Contratti pubblici: è una reazione pavloviana?

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È comprensibile la reazione di Bernocchi e dei Cobas. Di fronte alle proposte del Governo la reazione “durissima” era pressoché scontata. L’estremismo nel pubblico impiego esprime da sempre una natura ideologica seppur slegata da una qualsivoglia pratica coerente. Dopo sei anni di mancato rinnovo dei contratti pubblici poter riguadagnare il centro della scena per questa o per altre formazioni del sindacalismo autonomo nazionale era ed è fondamentale ritrovare un nemico. Il loro agire è scontato. Provocano perfidamente e inevitabilmente gravi disagi alla popolazione e marciano urlanti in pittoreschi cortei dietro striscioni feroci con le solite caricature dei potenziali avversari. Niente di nuovo. Può cambiare il mondo intorno a loro ma la cosa non li riguarda. Siano essi in una scuola, in un ospedale o in un’amministrazione. Dopo la proposta del Governo che, senza dubbio, mette poco o nulla sul tavolo del rinnovo, non aspettavano altro. La liturgia è la solita. Abbiamo già avuto i primi assaggi di ciò che ci potrebbe aspettare. Ma qual’è il problema? È giusto o meno il blocco della contrattazione? Che cosa ha spinto il Governo a “provocare” i dipendenti pubblici con questa proposta? Qual’è lo scopo? Innanzitutto la Corte che ha sentenziato lo scorso giugno che il blocco dei rinnovi è “discriminante” rispetto ai lavoratori privati, “sproporzionato” per misura e durata e per giunta “irragionevole”. Tanto da violare le libertà sindacali. Fortunatamente per le casse del Paese non ne ha invocato la retroattività. Per questo, è solo per questo, il Governo ha introdotto, nella legge di stabilita, uno stanziamento di 300 milioni di euro. Pochi? Certamente si, se dovessimo limitarci a dividere l’importo totale per il numero degli addetti che auspicavano e auspicano un rinnovo ben più significativo. Pochi euro a testa. Quindi la polemica è giustificata? Io penso di no. Quello che mi lascia perplesso è l’atteggiamento del sindacato confederale. È indubbio che siamo di fronte alla necessità di un cambiamento epocale nella qualità, nella quantità e nella localizzazione delle risorse umane nella pubblica amministrazione. Così come è altrettanto scontata la necessità di dover impegnare risorse economiche sufficienti anche per introdurre criteri di merito nei confronti dei migliori che ci sono e che operano nei differenti comparti. Nel settore privato tutto ciò è avvenuto e sta avvenendo. Infatti si è operato pesantemente sul costo del lavoro complessivo, accelerando il turn over, concentrando e/o delocalizzando produzioni ma anche esternalizzando attività. Poi la crisi ha fatto il resto. Nella PA non si può agire allo stesso modo perché, gravità dei licenziamenti a parte, sarebbe comunque una partita di giro. Inutile e controproducente. Occorrerebbe, al contrario, lavorare all’interno di un progetto condiviso con le OOSS. Per questo mi sembra sbagliato l’approccio del sindacato confederale. Respingere al mittente la proposta e dichiarare lo sciopero generale mi sembra una reazione pavloviana. Ha senso? Non avrebbe più senso sfidare il Governo su un terreno serio di riforma complessiva della PA? E, in questo caso non sarebbe più utile, anziché dichiarare provocatoriamente insufficienti le risorse messe a disposizione proporre un percorso diverso? Per chiunque sia alla ricerca di come riannodare il filo del riformismo nel nostro Paese la riforma della PA è un passaggio obbligato. Non tanto per ribadire cose già dette quanto perché il cambiamento vero del Paese passa anche da qui. Nel settore privato il sindacato ha in parte saputo cogliere questa sfida e ha compiuto un tragitto importante. Nel settore pubblico dovrebbe fare molto di più liberandosi di quell’immagine corporativa, connivente e perdente. Siamo seri. Nessuno può pensare che il Governo, questo o altri che verranno in futuro, possano prendere allegramente in mano questa partita concedendo aumenti a pioggia per il solo fatto che è passato tanto tempo dall’ultimo rinnovo. Centinaia di migliaia di lavoratori nel privato e nei servizi guadagnano molto meno di sei anni fa dopo aver perso il lavoro e lo hanno ritrovato spesso ben diverso e meno qualificato. Pensare di poter tenere sul versante occupazionale e imporre contemporaneamente un aumento dei costi è improbabile. Ma cambiare rotta è difficile se ai propri iscritti si trasmettono parole d’ordine sbagliate. Così come lasciare il campo alle parole d’ordine dei Cobas che non creano cultura del cambiamento e senso del futuro. Io credo che tra i lavoratori della PA ci sia un grande senso di disorientamento e di preoccupazione ma il recente intervento sulla scuola ha dimostrato che la stragrande maggioranza vuole risposte possibili non proteste legittime quanto inutili. È vero, come ha recentemente affermato Susanna Camusso, che, per i media, sembrerebbe più importante ciò che avviene tra i custodi del Colosseo rispetto ai milioni di lavoratori ai quali manca il contratto. Non è un dato positivo però è un dato su cui riflettere.

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