GKN. Un caso isolato o un segnale di possibile crisi delle relazioni industriali?

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Quasi tutte le operazioni collegate alle chiusure di attività o grandi ristrutturazioni/riorganizzazioni portano con sé rischi e conseguenze che spesso finiscono nelle aule dei tribunali. Rivendicazioni individuali, situazioni specifiche legate alla gestione della procedura, mancati ripescaggi ritenuti possibili. Di solito si concludono con singole reintegrazioni o indennizzi economici.

Rappresentano gli effetti collaterali di operazioni traumatiche come lo sono sempre  i licenziamenti collettivi. L’avvio della procedura prevista, i settantacinque giorni che normalmente la scandiscono, i tentativi di conciliazione, la solidarietà di politici e istituzioni locali, le tende e gli striscioni, l’intervento del MISE compongono un rito collettivo sempre uguale a sé stesso. Una liturgia cruda, dolorosa e sempre inaccettabile  per chi la subisce, indipendentemente dalla condizioni nelle quali versa l’azienda che la promuove, officiata dai sindacalisti coinvolti che devono gestire speranze e delusioni di piccole comunità di persone in carne e ossa fino alla chiusura del sito.

Le aziende chiudono per varie ragioni. Per fine attività, per errori di gestione, per concentrarsi. Oppure per crescere altrove. Spesso chiudono uno o più  siti per evitare conseguenze peggiori.  Molti anni fa mi capitò di partecipare alla chiusura di  una piccola fabbrica a Mantova che era la più produttiva del gruppo di cui faceva parte  per concentrare le produzioni a Pavia in una realtà molto più grande ma sottoutilizzata. L’azienda nel suo complesso andava bene, non era affatto in crisi e questo rendeva incomprensibile l’operazione per chi la stava subendo. Riuscimmo però a favorire la reindustrializzazione del sito consentendo una prospettiva occupazionale ma lo sconcerto del contesto sociale ed economico e la reazione sindacale durante la procedura fu molto forte.

Più le operazioni di ristrutturazione o chiusura sono  consistenti sul piano delle conseguenze occupazionali e meno sono legate a ragioni obiettive di economicità del sito più sono complesse nella loro gestione politica e sociale.

La sottovalutazione del contesto, eventuali forzature procedurali, la convinzione che tempi e modalità di attuazione possano essere gestite senza grandi conseguenze e rappresentare scorciatoie praticabili fanno la differenza tra chi è incaricato della gestione dell’operazione. Esperienza e professionalità da mettere in campo sono altra cosa rispetto all’interpretazione capziosa del diritto.

Dovrebbe sempre prevalere la capacità di lettura  corretta del contesto, delle conseguenze e degli impatti economici e di immagine che ne derivano all’azienda soprattutto se è quotata o se non è stata messa al corrente di tutti gli elementi necessari propedeutici alla scelta di una strategia di chiusura piuttosto che un’altra. 

Nel caso GKN la sentenza del tribunale di Firenze non cambia la sostanza né risolve alcunché sul piano del merito. L’annullamento della procedura provoca “solo” la necessità di ripartire da zero come se la procedura non fosse mai stata aperta fatto salvo la possibilità per l’azienda di ricorrere contro la sentenza. Questo fornisce altro tempo a chi lavora per una soluzione di possibile reindustrializzazione.

GKN non cambierà idea. La chiusura del sito non credo sia negoziabile. Chiederà certamente conto a chi le ha suggerito questa spregiudicata impostazione della vertenza ma abbozzerà cercando di capirne i nuovi tempi e i costi che ne deriveranno.

La Politica, quella che oggi è intervenuta plaudendo alla sentenza della magistratura dovrebbe quantomeno dimostrare di essere all’altezza del proprio ruolo proponendo possibili vie d’uscita che non siano il mero  ricorso agli ammortizzatori sociali accompagnate da generiche grida manzoniane  sulle multinazionali. Comprese quelle che non c’entrano nulla con i fatti contestati.

Anche perché la vicenda dimostra che l’assenza di politiche attive brucia rapidamente i tempi previsti dalla procedura e non sarà certo questa sentenza a far riaprire la fabbrica.

Resta una riflessione importante che ha lanciato Francesco Seghezzi su Twitter. Le relazioni industriali sono un elemento importante nella gestione di queste rilevanti partite sociali. La loro assenza, il loro aggiramento o la loro sottovalutazione  produce sempre effetti collaterali negativi nell’immediato o nel tempo che non vanno banalizzati. La mancanza di strumenti idonei a gestire questi passaggi porta inevitabilmente a forzature la cui ricomposizione è sempre molto più costosa e pesante dell’averla prevista e gestita  preventivamente.

È giusto, a mio parere, sottolinearlo oggi quando l’euforia causata dalla sentenza e il plauso della politica rischiano di far sottovalutare che il merito della questione resta invariato e le conseguenze pure. Siamo tutti convinti che vada evitato il farwest come ha sottolineato il ministro Giorgetti ma il sistema senza correttivi sostanziali e strumenti nuovi funziona grossomodo sempre così.

A volte la magistratura sembra sussidiare l’azione sindacale riaprendo  spazi temporali ma affidarsi al giudice non è mai una buona soluzione nelle dinamiche sindacali. La novità su cui riflettere, a mio parere, è che però il clima sociale sta cambiando. Non credo a rievocazioni di stagioni passate ma il populismo messo in crisi dalla pandemia e dalle sue risposte richieste alle istituzioni nazionali e sovranazionali ma anche all’insieme della collettività rischia di trovare nuove espressioni sociali causate dalla esclusione di intere categorie vecchie e nuove dalla qualità e dalle opportunità della ripresa.

Chi è dentro il sistema e chi punta ad entrarci non vede e non sente le ragioni di chi ne è fuori o ha paura di essere escluso. Qui sta il punto vero. Ed è su questo che andrebbe posta una grande attenzione. 

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