Importanti (le parti sociali) ma non decisive; cosi’ si archivia la concertazione. Intervento di Raffaele Morese

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L’invio alle Camere di un disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro, piuttosto che un decreto, fa capire a tutti che il testo  sarà sottoposto ad un iter parlamentare se non lungo certamente complesso e quindi prevedibilmente modificabile nei suoi innumerevoli contenuti. Le prime dichiarazioni dei leaders dei partiti della “strana”  maggioranza non promettono tranquillità a quel testo, benché Monti continui a dichiarare che esso debba essere considerato blindato. Questa è la prima, vera, grande inquietudine che avvolge una proposta governativa finora giunta alla discussione parlamentare. E c’è da chiedersi come mai, un testo significativo come quello confezionato dal Ministro Fornero, non sia accompagnato da certezze   come meriterebbe.

Prima di cercare di dare una spiegazione, vale la pena di esprimere una valutazione del documento elaborato dal Ministro del Welfare, ben sapendo che soltanto la lettura dell’articolato legislativo può offrire un punto di riferimento inequivocabile. Lo dividerei in tre aree di intervento. Quella relativa alle flessibilità in entrata e alla tutela della donna lavoratrice non è una rivoluzione, ma deve essere apprezzata; essa si muove lungo un solco di cultura di moderno laburismo ed è definita in modo che può entrare in vigore appena la legge sarà approvata. Cosa diversa è per l’altra area, quella della revisione degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro. L’impianto universalistico e strutturale è un buon disegno di ammodernamento delle strumentazioni per la gestione delle crisi aziendali. Ma è inficiato da due grosse incognite: la dimensione delle risorse necessarie per farlo funzionare con modalità assicurative (cioè a carico delle imprese e dei lavoratori) e la data di entrata in vigore, il 2017; decisamente molto in là per non temere che i consensi di oggi si  possano trasformare, domani, in ripensamenti, riletture o semplicemente modifiche che, però, potrebbero  cambiarne l’identità.

Infine la terza area, quella dell’articolo 18 su cui il braccio di ferro può diventare socialmente e politicamente incandescente. Le avvisaglie – dalla diversità di posizioni tra ciascuno dei tre maggiori sindacati, alle polemiche tra i partiti della maggioranza, alle alzate di scudi di tutte le opposizioni presenti e non presenti in Parlamento, tutte riflettenti un malessere sociale che tra l’altro spariglia vecchie e nuove logiche di schieramento – ci sono in abbondanza e non rassicurano sulla  bassa tenuta  dei loro toni. D’altra parte, il testo finora conosciuto è decisamente squilibrato, a spese del lavoratore, tanto che lo stesso Monti ha ammesso che potrebbero esserci degli abusi. Quindi, dovrà essere sicuramente cambiato nella parte relativa ai licenziamenti individuali per motivi economici. Lo chiedono in troppi e chi non lo chiede – come la Confindustria di Squinzi, il suo futuro Presidente – dichiara che non è una priorità.

Ma perché Monti non ha tentato fino in fondo una mediazione con le parti sociali anche su questo argomento, per andare in Parlamento forte di un consenso sociale diffuso? La chiave di lettura sta, con ogni probabilità, nella sua insistenza nel dire che il tempo della concertazione è finito. Non ha argomentato in modo esaustivo questo suo convincimento, ma il sospetto che il vero messaggio ai mercati internazionali non fosse sui licenziamenti ma sul potere del sindacato, a questo punto è legittimo. Il Premier preferisce che sia il Parlamento a cambiargli la proposta, piuttosto che definirla con il sindacato. Probabilmente ritiene di avere una forza coercitiva sufficiente sulla sua “strana” maggioranza, affinché il risultato finale non si discosti dalla sua proposta, ma in ogni caso dimostra “urbi et orbi” che non ha dato spazio condizionante ai sindacati.

Non si può discutere sulla cittadinanza di questa opinione; si può discutere però del suo costo sociale, economico e politico. La concertazione non è un obbligo per nessuno; qualsiasi livello di governo istituzionale può decidere qual’ è la forma migliore per regolare i propri rapporti con i rappresentanti delle realtà sociali. Ebbene, è indiscusso che  essa abbia avuto successo soprattutto in momenti di grande difficoltà del Paese (negli anni 1992/93 con i Governi Amato e Ciampi)  ed è servita a supplire a carenze di capacità di innovazione e di sintesi della politica. Infatti, in quelle occasioni, ciò che fu definito nelle intese concertative non subì cambiamenti da parte del potere legislativo. La forza persuasiva di esse ebbe la meglio sulle diverse volontà che pur esistevano in Parlamento, ma erano indebolite da “mani pulite”.

La scommessa di Monti è sul primato della politica. Paradossalmente, chiamato a governare per palese incapacità della politica di farlo, non se la sente di privilegiare il consenso sociale su quello politico. Considera il primo inadeguato a rassicurare chi deve investire in questo Paese, chi guarda alla nostra capacità di tenere il passo con i tempi. Preferisce  mettere alla prova i partiti che gli hanno chiesto di governare nella loro capacità di orientare le scelte del Paese. Il terreno che ha scelto è dei più sdrucciolevoli. Molte delle questioni che ha affrontato con le parti sociali attengono largamente alla loro libera valutazione e non tanto al volere politico. Ma tant’è; non gli si può addebitare il fatto che le parti sociali abbiano accettato quel terreno di discussione. Se la politica non dovesse risultare all’altezza della situazione, il costo della mancata concertazione sarà altissimo e le maggiori responsabilità cadrebbero inevitabilmente sulle spalle di Monti. Ma soprattutto del Paese.

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