Il calabrone non potrebbe volare, ma lo fa

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Sale l’angoscia di futuro. Per le famiglie e per la gente comune, se l’andamento dello spread, la bomba ad orologeria dei derivati, la perversione degli speculatori di Wall Street sono minacce serie ma lontane, non lo sono la perdita del lavoro, le riduzioni di reddito, l’innalzamento dell’inflazione. Sono misuratori ormai domestici, con i quali fanno i conti tutti i giorni. L’incertezza è dominante, quasi paralizzante. La politica mostra sia limiti d’impotenza reattiva, verso l’aggressività della finanza e sia una incapacità di pensare in grande. Che non vuol dire fare fughe in avanti, ma convinzione che non saranno mai i pannicelli caldi a tirarci fuori dai guai di questa crisi.

Una cosa è certa; dobbiamo farcela ad uscire dalla morsa della recessione. E lo dobbiamo fare soprattutto con le nostre forze. Non ci sarà un angelo benefattore che ci toglierà le castagne dal fuoco. Molti sostengono che c’è poco da fare; “ci deve salvare l’Europa”. A parte il fatto che, visto l’attuale stato dell’Unione, una frase del genere è equivalente a “spera in Dio” (esigenza irrinunciabile, almeno per chi crede), ma non è affatto condivisibile. L’Europa deve fare la sua parte e possibilmente rilanciandosi come prospettiva istituzionalmente unitaria, perché soltanto così si potranno avere gli eurobond per la crescita, una flessibilità nella gestione del fiscal compact, finanche una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali. Ma è in Italia, che va ricostruita la fiducia verso il futuro.
Ancora una volta, la questione non è là (in Europa); il “laismo” è una malattia che prende chi non ha voglia di decidere del proprio destino, che inquina il linguaggio di classi dirigenti infiacchite, che impedisce di osare. Questa malattia si isola e si guarisce soltanto se gli italiani decidono di non delegare, se si ridà fiato al policentrismo culturale, economico e sociale di questo Paese, se si investe sulla serietà della gente, sul merito come criterio di valutazione, sulla solidarietà in quanto valore di coesione. Tutto concorre a credere che ciò sia, se non impossibile, almeno improbabile. Può darsi, ma il problema non si sposta di una virgola.  Per cui, nonostante le difficoltà, bisogna battere questa strada di irrobustimento delle speranze.
La cultura, l’educazione, la formazione, in tutte le loro sfaccettature ed espressioni, sono uno dei pilastri fondamentali su cui puntare per dare senso alla fiducia. Bisogna andare in contro tendenza, perché al di là delle restrizioni di ogni tipo che hanno subito tutte le strutture che ad esse si dedicano, è l’idea stessa del sapere che è stata svalutata in questi anni. Meglio essere informati sui gossip che sull’informatica; meglio partecipare a X Factor che studiare musica; meglio indebitarsi per le vacanze esotiche che per andare all’università. Anni di spensieratezza, di illusione che si potesse guadagnare con facilità e senza sudare, di primato dell’apparire su quello dell’essere. La crisi ha spazzato via queste false credenze e sta facendo pulizia anche dei suoi profeti. La sua durezza ha agevolato la risalita del valore del sapere. Ora si tratta di agire con coerenza per imporre una vera e propria economia dell’educazione.
“Educare, educare, educare” suggerì  Kim Mortensen, Presidente della Commissione Lavoro del Parlamento danese nel lontano 2006, al primo convegno organizzato dall’Associazione Nuovi Lavori (cfr. Il “nuovo” nel mercato del lavoro, ed. Sapere 2000, 22006). Questo era il fondamento della flexsecurity della Danimarca e questo rimane, anche per l’Italia, la possibilità concreta per attrezzare il futuro del lavoro. E per farlo bene occorrono tre scelte. La prima è quella di smetterla di tagliare linearmente la spesa pubblica nei campi del sapere. Razionalizzare sempre; contrarre mai. Questa dovrebbe essere la scelta per il futuro. Darebbe fiducia a chi opera nelle strutture pubbliche ma anche a chi agisce in quelle private, porterebbe un po’ di certezze nelle famiglie, assicurerebbe ai giovani e ai lavoratori una sponda di maggiore sicurezza per vivere di lavori.
La seconda, conoscere sempre meglio le tendenze del mercato del lavoro. Nonostante vi siano molti sensori in campo, più o meno accreditati, lo “spannometro” è l’indicatore più gettonato. Così capita che per un certo periodo di tempo sono di moda le professioni legate all’ICT per essere sostituite poi da quelle manuali; in una fase si sollecitano le iscrizioni alle facoltà scientifiche e poi si passa a quelle umanistiche, più per valutazioni superficiali che basate su elementi concreti. Questo vuoto di conoscenza non lo può coprire soltanto il pubblico. Una “borsa lavori” affidabile per il presente e per il futuro la può assicurare soprattutto una seria collaborazione tra Governo e parti sociali.
La terza scelta riguarda chi lavora già. Il “life long learning” deve essere implementato e divenire parte integrante di tutte le agende delle imprese. Anzi, bisogna ritornare un po’ allo spirito delle 150 ore, per cui ogni lavoratore nell’arco della propria vita lavorativa può accumulare un pacchetto di ore spendibile in educazione, secondo le proprie esigenze. Inoltre, l’esperienza dei Fondi interprofessionali dimostra che, anche nella crisi, le imprese hanno utilizzato lo strumento formativo, spesso in chiave conservativa, ma anche con punte di innovatività che dimostrano la validità dell’investimento nel sapere dei lavoratori. Ogni tentativo di ridimensionare il ruolo dei Fondi interprofessionali in chiave assistenziale va combattuto. Essi devono, anzi, essere sempre più spinti ad accrescere gli standards professionali.
L’Italia da la sensazione di non farcela, ma non è così. Ha soltanto l’esigenza di liberarsi degli intoppi che le impediscono di essere un calabrone. Per questo, soltanto guardando in avanti e non facendosi spaventare dalle difficoltà, potranno essere divelti, di volta in volta, gli ostacoli che impediscono di ricominciare a delineare un futuro positivo. Le forze della rassegnazione e della conservazione cercheranno di impedirlo, ma i fatti e le volontà dei più sapranno imporsi per uscire migliori dalla crisi. Allora, il calabrone volerà.

Raffaele Morese

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