La clava del salario minimo

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La proposta è suadente. Come tutti gli ami mediatici lanciati dai 5s. L’Italia deve avere un salario minimo garantito come tutti i principali Paesi europei. Fissato furbescamente a 9 euro per farlo assomigliare a quello in vigore in altri Paesi, ha lo stesso effetto del reddito di cittadinanza sugli allocchi disposti a crederci. Purtroppo ha anche un effetto sui costi dello Stato e delle imprese. E ultimo ma non ultimo sul sistema delle relazioni industriali e sul ruolo della rappresentanza. 

E’ talmente suadente che miete vittime ovunque, anche a sinistra. E, la replica, ad uno slogan semplice e diretto non è mai facile. Pensiamo a tutti coloro i quali questo messaggio suona come un riscatto, una punizione all’ingordigia delle imprese e alla inefficace iniziativa sindacale in materia.
Agli equivoci che crea e agli effetti collaterali che rischia di generare.

La polpetta avvelenata viene servita con una certa cautela perché si tende a presentare questa “novità” come integrativa delle attuali tutele economiche previste dai contratti nazionali. Smontarla non è facile. I media e l’opinione pubblica arrancano quando entra in campo il criptico linguaggio sindacalese.

Per comprenderne l’effetto pratico occorre mettere in fila i problemi. Innanzitutto l’attuale sistema contrattuale tutela il salario per circa l’80% dei lavoratori dipendenti. Non solo il salario minimo ma l’insieme dei minimi salariali per tutti. Dall’addetto alle pulizie al manager. Nessun altro Paese europeo arriva a questi livelli di  copertura. Basterebbe estenderla a tutti i lavoratori dipendenti nei diversi settori per risolvere il problema.

E magari individuare una nuova forma di tutela minima per chi non rientra nella classificazione del lavoro dipendente.

Per estendere erga omnes (a tutti i lavoratori dipendenti) occorrerebbe procedere ad una sorta di certificazione della rappresentanza. Il CNEL ne ha suggerita una. Confindustria e le organizzazioni sindacali più rappresentative hanno già detto di sì. Rete imprese italia è ferma per le  indecisioni di Confcommercio che non si è ancora pronunciata.

Non avendo mai dato attuazione all’art. 39 della Costituzione che aveva già previsto l’efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti a cui il CCNL si riferisce, purché i firmatari siano registrati e dotati di personalità giuridica, la giurisprudenza ha applicato generalmente i minimi tabellari previsti nei contratti collettivi facendo riferimento all’art. 36 della Costituzione e all’articolo 2099 del codice civile.

Il primo perché garantisce un giusto salario al lavoratore che è un concetto più ampio del semplice minimo tabellare. Il secondo, invece, perché prevede che il giudice possa determinare la retribuzione del lavoratore in assenza di accordi collettivi o tra le parti.

Va poi considerato che l’importo di 9 euro insidia almeno due livelli contrattuali  in termini nominali ma è  sicuramente inferiore se al costo diretto aggiungiamo gli effetti indiretti sia per il lavoratore che per i costi delle imprese (ferie, tredicesima, tutele per malattia e infortuni, ecc.). Il rischio poi che, in un Paese di piccole e piccolissime imprese, chi non aderisce alle organizzazioni imprenditoriali maggiormente rappresentative possa sfuggire dai contratti collettivi, per evitare gli altri costi,  è molto forte. Nella pur forte Germania l’introduzione del salario minimo ha avuto anche questo effetto collaterale.

Infine i costi. Sia per le imprese che per lo Stato. Senza un intervento sul cuneo fiscale l’operazione non sta in piedi. Le imprese sarebbero inevitabilmente costrette a recuperare i costi all’interno dei contratti quindi comprimendo verso il basso i salari medi contrattuali e intervenendo sui costi di altri capitoli per riuscire a riequilibrare il costo del lavoro. Cosa che non troverebbe certamente d’accordo i sindacati con tutte le conseguenze del caso.

Per lo Stato l’effetto negativo sarebbe doppio. Minori entrate fiscali e aumento dei costi dei servizi appaltati a basso valore aggiunto. Quindi anziché ridurre il cuneo fiscale al ceto medio l’intervento punta ad un risultato che sarebbe concentrato sugli ultimi livelli retributivi.

L’illusione che questo intervento  spinga verso l’alto i salari sarà destinata a durare poco. Temo avverrà il contrario. Purtroppo spingerà i prossimi confronti contrattuali quasi esclusivamente sull’argomento costi rischiando così di mettere in secondo piano tutte le tematiche innovative e il nuovo ruolo da assegnare ad un possibile decentramento reale della contrattazione. È sempre così quando la politica  vuole entrare a gamba tesa nelle tematiche del lavoro.

Ancora una volta il lavoro nero e i contratti pirata resteranno sullo sfondo. Così come rischia di essere sottovalutato l’impatto sul welfare contrattuale. Anzi, se questa nuova legge non si preoccuperà di trovare dei confini precisi su alcuni mestieri, il risultato porterà addirittura ad un aumento del lavoro nero. Previdenza e sanità integrativa, fondamentali in una visione a lungo termine del ruolo del welfare pubblico rischiano di essere, anche loro, ritenute residuali. Così come la formazione dove l’intuito di trasformarla in un diritto soggettivo potrebbe non decollare definitivamente, soprattutto nelle piccole e medie imprese.

Un bluff suadente che però non risolve nulla. La replica delle confederazioni sindacali e datoriali è stata fino ad oggi, a mio parere, debole. Capisco la difficoltà e i ritardi sulla certificazione della rappresentanza. Ma assistiamo ad una situazione kafkiana.

Alle boutade di uno dei due partiti di Governo sembra che si attenda solo con trepidante speranza che vengano stemperate o annullate dall’altro partito di Governo. Un gioco pericoloso a somma zero che trasforma il Paese in un’arena e costringe tutti ad essere solo spettatori e destinatari del prezzo (salato) del biglietto postumo che, prima o poi arriverà per tutti. 

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