E adesso?

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Con l’annuncio dell’accordo sul contratto della PA si chiude un’epoca. Non è un caso se in sequenza Artigiani, Confcommercio e presto Confindustria hanno concluso o concluderanno intese molto importanti sui livelli della contrattazione, sui suoi contenuti futuri e sulla rappresentanza.  Così come non è un caso la conclusione unitaria del CCNL dei metalmeccanici.

I contratti che restano capziosamente aperti sembrano un po’ assomigliare a quei soldati giapponesi che nonostante la guerra fosse conclusa continuavano a combattere contro un nemico immaginario.

Molti commentatori si domandano, a buon diritto, cosa possa essere successo, di così significativo, in questi pochi mesi, da contrapporre ad una politica estremamente litigiosa una relazione fattiva e positiva tra le parti sociali.

C’è chi lo fa risalire al referendum e alla precisa volontà del premier di rasserenare il Paese, c’è chi cerca di legarlo a traiettorie di carriera individuale di qualche sindacalista, chi, al contrario per ragioni più nobili.

Leon Battista Alberti ci ricorda che: “Per fare una discordia, vi bisogna due. A perseverare in concordia, basta che uno de’ due sia savio”.

Sarebbe però forse troppo semplicistico assegnare al nostro Presidente del Consiglio il merito della pace scoppiata dopo la fine ingloriosa della concertazione.

Anche perché non va dimenticato che lui stesso aveva ereditato una situazione di pesanti contraddizioni  e di profonde ferite tra le diverse organizzazioni sindacali sulle quali non si era certo risparmiato nel versare quantità industriali di sale senza cercare, e di questo gliene va dato atto,  di sfruttarne le divisioni. Ma tant’è.

Tra l’altro anche Susanna Camusso smentisce questa tesi e credo abbia ragione. Probabilmente si è diffusa una diversa consapevolezza. Per il momento solo tra i corpi intermedi. Purtroppo non ancora nel Paese sempre più occupato ad azzuffarsi con toni sopra le righe su ogni questione a cominciare dal referendum.

Il contratto dei metalmeccanici, da questo punto di vista, è stato paradigmatico.

Solo lì poteva avvenire il salto di qualità. Dove le contraddizioni tra innovazione e resistenze al cambiamento sembravano essere più forti, dove il vecchio modello sindacale e contrattuale aveva raggiunto, più che altrove, la sua maturità, dove le ferite anche sul piano personale erano più profonde. E dove entrambe le parti in causa dovevano dimostrare una capacità di governo autonomo e autorevole e la determinazione  di saper guardare solo in avanti.  E così è stato.

Adesso il timore è che quanto di peggiore alberghi nei corpi intermedi cerchi di riassorbire quanto è avvenuto di innovativo e costruttivo banalizzandolo o strumentalizzandolo.

Dunque il clima è diverso. C’è forse spazio per fare un ulteriore passo in avanti e sforzarsi di condividere soluzioni da offrire al Paese.

Gli aggettivi che in questi giorni si sprecano per descrivere ciò che sta avvenendo tenderebbero a far pensare che è un obiettivo possibile. Dal 5 dicembre questa lungimiranza, rispetto per il proprio interlocutore, volontà di condividere e di orientare positivamente il mondo del lavoro e dell’impresa sono “tanta roba” in un Paese in crisi di identità e di prospettive.

Cerchiamo di non disperdere questo patrimonio e questa determinazione anche perché se non vengono messi a disposizione del futuro del Paese rischiano di ribaltarsi contro a chi li ha voluti, costruiti e ottenuti non certo per sé o per soddisfare modeste ambizioni personali.

Chi vuole un Paese nuovo, diverso, positivo e costruttivo sa che dal 5 dicembre ci sarà molto da fare.

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