ILVA. Un negoziato simbolico.

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Ha regione chi dice che la vicenda ILVA (ArcelorMittal/Marcegaglia) parte con il piede sbagliato.

Forse figlia di una cultura che pensa che una drammatizzazione iniziale possa favorire ruolo e accordo sindacale ma che rischia di non aver capito il contesto nel quale questo negoziato si svilupperà.

Da un lato una fabbrica/città (seppure con altre sedi territoriali importanti), vittima di un paradosso inestricabile perché, così com’è, non si va da nessuna parte ma, senza quella azienda, non si arriva da nessuna parte, almeno per le prossime due generazioni. Una città che, oggi, non è solo l’ILVA, naturalmente, ma che non è assolutamente in grado di fare a meno dell’ILVA in termini di attività economiche, lavoro, e reddito disponibile.

Non entro ovviamente nel merito del piano industriale, della sua fattibilità e dei suoi numeri perché fuori dalla mia sfera di competenze. Mi soffermo sul contenuto del piano sociale, sulla sua sostenibilità e sull’impatto che questo può avere. E non solo a Taranto.

Da un lato, ed è bene comprenderlo, questa città rischia di trasformarsi in un simbolo plastico del degrado economico e sociale del Sud. La modalità con cui sono stati annunciati i numeri degli esuberi, seppur mitigati da una generica garanzia di reimpiego di tutti gli addetti in altri campi (tutt’altro che semplice da realizzare per età e professionalità dei lavoratori coinvolti) e le condizioni economiche imposte ai nuovi assunti (sia in termini quantitativi che di diritti), potrebbero innescare una reazione che può sfuggire di mano.

In una situazione normale, in altri territori o categorie, le condizioni poste dal vertice aziendale per riprendere un’attività sarebbero state comunque ritenute dure ma discutibili se accompagnate da un piano credibile. Spesso i sindacati sono stati spinti dagli stessi lavoratori a firmare accordi in pejus che consentissero la ripresa di attività e del lavoro.

Ma in questa vicenda c’è qualcosa che sfugge. Sia al vertice aziendale che alla Politica. E che rischia di far precipitare una situazione in modo irreversibile. Per questo i sindacati hanno fatto bene a tenere il punto.

È di poche settimane fa l’annuncio del licenziamento di 129 dipendenti della Call&Call di Locri. Ho avuto modo di parlare recentemente con Monsignor Oliva, Vescovo di Locri-Gerace, sul dramma e sull’inesistenza di alternative legali in quella realtà.

I due avvenimenti che all’apparenza sembrano lontanissimi in termini numerici e d importanza, calati nel territorio che li subisce sono drammatici e gravi allo stesso modo. Ecco, io temo che si sottovaluti l’importanza del lavoro vero al Sud e che quindi si stia scherzando con il fuoco.

Ma che, soprattutto,  questo possa innescare da un lato la tentazione di sostituire lavoro con ammortizzatori sociali ad libitum e, dall’altro che si continui a spingere quei territori fuori dai confini di quella parte del Paese che vuole crescere, misurarsi con il mondo e giocare un ruolo diverso.

Fino a quando tutto questo è tollerabile in quei territori e di conseguenza per tutti noi? Questa domanda non può non essere posta sul tavolo del negoziato che si apre nei prossimi giorni al MISE.

Al Governo, certo, ma anche a chi si appresta a presentare un piano la cui credibilità dovrebbe essere certa e verificata. Io credo che la vicenda ILVA porti con sé un significato profondo.

La si può collocare nel solco della vecchia politica e del modello assistenzialistico del novecento oppure come primo segnale di un nuovo corso che si propone di rimettere al centro il Sud, il lavoro e l’impresa con l’obiettivo di creare una prospettiva diversa.

E questo rende il negoziato sull’ILVA ben altra cosa. Non solo per Taranto.

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