Corpi intermedi, congressi e nuovi orizzonti da esplorare.

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L’interesse che suscita il prossimo congresso della CGIL credo sia dovuto non tanto al confronto interno sul futuro segretario ma sulla capacità o meno di quella organizzazione di traghettare fuori dal 900 fordista milioni di iscritti mantenendo la propria anima, i propri valori  e la propria capacità di mobilitazione su quei temi che mettono al centro la comunità intesa come antidoto all’individualismo, la speranza in un mondo inclusivo e solidale come antidoto al populismo e, infine, la capacità di non lasciare indietro nessuno in questa fase di transizione del lavoro che cambia e che manca, che impone a tutti un approccio diverso.

Dario Di Vico pone correttamente la questione ( http://bit.ly/2Esyk4y) guardando alla CGIL ma allargando la riflessione a tutti i corpi intermedi in un contesto di disintermediazione. Credo sia l’approccio corretto. Soprattutto per evitare l’errore di farsi trascinare nelle “beghe interne” come le descrive con la consueta ruvidezza lo stesso Di Vico.

Parto da una mia convinzione profonda. Il mondo nel quale le organizzazioni di rappresentanza mantengono peso e capacità di iniziativa sta profondamente mutando. Non solo per l’aggressività della politica e della sua volontà  disintemediatrice. Sta cambiando anche dal basso.

Le esigenze e le battaglie che le persone  affidavano convintamente alle proprie rappresentanze individuate per la corrispondenza ai propri valori o ai propri interessi non sono più le stesse del secolo scorso e, anche quando sembrano le stesse si sostanziano sempre più diversamente.

Guidare e non subire questi cambiamenti  profondi con concretezza, autorevolezza e lungimiranza è il primo antidoto ad un populismo che si è ormai insinuato come una talpa che continua a scavare le fragili strutture  portanti di organizzazioni che mostrano tutte, nessuna esclusa, gli inevitabili segni del tempo.

Spesso ripiegate su se stesse, impegnate più a mantenere ciò che è stato che a cogliere la sfida dell’innovazione, in perenne bulimia dialettica tesa più a valorizzare i confini del proprio campo da gioco che ad accorgersi che lo stesso è cambiato in profondità, dedite a riti e liturgie che hanno un grande valore interno ma poca incisività sulla realtà circostante.

Il balbettio che caratterizza questa fase dove alle preoccupazioni di ciò che potrebbe succedere nei prossimi mesi sul terreno economico e sociale a cui non segue praticamente nulla ne è la riprova evidente. E’ vero c’è un Paese spaventato dalla globalizzazione e dalle sue conseguenze che si è scrollato di dosso un sistema politico percepito come inutile, dannoso e non in grado di offrire vie di uscita credibili.

Ma il rischio che la crisi attraversi e colpisca con la stessa virulenza anche l’insieme dei corpi intermedi non è un’ipotesi così peregrina. I rimedi ci sono ma devono essere messi in campo guardando al futuro non al passato. E così se i nuovi contratti di lavoro non metteranno al centro la persona e le conseguenze dell’innovazione (quindi le nuove forme di collaborazione, la produttività, il lavoro, le tutele e welfare) se i linguaggi continueranno ad essere divisivi, se i modelli organizzativi continueranno a rispecchiare settori e comparti economici tradizionali che nelle filiere si  stanno scomponendo e rimettendo insieme diversamente, se alla “schiena dritta” che servirebbe con i teorici della decrescita felice si preferirà il silenzio accomodante, il destino purtroppo rischia di essere segnato.

Non è tanto un problema di possibilità di galleggiamento o di esistenza. Questa è sempre assicurata. E’ un problema di peso e di ruolo.

Per questo il punto vero non è se al congresso di gennaio della CGIL prevarrà Landini o Colla. O, all’ultimo momento comparirà un candidato che eviterà rotture perniciose. Saranno le scelte o le non scelte a indicare la direzione di marcia. Lì come altrove.

Alcuni amici del sindacato mi hanno chiesto cosa ho trovato nel secondo candidato che non mi ha convinto nel primo. Personalmente nulla. Non mi convincono entrambi. Mi è sembrata però esagerata la valutazione che Landini possa essere la cura e non, invece un segnale evidente della malattia che rischia di tenere inchiodato al passato il più grande sindacato italiano.

Resto però convinto che il congresso sarà un’occasione importante di confronto e di dibattito vero. Né la CGIL né le altre organizzazioni sindacali possono permettersi fughe dalla realtà.

E forse questo spingerà anche le associazioni della rappresentanza datoriale a riflettere e a guardare oltre il proprio orizzonte immediato. Ma questa è un’altra storia. 

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