Il futuro non si attende. Si fa.

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“Employability” è la parola chiave. Potrà aprire molte porte. La traduco subito per evitare che Landini ci veda subito una fregatura: impiegabilità. È, in concreto, l’unica opzione possibile nel mondo del lavoro di oggi, ma soprattutto di domani.

Necessita innanzitutto di una convinta responsabilità personale corroborata da strumenti e opportunità definite dalle leggi o dai contratti. Nel recente contratto del metalmeccanici le parti hanno concordato attraverso il diritto individuale alla formazione un primo strumento fondamentale. L’importanza di questa intuizione va ben oltre il testo contrattuale. È però il primo passo nella direzione giusta.

In un mondo globalizzato il lavoro e i suoi diritti collegati non si possono tutelare astrattamente. Capitale e lavoro si muovono con spazi e logiche diverse. Pensare che possano valere le regole del 900 quando il lavoro a tempo indeterminato era la regola e quando il lavoro si svolgeva sostanzialmente in una o poche aziende è una illusione che rischia di costare molto cara ad una intera generazione.

Se alziamo lo sguardo da qui a dieci anni il lavoro prevalente sarà profondamente diverso da oggi. Meno lavoro a tempo indeterminato nelle forme oggi conosciute e più lavoro autonomo in forme che già oggi si stanno delineando nel resto del mondo. Un confine destinato a diventare sempre meno netto.

Il lavoro operaio stesso cambierà profondamente. Sia verso l’alto dove l’uso di macchinari sempre più complessi imporrà titoli di studio e continue specializzazioni sia verso il basso dove dove la concorrenza sul costo del lavoro metterà sempre più a rischio le tutele tradizionali.

I luoghi del lavoro, la sua durata giornaliera, le competenze per mantenerlo o per cambiarlo saranno profondamente diversi rispetto ad oggi. E se il lavoro si dovrà cercare con maggiore frequenza, mantenere con professionalità forti e aggiornate, gestire nelle fasi di transizione, le politiche attive saranno fondamentali. Soprattutto davanti al rischio di una ripresa di sviluppo senza ripresa occupazionale.

Il futuro non si aspetta. Si fa.

Su queste nuove traiettorie ci si può impegnare ciascuno per la propria parte (sindacati, imprese, studiosi della materia) oppure si può attendere e subirle. E, nel frattempo parlare d’altro.

Ma dietro il futuro del lavoro non c’è solo il destino di una generazione. C’è in gioco il ruolo dei contratti, delle organizzazioni di rappresentanza, l’evoluzione stessa dei sistemi formativi, della scuola, del welfare vecchio e nuovo, delle politiche del lavoro.

Di tutto questo, oggi, c’è poco all’ordine del giorno. Ci sono opinioni, studi, segnali ma non c’è una volontà comune che punta decisa in quella direzione. Per questo il rinnovo del contratto dei metalmeccanici ha dato un segnale importante che non va sottovalutato. Né fatto fallire.

Sarebbe deprimente dover discutere e duellare per un anno sul tema dei voucher trasformati in una sorta di Fort Alamo del 900 pur sapendo che nulla hanno a che fare con il contesto tracciato sopra.

Una cosa è certa e il rinnovo del contratto dei metalmeccanici ne è la dimostrazione plastica. Non c’è aria per battaglie ideologiche nel Paese. Né di rivincite per minoranze di Partito. C’è una precisa volontà di delegittimazione della Politica e delle Istituzioni. E i soggetti preposti a realizzare questo obiettivo sono già in campo.

Non saranno i voucher a spostare consenso. Anzi. Il punto vero è che nel furore di questa battaglia di retroguardia si rischia di non capire che il resto del lavoro si modellerà da solo sui rapporti di forza imposti dalla competizione globale.

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