etica, dignità e senso del lavoro

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In tempi di Jobs act e di lotta alla disoccupazione è difficile affrontare il tema del senso del lavoro, della sua organizzazione e delle modalità della prestazione in modo nuovo, diverso dal passato. È un tema centrale. Se ne sono accorte, nel mondo, le aziende più avanzate che hanno capito quanto occorra cambiare e proporre idee nuove che partano da una diversa filosofia del lavoro, della sua organizzazione, dei luoghi dove si svolge e che sappia mettere al centro la persona. In altre parole un luogo dove provare anche ad essere sereni e, perché no, addirittura felici. È l’altra faccia, altrettanto importante, del welfare aziendale o della responsabilità sociale dell’impresa. È l’impresa che sa anche guardare dentro se stessa. È l’idea, sempre più diffusa, che, per le persone, soprattutto le più giovani, è importante trovare un significato al proprio agire non solo nelle relazioni private e nella comunità nella quale sono inseriti ma anche nell’ambiente professionale. I tedeschi utilizzano un termine molto preciso:”Eigenschaften” (qualità umane). Un termine che non viene proposto per inseguire le mode farlocche che, purtroppo, in alcune imprese hanno caratterizzato le politiche di gestione delle risorse umane ma che punta a mettere concretamente le persone al centro rendendo compatibili ad esse l’eccesso di visione a corto termine, l’utilizzo strumentale di alcuni modi di essere (ad esempio: declamare valori e non praticarli, motivare senza essere motivati, utilizzare stage in modo scorretto, ecc.) e un’attenzione ai costi fine a se stessa così come si è prodotto in questi anni. È sempre interessante notare come lo scambio più importante che si realizza tra collaboratore e azienda nulla ha a che fare con l’impianto giuslavoristico che lo sorregge. Passione, creatività o entusiasmo non sono mai compresi né presi in considerazione. Tre caratteristiche, oggi molto più determinanti di ieri, che fanno la differenza tra due persone, ne caratterizzano l’impegno, il profilo professionale e il rapporto con la propria attività e il contesto aziendale. In altri termini mentre è normato con un dettaglio a volte esasperante l’aspetto quantitativo, disciplinare e normativo del rapporto ciò che dovrebbe caratterizzare la qualità della prestazione è pretesa (o data per scontata) ma non compresa nello scambio. È un po’ come se, la qualità dell’impegno, fosse solo un problema etico del singolo collaboratore. E non che il lavoro è innanzitutto realizzazione personale e riconoscimento sociale quindi ben più di una semplice prestazione dietro corrispettivo economico. E quindi coinvolge anche l’impresa. Questo limite discende sicuramente dalla cultura tayloristica che ha permeato la stragrande maggioranza delle organizzazioni aziendali, il contesto economico, sociale e contrattuale e ha, di conseguenza, contribuito a costruire il rapporto di lavoro con regole, norme e schemi che rendono molto difficile la valorizzazione della qualità del lavoro e del contributo specifico del singolo. La grande poetessa Wislawa Szymborska nella sua poesia sulla banalità del CV ci ricorda cosa è sempre stato considerato:…”Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano….” Ma oggi tutto questo non è più sufficiente. Oggi si discute di nuove competenze, nuove forme di selezione e di gestione delle risorse umane, nuovi ambienti di lavoro. Tutto questo rimette prepotentemente al centro l’importanza della qualità vera del singolo lavoratore. Ritorna d’attualità il senso che ognuno assegna o meno al suo lavoro e quindi le organizzazioni devono essere sempre più in grado di produrre senso perché anche la produttività migliora se alle competenze e all’impegno richiesto a ciascuno, il singolo trova anche un significato a quello che sta facendo e quindi è disponibile ad aggiungere un suo contributo specifico. Anouk Grevin, nota sociologa francese, sottolinea come:”..purtroppo per i managers tradizionali contano i risultati e non la misura di quanto chi li ottiene mette di se stesso. L’impegno che i lavoratori offrono, nessuno lo vede e lo valorizza e ciò crea nei lavoratori senso di frustrazione e di malessere.”
Imboccare questa strada significa saper ridare al lavoro un significato più vero, riconoscendo non solo l’impegno personale ma anche ciò che va oltre la prestazione e il suo riconoscimento economico e normativo. Una sfida vera per il management nei prossimi anni.
Il successo delle organizzazioni più performanti passerà dalla consapevolezza che le risorse umane sono uniche e insostituibili se coinvolte e messe in condizione di dare il meglio di sé. Ma questo implica una capacità manageriale e delle organizzazioni di rimettersi in gioco e creare momenti veri di ascolto e di risposta ai problemi, alle proposte e alla richiesta di protagonismo dei propri collaboratori.

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