Industry 4.0: un’occasione per discutere di nuove relazioni industriali.

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Un recente studio curato dalla Fondazione Symbola e CNA dimostra che l’Italia è il secondo Paese in Europa per numero di aziende dove, negli ultimi tre anni, sono state introdotte innovazioni di processo e di prodotto. Di queste, più dell’80% ha meno di 50 dipendenti. Se aggiungiamo che il 95% delle nostre imprese ha meno di 50 dipendenti e meno di dieci milioni di fatturato ci rendiamo conto che il cambio di paradigma imposto da industry 4.0 è decisamente alla portata di una platea ben più ampia della sola grande impresa manifatturiera. Nell’ultimo numero della rivista Sistemi e Impresa è stata pubblicata una survey molto interessante del laboratorio Research & innovation for Smart Enterprises (RISE) dell’Università di Brescia che indaga se e come nel nostro Paese è in corso la rivoluzione digitale in ambito manifatturiero. Settanta imprese, segmentate per dimensione, sono state valutate sotto diversi aspetti evidenziando risultati significativi. È da questa realtà in continua evoluzione che occorre partire per riflettere sull’importanza e sull’impatto di industry 4.0 sulle imprese, sulla loro organizzazione e sulla gestione delle risorse umane. Ma è anche una grande occasione di ridefinizione di una strategia sul lavoro che cambia che non può non coinvolgere anche il sistema stesso delle relazioni sindacali pena una loro definitiva marginalizzazione. Non cambia solo il luogo di lavoro, il modo stesso di lavorare o il contributo che viene richiesto al singolo lavoratore ma industry 4.0 rimette inevitabilmente in discussione tutto un complesso sistema di regole e relazioni consolidate che, avendo i suoi riferimenti passati nel fordismo, hanno sempre determinato l’estendibilità collettiva e quasi automatica di diritti, retribuzioni e inquadramenti e che, nei contratti nazionali, hanno sempre trovato, negli anni passati, una sintesi condivisa. Il vero cambiamento non sta esclusivamente nella produzione materiale: le nuove capacità messe a disposizione dall’evoluzione tecnologica si inseriscono in funzioni come le decisioni strategiche o la progettazione e in settori come il terziario, l’artigianato o il consumo finale che ne erano rimasti lontani. Sono dunque le organizzazioni che devono sempre più imparare a “pensare” in modo differente. E le organizzazioni sono composte da persone a cui viene richiesto di muoversi in modo diverso dal passato. L’agire e l’interagire tra imprenditori, manager e collaboratori diventerà sempre più strategico quanto la consapevolezza che, nella filiera, cambierà sempre di più il rapporto tra produttori, servizi, distributori e consumatori finali. Con il fordismo era, in fondo, tutto più semplice. Si trattava di fotografare e categorizzare gli “esecutori” e il contratto nazionale serviva bene allo scopo. Industry 4.0 impone, al contrario, capacità di auto-organizzazione e questo a tutti i livelli della gerarchia. Serve quindi sviluppare capacità che appartengono anche al lavoro autonomo e imprenditoriale. Saper prendere decisioni, assumersene i rischi relativi, superare vecchie logiche gerarchiche e funzionali significa investire in nuove competenze. Competenze e capacità da acquisire che abbisognano la “persona” al centro, la formazione necessaria, lo sviluppo professionale, il luogo, il tempo di lavoro e l’inevitabile coinvolgimento sui risultati e sull’andamento aziendale. Al contrario il nostro sistema contrattuale si è retto, per oltre cinquant’anni, su quattro pilastri fondamentali: l’estraneità assoluta del lavoratore dall’andamento aziendale, il lavoro dipendente a tempo indeterminato come modalità prevalente di accesso, l’inquadramento professionale inteso come scala percorribile solo in salita e un complesso di diritti e doveri (identificanti la totale subalternità del lavoratore) come sistema di valori alla base delle regole del gioco. Leggi e interpretazioni della Magistratura hanno, nel tempo, convalidato e irrigidito questo schema. Per contro la stessa cultura alla base delle principali organizzazioni aziendali nei settori industriali ma anche in molte aziende della grande distribuzione rispondevano a quella logica e quindi quei pilastri ne hanno accompagnato l’evoluzione incanalando il tutto in una liturgia sostanzialmente condivisa. La crisi e la globalizzazione hanno via via inceppato questo meccanismo restituendo, nel tempo, una “dignità” ai percorsi contrattuali che in altri comparti si erano nel frattempo sviluppati riportandoli in primo piano (vedi il terziario nelle ultime formulazioni) e promuovendo anche innovazioni legislative (vedi legge Biagi) con lo scopo sia di influenzare i diversi contratti nazionali che di mettere a disposizione delle imprese strumenti più efficaci. Infine lo strappo di Marchionne fino ad arrivare all’ultima proposta di Federmeccanica. Oggi siamo fermi qui. I pilastri (che andrebbero profondamente rivisitati) restano, tutto sommato, ancora inalterati e la discussione, anziché avvenire sui contenuti del lavoro, si limita a parlare dei livelli, dei luoghi dove il dialogo dovrebbe o potrebbe strutturarsi. Ma senza una profonda rivisitazione dei contenuti è difficile costruire nuove modalità di approccio anche se il confronto fosse portato a livello aziendale. Per questo occorrerebbe che le parti sociali si interroghino sulla “direzione di marcia”. È fondamentale che le imprese abbiano voglia e convenienza ad investire sui propri dipendenti e che questi abbiamo convenienza a investire sulla propria azienda ma anche su se stessi e sul proprio sviluppo professionale e personale. Ma se non c’è una prospettiva condivisa, se non si rimettono al centro del confronto produttività delle imprese e redditi da lavoro, formazione e politiche attive, collaborazione e condivisione dei risultati nell’impresa, non si va da nessuna parte. Poi, insieme, si vedrà cosa ha senso mantenere a livello nazionale e cosa deve essere decentrato. Un vecchio proverbio tunisino afferma:”la differenza tra un deserto e un giardino non è l’acqua ma l’uomo”. È dalla centralità della persona che occorre partire. Oggi più di ieri. Ed è questa la vera sfida se crediamo in un vero cambiamento.

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