La mela spaccata a meta’ puo’ essere riequilibrata di Raffaele Morese

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1.027.462 sono i licenziati nel corso del 2012. Questo dato, fornito dal Ministero del Lavoro, è il più adatto, benchè drammatico, incipit al titolo del libro di Ferruccio Pelos “Il mercato senza lavoro”, uscito recentemente per i caratteri di Edizioni Lavoro. E’ un testo ricchissimo di dati e come osserva Carniti che firma la prefazione, “che offre un quadro inedito (in gran parte sconosciuto ai decisori politici e sociali) delle trasformazioni relative al lavoro e all’impresa”(pg VII). Questo lo si deve alla pignoleria con cui ha proceduto l’autore, ma anche alla passione che vi ha messo in ogni pagina, essendo più un sindacalista di vecchia e solida scuola che uno studioso di fresco conio. L’attenzione, infatti, non è soltanto alla descrizione dei fenomeni, ma anche all’individuazione delle possibili soluzioni, degli auspicabili scenari di prospettiva. Senza rinunciare alla critica, specie nei confronti dei provvedimenti più recenti, l’approccio tende alla costruttività, perché, come conclude la sua fatica Pelos, “occorre dare voce e dignità a masse crescenti di giovani e donne emarginati dal lavoro e quindi da ogni prospettiva di vita activa e piena”(pg 175).

Come farlo è mestiere complesso e paziente, ma alcune coordinate sono nette nel testo, che merita lettura. La prima riguarda la struttura del mercato del lavoro. E’ una mela spaccata a metà, ormai. Il 49% dei dipendenti è a tempo pieno e indeterminato, il resto è disperso nella galassia del lavoro non standard. A differenza degli altri Paesi industrializzati, l’Italia corre di più verso le forme flessibili e che si confondono spesso con la precarietà. E’ una struttura del mercato del lavoro, al netto del lavoro nero (che, com’è noto, è ben diffuso), che non favorisce né la spinta agli investimenti, né la crescita delle professionalità, dato che preferisce la tendenza al basso costo del lavoro. La crisi ha messo a nudo la fragilità di un sistema d’impresa incapace di fronteggiarla con capitali propri, con facilità nelle diversificazioni produttive e impiantistiche, con competenze manageriali e professionali adatte alle innovazioni. Ma soprattutto ridotto così – fatta salva l’area delle imprese orientate all’esportazione – per il massiccio ricorso al lavoro flessibile, poco fidelizzato e mal pagato. Riequilibrare la spaccatura della mela, a vantaggio del lavoro standard, è condizione decisiva per uscire dalla crisi senza ricorrere a scorciatoie.

E così, si viene alla seconda coordinata. Sulle caratteristiche del mercato del lavoro ha pesato più la legge che la contrattazione. Ha ragione Pelos: “Man mano che la contrattazione si è ridotta in quantità e in massa critica, è cresciuto il numero delle leggi sul lavoro e questo non è sempre stato un dato positivo” (pg 5). La recente legge sul mercato del lavoro è stato un capolavoro di coerenza e di sintonia tra cittadino e legislatore. In piena crisi occupazionale, la discussione più accesa si è concentrata sull’articolo 18, il licenziamento individuale. Ma ciò non è soltanto responsabilità della politica. Vi è anche quella delle parti sociali che non hanno preteso e privilegiato il governo contrattuale delle flessibilità. Con la conseguenza che il recinto della competenza della contrattazione si è ristretto sempre più attorno al lavoro standard, disinteressandosi della proliferazione delle tante forme di contratto non standard che le leggi hanno sfornato nell’ultimo quindicennio. Né è bastato criticarle, quando lo si è fatto, perché, specie per il sindacato, questo ha significato essere un po’ meno contrattualista e un po’ più opinionista. Riconquistare, da parte dei soggetti della contrattazione collettiva, piena sovranità sulle diverse forme di lavoro necessarie nell’organizzazione d’impresa post fordista, appare sempre di più la strada vitale per combinare correttamente stabilità e flessibilità e soprattutto dare al lavoro la giusta importanza nel sistema produttivo.

Infine, la terza coordinata, il lavoro cooperativo. Può sembrare strano che venga citato come un elemento fondante le prospettive del lavoro, abituati come siamo a prefigurarlo soltanto come subordinato. Con le sue componenti partecipative e solidali, questo tipo di lavoro si profila come un elemento di coesione nel mercato del lavoro. Ricorda Pelos: “Il reinvestire gli utili in azienda, il ruolo del socio lavoratore, la partecipazione dei lavoratori alla vita e alle scelte dell’impresa, la volontà di ricapitalizzazione sono state le scelte che hanno permesso di affrontare meglio la crisi” (pg 138). Pur non negando che c’è anche tanta cooperazione spuria, questa forma organizzativa del lavoro resta un punto di riferimento significativo nel panorama italiano e prelude a visioni partecipative al capitale da parte dei lavoratori nell’insieme del sistema produttivo nazionale.

Tendenzialmente, la perlustrazione delle problematiche lavoristiche sospinge verso il pessimismo. E non manca materia. Ma la fatica di Pelos spiega anche che si possono intravvedere concrete possibilità di ottimismo. L’uomo vivrà sempre di lavoro, che ovviamente cambia in qualità e in quantità in ragione dell’evoluzione del benessere. Evitare che ciò avvenga degradandolo, soprattutto sotto il profilo della dignità, è un compito spesso difficile ma non impossibile. Al di là del titolo, tremendamente realistico, il libro induce a ben sperare.

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