GDO tra aste al ribasso, lavoro festivo e immagine pubblica

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Adesso il tema è quello delle aste al ribasso praticato da alcune aziende della GDO ma addebitato a tutte. La ormai famosa passata di pomodoro a 31,5 centesimi con l’immagine che passa in TV dei raccoglitori ridotti in schiavitù dai caporali nei campi del sud e da gravissimi fatti di cronaca. 

Prima era quello del lavoro festivo, prima ancora del lavoro povero e precario. Non è la prima volta che insisto su questo punto. La Grande Distribuzione Organizzata ha un serio problema di immagine complessiva negativa a cui non riescono a sottrarsi neppure le imprese migliori.

Personalmente ho una grande stima per chi guida le aziende nel comparto che cercano di smarcarsi dall’essere considerate “grigie come tutti i gatti, di notte”. Però purtroppo è così e la ragione è molto semplice.

Non esiste nessun comparto economico in esasperata competizione al suo interno che si è caratterizzato nel tempo in quanto tale. Dalla più grande impresa industriale al più modesto esercizio commerciale sotto casa, da importanti settori economici come agricoltura, turismo, logistica nessuna azienda che vi opera ha mai sentito la necessità di mimetizzarsi dietro la sigla di un settore rinunciando in modo così evidente alla specificità di insegna.

L’unico comparto che lo ha sempre fatto con una puntigliosità esasperata è, appunto, la Grande Distribuzione. Fin dai tempi della presenza turbolenta in Confcommercio poi proseguita nell’avventura solitaria di Federdistribuzione, le aziende principali che muovono con apparente maestria i fili della loro federazione hanno pensato di poter sfruttare la massa critica generata dall’adesione associativa per poter muoversi con maggiore scioltezza individualmente. Le multinazionali, soprattutto francesi, perché non amavano essere percepite come tali, i top player nazionali del settore per avere maggiormente sotto controllo la situazione dei concorrenti.

Questa scelta oggi sconta l’effetto boomerang.

Per ironia della sorte l’espansione del settore è avvenuta sotto l’ala protettiva di Confcommercio che pur difendendo i piccoli esercizi ha sempre avuto nel suo DNA il principio del pluralismo distributivo.

Ricordo una simpatica lettera al Presidente di Confcommercio Carlo Sangalli da parte di Bernardo Caprotti patron di Esselunga in cui quest’ultimo ringraziava ironicamente Confcommercio per averlo tenuto impegnato e contrastato quotidianamente in Italia perché questo lo aveva messo in condizione di non cedere alle tentazioni di provare ad andare all’estero.

L’espansione non è avvenuta per capacità intrinseca o per qualità della singola insegna ma grazie a due  fattori determinanti. La fragilità di molte amministrazioni locali poco attrezzate a guardare lontano e sensibili agli oneri di urbanizzazione e alle assunzioni dei residenti e la possibilità, per quanto riguarda il lavoro, di poter contare su di un impianto e una cultura  sindacale e contrattuale costruito sui piccoli esercizi commerciali da Confcommercio. Cioè improntato a costi inferiori ad altri comparti economici e alla massima flessibilità possibile.

Questa cultura sommata agli indubbi  benefici che il sistema metteva a disposizione dei sindacati di categoria ha prodotto una contrattazione aziendale di basso livello costruita esclusivamente sul “comprare” la flessibilità individuale a scapito di una crescita delle persone nell’organizzazione. Una sorta di taylorismo in salsa commerciale che privilegiava, ad esempio, il numero di pezzi passati dalla cassiera alla cassa rispetto al rapporto con il consumatore.

Da qui il fatto che servizio e rapporto con il cliente non sono stati ritenuti fondamentali per anni. Così come l’innovazione e il marketing che in questo comparto non hanno avuto grandi estimatori. L’esasperazione sulle promozioni, la pressione sui fornitori e sul costo del lavoro hanno poi chiuso il cerchio e rappresentato una vera e propria ossessione che ha lasciato morti, rancori e malcontento dietro di sé. 

L’inversione di rotta non è stata semplice. Però c’è stata. Soprattutto in molte realtà. C’è stata nella qualità del rapporto con i fornitori, nella formazione del personale, nell’offerta e nel servizio al cliente. Non con i sindacati con i quali permane una situazione di inadempienza contrattuale.

Solo che sconta un passato difficile da dimenticare e una immagine negativa che permane radicata nell’opinione pubblica. Pur cambiata molto negli ultimi anni la GDO resta chiusa in una dimensione associativa insufficiente.

Di fronte ad una profonda modificazione dell’offerta e alla comparsa dei grandi player della logistica commerciale continua a difendere le sue prerogative come fosse a Fort Alamo anziché sviluppare alleanze salvo rari casi dove però sembra più un problema di immagine che di sostanza.

Mi vien da dire, sommessamente,  che è più facile che abbia compreso il grande salto culturale necessario un’azienda come Amazon o altre che si avvicinano a Confcommercio ragionando insieme sul futuro dei rispettivi  comparti, quindi immaginando contesti organizzativi più ampi  e innovativi, che la GDO prenda atto dell’errore compiuto nel tentare di costruirsi un perimetro ormai indifendibile e afono rispetto ai grandi temi che la attraversano.

Oggi ciò che avviene in una specifica azienda, purtroppo,  è sinonimo di comparto. Quindi di Grande Distribuzione. Il Ministro Luigi di Maio alla trasmissione “all’Aria che tira estate” ha sostenuto:” il Decreto Dignità serve per chi lavora nei Centri Commerciali dal lunedì alla domenica o in grandi multinazionali che dice o me li fai sfruttare i tuoi figli o ce ne andiamo all’estero… non c’è che dire detto da un importante rappresentante del Governo.

”Mala tempora currunt sed peiora parantur” (Stanno passando brutti tempi, ma se ne preparano di peggiori). 

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