Grande distribuzione. Coop Lombardia costretta alla disdetta del contratto integrativo aziendale…

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La prima disdetta di un contratto integrativo aziendale nella Grande Distribuzione è datata 2004. Ricordo ancora i partecipanti a quella riunione che avvenne presso lo studio dell’Avv. Fernando Pepe professionista scelto proprio per la sua grande capacità di approfondimento e di proposta  su temi particolarmente innovativi in materia di lavoro.

Billa aveva da poco acquisito Standa Commerciale. I fatturati erano in pesante caduta, il costo del lavoro e l’assenteismo  viaggiavano a livelli insostenibili. Avevamo provato a sottoporre al sindacato nazionale di categoria il problema ma tutte le (poche) disponibilità individuate non fornivano riposte adeguate alla situazione.

Da Colonia  e da Vienna (sedi della casa madre di Rewe) spingevano per tagliare l’organico e riportare i conti in ordine. Dall’altra parte il management italiano, preoccupato per il livello di servizio già al limite, chiedeva, in via prioritaria, di esplorare altre soluzioni. Fu un parto complesso. Soprattutto perché avrebbe messo inevitabilmente  in discussione una prassi consolidata nelle dinamiche negoziali di quella che era stata la Standa. Dalla Montedison fino alla casa degli italiani di Berlusconi: l’accordo ricercato e trovato sempre e comunque con il sindacato di categoria.

Appena arrivato in Standa  io stesso avevo puntato decisamente ad una soluzione concordata che andasse in quella direzione. Tempo sprecato. Le intese raggiunte a livello nazionale furono contestate e disattese in numerose realtà territoriali dove la vecchia cultura sindacale Standa era ancora prevalente nonostante il rischio di finire con i libri in tribunale. L’allora segretaria nazionale della FILCAMS CGIL fu contestata pesantemente in alcuni PDV.

Una decisione, quella della disdetta,  difficile da prendere. Saremmo stati soli con rischi evidenti sulla tenuta complessiva dell’azienda. La prendemmo in tre. Il direttore generale Francesco Rivolta (un amico ma anche uno dei manager con cui ho lavorato meglio nella mia carriera professionale), il sottoscritto e il nostro avvocato Fernando Pepe. Trovammo la soluzione individuando in un contratto subregionale fatto in Billa tre anni prima e appena rinnovato, il potenziale sostituto. Quello sarebbe stato il nuovo CIA. Spiegammo rischi e opportunità al quartier generale e ottenemmo il via libera.

Concordammo con Colonia  un ultimo tentativo negoziale convocando  i sindacati e proponendo loro una profonda rivisitazione del CIA in alternativa alla sua disdetta definitiva. Le organizzazioni sindacali credettero ad una mossa tattica e respinsero sdegnosamente  l’offerta. A quel punto annunciammo la disdetta che sarebbe dovuto decorrere concretamente dopo sei mesi. Ritornati in sede partirono le raccomandate. Il dado era tratto.

L’azienda entrava in un’altra fase. Riunimmo tutti i manager e i responsabili di punto vendita e spiegammo le nostre ragioni e le possibili conseguenze. Soprattutto perché chi avevamo di fronte avrebbe subito lo stesso trattamento con una riduzione significativa della retribuzione. Una situazione non facile. Furono sei mesi di tensione crescente.

Alla prima busta paga decurtata dopo la scadenza fu proclamato uno sciopero. La partecipazione fu però irrilevante. Le stragrande maggioranza delle persone aveva capito che l’operazione mirava ad evitare ulteriori tagli occupazionali. Il sindacato si trovò isolato. Da quel momento Standa, ormai diventata Billa, adottò il più modesto ma preformante   CIA di quest’ultima. Ci furono poche decine di cause legali su seimila lavoratori. Alla fine la Cassazione ci dette definitivamente regione.

Fu un’operazione che creò agitazione in tutta la GDO. Alcuni la imitarono in seguito, altri la criticarono. Auchan fu tra questi ultimi. La loro direzione risorse umane di allora era un concentrato di etnocentrismo esasperato. Fu l’inizio della caduta libera della contrattazione aziendale nell’intero settore. Oggi ormai inesistente o quasi salvo in aziende in forte affermazione.

Il sindacato di fonte alla crisi del settore che cominciava a far selezione di insegne e di PDV mostrava la sua difficoltà ad andare oltre ad una cultura consolidata di semplice accompagnamento delle situazioni di crescita o di declino. Scelse un ruolo passivo limitandosi a subire le esigenze delle imprese o tentando di rallentarne gli effetti. La sua evidente marginalizzazione nei processi di ristrutturazione che si sono via via susseguiti nasce tutta da lì. Dal non riuscire a ragionare in termini di settore, di soluzioni possibili laddove se ne dovessero creare  le condizioni e di vasi comunicanti.

La vera intuizione di cui va dato atto al sindacato è stata la sottoscrizione del famoso articolo 24 del CCNL della GDO sulle situazioni di crisi. Già presente anche in quello di Confcommercio. Ma tutto si è purtroppo fermato lì.  Seguendo la semplice logica dell’insegna si cresce o si cala però nello stesso silos. Ma la GDO ha un andamento ciclico nell’insegna diverso da quella del settore. Che spesso continua a crescere in un altri punti del comparto.

Da qui l’unica idea vincente è quella di attivare una logica di politiche attive collegate alla bilateralità che fornirebbe ben altre risposte all’occupazione e riaffermerebbe ruoli ben più incisivi per l’insieme delle organizzazioni di rappresentanza. La soluzione è quindi nel comparto. Non azienda per azienda.

Quindici anni dopo sembra di  ritornare al via in Coop Lombardia (http://bit.ly/2NmXuDB). Stessi problemi e identiche reazioni. Solo che dall’altra parte non c’è la multinazionale cattiva ma una realtà che se è arrivata a queste determinazioni su costo del lavoro e assenteismo nel 2020 significa che avrà già esplorato in lungo e in largo tutte le soluzioni possibili insieme al sindacato interno ed esterno e messo in campo ogni sforzo possibile.

Mi sembra un déjà vu con quindici anni di ritardo. Probabilmente l’intento dell’azienda è solo quello di spingere ad  un confronto serrato sui temi veri ma, se così fosse, il dover ricorrere ad una decisione così forte per costringere tutte le parti in causa a riflettere sulle soluzioni possibili significa che i tempi e la cultura sottostante non sono ancora cambiati più di tanto. O non per tutti gli interlocutori sindacali. E questo è il vero tema su cui riflettere. 

 

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