Grande Distribuzione e media. La ragione della scarsa visibilità

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La vicenda Conad/Auchan ha portato in superficie la vexata questio della scarsa visibilità di tutto ciò che riguarda la Grande Distribuzione sui media, soprattutto nazionali.

La sollecitazione di Luigi Rubinelli, un guru della comunicazione di settore che rispetto molto,  mi ha stimolato a riflettere.  È vero la GDO nel suo complesso  è un nano dal punto di vista politico e della comunicazione. È un comparto che non è mai riuscito a trasmettere all’esterno una identità comune.

La stessa Federdistribuzione ci ha provato per anni  ma alla fine ha dovuto ripiegare su un più gestibile “minimo comun denominatore”. Niente di più. Troppi personalismi e troppi interessi in conflitto tra le diverse aziende da gestire. Forse potrà cambiare qualcosa in un futuro prossimo  con tutti i “grandi vecchi”, protagonisti del successo del comparto e a cui comunque si deve l’imponente fase di crescita, ormai praticamente a fine corsa.

Non dimentichiamo che buona parte della crescita del passato si è concretizzata più per capacità di relazione con le istituzioni locali che per creatività o innovazione  commerciale dell’insegna in sé. La stessa vicenda che ha coinvolto recentemente i vertici di un’azienda varesina dimostrano che certe pratiche sono tutt’altro che archiviate.

Aggiungo che la stessa Federdistribuzione ha dovuto concordare con Confcommercio una posizione più morbida sulle chiusure domenicali perché non in grado di tenere il punto da sola costretta a cedere l’intransigenza sul tema   a Confimprese e quindi a Confindustria. 

Questo è un comparto spesso  noto all’esterno più per i suoi punti deboli che per i sui suoi punti forti che sono gelosamente custoditi e alimentati nelle singole imprese o gruppi e poco condivisi a livello associativo.  Basterebbe solo ricordare che ad esempio la problematica dello sfruttamento del lavoro in agricoltura viene posta ingiustamente  sulle spalle dell’intera GDO che fatica a difendersi presso l’opinione pubblica perché vive contraddizioni evidenti all’interno del comparto.

Aggiungo che nessuna tra le nostre aziende principali (ovviamente escluse le multinazionali) ha un profilo internazionale. FICO e il suo proprietario Oscar Farinetti sono visti quasi come invasori di campo come trent’anni fa Barilla, proveniente dai pastai, veniva percepita nel comparto dei prodotti da forno. Così come il rapporto con i giganti della rete che  è spesso contraddittorio.

La stragrande maggioranza sono piccole o medie aziende che non riescono a crescere e che si limitano a presidiare un territorio. Indubbiamente  alcune come Conad o come Vegè  lo fanno egregiamente sapendo mettere a fattor comune i loro punti di forza.  Le concentrazioni societarie però sono fondamentali per crescere. Restano comunque complesse da realizzare  e l’innovazione tecnologica non è, di fatto, ancora decollata. 

Certo ci sono tanti ottimi manager tra i circa 700 dirigenti della GDO italiana ma faticano ad affermarsi fuori dal settore. Spesso la loro carriera  si svolge tra le diverse insegne  e quindi sono poco valutati dai maggiori head hunter del Paese. Questa mancanza di visibilità  fuori dal settore si nota.

Non dimentichiamo poi  la querelle sul lavoro povero e sul part time involontario che oscura gli ingenti investimenti in formazione e le prospettive di carriera offerti nella GDO più che altrove al middle management e le opportunità di lavoro per giovani e donne. Così, per i media,  prevale, nella migliore delle ipotesi,  la forza dell’insegna sulle capacità del manager che la guida o addirittura sul comparto di appartenenza.

Se le multinazionali se ne vanno prima dal sud e poi magari dal Paese non è così ritenuto rilevante. Altri comunque presidieranno il territorio.  Se le insegne chiudono o cambiano sigla non importa a nessuno. Così come se in questi passaggi centinaia di persone restano a terra. La GDO  non può delocalizzare quindi non fa notizia. Però si sottovaluta che quella estera rilocalizza investendo in altri Paesi. 

L’operazione Auchan/Conad va letta anche con queste lenti. Francesco Pugliese rappresenta  un’eccezione. Stimato anche all’esterno del comparto è uno dei pochi manager noto almeno quanto l’insegna che rappresenta  alla quale  ha imposto un riorientamento profondo e non solo di immagine. E questo conta. Con questa operazione si è assunto una responsabilità enorme che però  ha saputo condividere con i  leader delle sei cooperative.

