a questo punto, l’obiettivo diventa ridurre il più possibile le conseguenze sui propri associati, per l’azienda discostarsi il meno possibile dai propri piani per non comprometterne la loro realizzabilità e dal budget relativo per non metterne in discussione la sostenibilità.

Da questo momento in avanti il negoziato inizia a cambiare di segno. Nessuna delle due parti ha interesse a  forzare la mano. È la fase dove “si prendono appunti” su ciò che dice l’interlocutore. Quella dell’ascolto. È la più delicata. Il linguaggio, l’atteggiamento, il rispetto dell’interlocutore, in questa fase, valgono quanto il contenuto delle eventuali concessioni. E le concessioni, modeste  o significative, iniziano ad essere reciproche.

È il momento dove le rigidità  iniziali, pur restando sempre sullo sfondo, perdono la loro centralità. I più attenti negoziatori si premurano di informarne la propria base, altri, sbagliando, sottovalutano il tempo necessario alle persone, soprattutto i loro quadri intermedi, a metabolizzare questi cambiamenti.  E quindi si sovrappongono due atteggiamenti un po’ schizofrenici di “lotta e di governo” che alimentano la confusione.

Questa fase si conclude inevitabilmente quando tutte le disponibilità sono finalmente sul tavolo. Poche o tante dipende dallo stato dell’azienda, dalla sua strategia e dai margini dentro i quali si muovono i suoi negoziatori.

Se quello che avviene nel contesto economico e sociale esterno induce all’ottimismo le richieste sindacali trovano terreno più fertile. Se, al contrario, non è così, prevalgono le preoccupazioni aziendali. In termini civilistici gli impegni sottoscritti  da obbligazione di risultato restano nel campo dell’obbligazione di mezzo. L’intesa non è meno importante. Sottolinea una volontà comune, un scommessa condivisa che fa da quadro generale nel quale i diversi strumenti trovano la loro collocazione.

Arrivati al punto di non ritorno chi si sottrae alla firma ha sempre torto. Si autoesclude dalla gestione. Perché delle due l’una. O si ha una proposta  praticabile alternativa e accettabile dalla controparte oppure si scappa dalle proprie responsabilità. Difficile comprenderne la ratio. Il negoziato a cui tutti i sindacati  hanno dato il proprio contributo nei contenuti, è concluso, i margini sono esauriti. Addirittura, nel caso Conad/Auchan, se ne è condiviso al Ministero il quadro e i numeri delle persone coinvolte.

Personalmente negli ultimi trent’anni non mi è mai capitato un caso analogo. Per questo penso che un rientro sulla gestione del piano dell’intero sindacato confederale sia ancora possibile. Oltreché auspicabile. Ad oggi, nonostante la clamorosa decisione “non sono volati gli stracci” tra le diverse confederazioni. Almeno formalmente. E questo è importante. 

Infine una considerazione. Le condizioni che si devono realizzare per garantirne il rispetto dei contenuti non piovono dal cielo. Sono frutto di un piano industriale. Il giudizio sulla consistenza e il valore di un accordo sindacale lo daranno solo la riuscita del piano aziendale che le risposte concrete sul piano occupazionale pur in un contesto economico meno favorevole a quello nel quale l’operazione è stata concepita.

Resta il giudizio positivo su chi ha condiviso il percorso. Il resto sono solo chiacchiere da social. 

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *