Fornero: Nell’estensione del sistema contributivo la soluzione del problema delle pensioni

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Articolo di Elsa Fornero pubblicato sul Sole 24 Ore il 19 agosto 2011

Come si può spiegare al ministro Bossi che l’intervento sulle pensioni non è soltanto una necessità, ma anche un’opportunità per il Paese? Come convincerlo che, bloccando tale intervento la Lega non ha «salvato i pensionati»?
Come spiegare a Bossi che la Lega ha intrapreso una strada che rischia di condannare il Paese, soprattutto attraverso un’ulteriore “punizione” inflitta alle generazioni giovani che ne rappresentano il futuro? Come chiarirgli che l’intervento giusto sul sistema previdenziale non è una nuova “riforma” (ne abbiamo già fatte anche troppe, senza mai realizzarle appieno), ma l’attuazione di ciò che in passato, in maniera condivisa da entrambe le parti politiche, era stato deciso per il futuro assetto delle pensioni, e cioè il metodo contributivo di calcolo delle pensioni?
Come convincerlo delle caratteristiche positive di tale metodo che, come ormai sanno pressoché tutti gli italiani, restituisce individualmente in forma di pensione l’insieme dei contributi (capitalizzati) versati da ogni lavoratore nel corso della sua vita lavorativa, senza oneri per i terzi, e con un ricco “premio” nel caso di posticipo del pensionamento?
Che l’intervento sulle pensioni sia anche un’opportunità per il paese (oltre che una misura di risanamento dei conti pubblici) dipende proprio dalla natura della crisi attuale. Crisi come questa non si risolvono rigirando le solite frittate (un po’ di restrizione qua, un taglio là), bensì introducendo nuovi meccanismi, ossia innovando, se non altro nel metodo, le soluzioni date ai vari problemi. L’entità della manovra ovviamente conta, ma conta soprattutto la sua qualità, e una cattiva qualità si paga con un inasprimento della quantità di restrizione necessaria, come l’esperienza di queste settimane insegna.
La crisi attuale non richiede soltanto un aggiustamento del bilancio pubblico (e meno che mai un aggiustamento effettuato soltanto dal lato dell’entrata, cioè della tassazione), ma esige qualche discontinuità rispetto alle scelte attendiste e non risolutive del passato. La riforma pensionistica del 1995 che ha introdotto il metodo contributivo era, nel merito, una risposta all’altezza della situazione di insostenibilità del nostro sistema pensionistico. Nel metodo, tuttavia, essa peccò di mancanza di coraggio, cercando (proprio come oggi vuol fare il ministro Bossi) di salvaguardare i “diritti acquisiti” delle generazioni vicine alla pensione. Il coraggio che mancò allora sarebbe prezioso oggi: non più rinvii, non più ritardi, ma applicazione immediata, a partire dal primo gennaio 2012, e generalizzata per le anzianità future (anche se di un solo anno) del metodo contributivo, con pensionamento a partire dall’età di 63 anni. Sulle eccezioni per i lavoratori meno fortunati, ma non, viceversa, per quelli privilegiati, si potrà discutere una volta accettato di dare compimento alla riforma.
L’opportunità sta in questo: mentre si interpretano solitamente in chiave restrittiva – di taglio di benefici o di diritti – gli interventi sulle pensioni, l’applicazione del metodo contributivo restituisce flessibilità alle persone nella scelta del pensionamento, premiandole in misura adeguata se decidono di continuare l’attività. Non è infatti dall’accorpamento di alcune festività che si ottiene aumento duraturo e significativo del Pil, bensì dal maggior lavoro di tutti, e dalla eliminazione di quell’ingiusta tassa che oggi, con le pensioni di anzianità, spinge i lavoratori a uscire dal mercato del lavoro non appena raggiunti i requisiti minimi.
L’aumento dell’età di pensionamento è una “tassa” per il lavoratore nell’attuale sistema retributivo di calcolo della pensione, in quanto riduce l’ammontare complessivo di “ricchezza pensionistica” accumulata dal lavoratore. Non lo è invece nel sistema contributivo nel quale i coefficienti di trasformazione (quei numeri che, per esempio nella fascia 63-68 anni di età, convertono in pensione il capitale rappresentato dai contributi di tutta la vita lavorativa) sono calcolati in modo da aumentargli la pensione futura, un aumento che lo ripaga non soltanto dei maggiori contributi versati nell’anno addizionale di lavoro, ma soprattutto dell’anno di pensione persa continuando a lavorare.
L’allungamento della vita implica maggiori accantonamenti ed è necessario lavorare di più per accumularli; con l’attuale pensionamento di anzianità e l’attuale pensione retributiva il lavoratore è scoraggiato dal farlo, mentre con il pensionamento flessibile collegato al metodo contributivo l’allungamento della vita lavorativa non comporta più una “tassa”, ma un premio per la minore longevità attesa.
Salvaguardare le pensioni di anzianità, o la più bassa età di pensionamento delle donne nel settore privato, non equivale perciò a salvare i (quasi) pensionati ma implica , al contrario, penalizzare i giovani, sui quali la crisi sta scaricando i maggiori effetti e sui quali i pensionati “salvati” graveranno per più anni. È sicuro il ministro Bossi che i lavoratori siano contenti di questa situazione? Non ha mai incontrato lavoratori consci di questo conflitto generazionale o che semplicemente gli chiedevano di poter lavorare di più, in vista di una pensione maggiore anziché essere dismessi in età ancora relativamente giovane con una pensione più risicata?

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