Nell’Italia del Gattopardo e in un settore un po’ provinciale  questo crea invidie e gelosie. Fuori apprezzamento che non si smonta con le punture di spillo sul claim. Auchan, quella che se ne è andata,  aveva inaugurato da poco il suo: “Auchan et la vie change”. Ironico o macabro, lascio il giudizio a chi legge, per i suoi diciottomila dipendenti italiani.. Io stesso ho gestito diverse ristrutturazioni in Galbani dove “Galbani vuol dire fiducia” era accompagnato sulle magliette da “Danone vuol dire disoccupazione”. Difficile sfuggire alle strumentalizzazioni. 

Conad con i “suoi” lavoratori è sempre coerente. Con quelli oggetto di questa operazione non ancora. Io però aspetterei la fine per giudicare. Sui punti critici (a cominciare dalle sedi) avrei certamente puntato su un maggiore coinvolgimento delle persone che non è stato fatto. Così come non trovo corretto cercare fuori professionalità che potrebbero trovarsi  in BDC. Però capisco che la sostanza (la fine comunque certa del rapporto di lavoro) non può essere sostituita esclusivamente dalla forma.  

Per i “giornaloni” al contrario,  i claim pubblicitari sono semplici operazioni di marketing come per tutti gli altri settori. Non è su quello che si giudicano i comportamenti sociali. Se per Conad sarà comunque ritenuto importante  sarà essa stessa a doverne valutare le conseguenze.

Il punto che sfugge a chi è coinvolto direttamente ma non a chi osserva da fuori è che Conad è fondamentale per la soluzione dell’operazione in corso e per il contributo all’occupazione collegata. La maggioranza dei lavoratori entreranno nei suoi PDV mentre altri sono destinati ad insegne diverse sempre però tramite l’intermediazione di BDC. Può non piacere ma è così. Il problema vero alla fine riguarderà concretamente le sedi e alcuni IPER (i famosi 3105 esuberi) non i diciottomila iniziali o i 6197 dichiarati che comprendono situazioni già potenzialmente individuate anche se non ancora certificate dal sindacato. E anche su questo c’è una strumentalizzazione evidente. Almeno fino a prova contraria.

Sono sempre tante persone e vanno gestite ma questo non ha ancora determinato costi a carico della collettività né conseguenze concrete. Da qui la cautela dei media. Anche dopo il pronunciamento dell’autorità garante della concorrenza. 

Fuori dal comparto ci si aspetta la nascita  di una grande azienda italiana sulle ceneri della sconfitta di Auchan, una gestione sociale delle conseguenze inevitabili difficile ma attenta e un accordo sindacale che lo certifichi. Certo non è facile per le persone coinvolte che  si aspettano soluzioni concrete e in tempi ragionevolmente rapidi. Purtroppo non sarà così e le contraddizioni saranno all’ordine del giorno. Soprattutto se dovesse prevalere una pura logica speculativa con cui le complesse operazioni di M&A devono comunque sempre fare i conti.

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3 risposte a “Grande Distribuzione e media. La ragione della scarsa visibilità”

  1. Mario, avrei una domanda circa il ruolo del sindacato per arrivare all’utopia cifra di zero esuberi.
    Come ho consigliato in un tweet, nel nuovo Conad ci sono e ci saranno opportunità di figure professionali che non siano macellai, cassiere o capi settore ortofrutta.
    Se non ci pensano Ancd con Imolesi e PWC con Baroni, potrebbero essere Dell’Orefice e Marroni a proporlo con forza.
    Altra domanda. L’eventuale partecipazione alle trattative da parte dei segretari nazionali come Landini e Furlan potrebbe essere favorevolmente accolta dalle parti in campo?
    Grazie.

    1. Credo che il sindacato debba insistere assolutamente su questa proposta e modificare la posizione aziendale che è sbagliata. Sulla delegazione è il sindacato che deve decidere la sua composizione. Il problema non è a mio parere chi grida di più o il livello di chi tratta. È la volontà di trovare un punto di incontro. Se non c’è, non lo troverebbero neanche altri sindacalisti. Non conosco personalmente il segretario della Fisascat e della Filcams. Conosco però Marroni da anni, non condivido quasi mai il suo pensiero ma lo stimo come persona. È un sindacalista ostico, difficile, esperto della materia e a volte pure antipatico. Quindi va benissimo.

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