La nuova cultura delle imprese e del lavoro e la difficoltà a rappresentarla

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Temo che i segnali ci siano tutti. Anche se c’è chi pensa di risolvere il problema limitandosi a decentrare la contrattazione o chi di rendere il contratto nazionale derogabile in caso di esigenze specifiche. Ma c’è anche chi spera di non dover modificare nulla. I corpi intermedi si confrontano con idee e proposte, i giuslavoristi di diversa provenienza si schierano e anche il Governo pare voglia intervenire sulla materia. E, dulcis in fundo, l’Europa che ci sollecita a mettere mano ad un nuovo modello. Sono la stragrande maggioranza delle imprese e dei lavoratori che restano, però, in larga parte estranei a questa discussione che rimane racchiusa in una cerchia di esperti ristretta e lontana. Certo ci sono le assemblee, gli scioperi e le prese di posizione sindacali che sembrano squarciare, con qualche reazione “old style”, la calma piatta mentre dal lato opposto della barricata gli addetti ai lavori si misurano su proposte più che altro tese a cercare di salvare “capra e cavoli”. Cosa sta succedendo veramente nel mondo di cui dovrebbero occuparsi le relazioni industriali? La fine del taylorismo sta trascinando con sé tutto ciò che ha caratterizzato il sistema nel secolo scorso. Anche un “comandamento” mai messo in discussione: una sensibilità comune e condivisa verso l’importanza della contrattazione “collettiva”. Nazionale o aziendale che sia. È indubbio che il rapporto tra capitale e lavoro stia profondamente cambiando. Il “potere”, quello vero, è ritornato saldamente nelle mani dell’impresa che però, lo esercita in modo profondamente diverso dal passato anche perché è un “potere” subalterno ad altri poteri e vincoli ben più forti, finanziari e globali, dunque esterni all’impresa stessa. L’azienda soprattutto quella medio grande, al suo interno, è ormai molto pervasiva. E lo è sempre più a tutti i livelli. Spesso organizza in proprio welfare di qualità, si impegna in progetti di CSR e costruisce legami con il territorio. Propone valori, cultura, coinvolgimento, condivisione e identità. Investe sulle proprie risorse umane in un’ottica di retention e di scambio con il collaboratore pur non garantendo il posto di lavoro. E lo dichiara apertamente. È una realtà dove la retorica paternalistica ha ceduto il passo ad altre logiche. Oggi contano i risultati e gli obiettivi, individuali o di gruppo, per tutti. Se questi si realizzano, e sono giudicati positivamente, la relazione tra azienda e collaboratore si rafforza altrimenti si indebolisce o, addirittura, si compromette e si interrompe. È un rapporto adulto, coinvolgente, spigoloso, più trasparente rispetto al passato. Ma è un rapporto tra organizzazione e individuo quindi sempre più complesso da gestire in un contesto collettivo. Nazionale o aziendale che sia. Le Direzioni Risorse Umane sono impegnate in prima persona in questa costruzione al contrario del responsabile delle Relazioni Sindacali che è un po’ vissuto da tutto il board aziendale come un male necessario. Una sorta di depositario di liturgie del passato superate e spesso disattese. E, d’altro canto, è sempre più difficile, per gli stessi sindacati, avere un ruolo, rifarsi ad una solidarietà di stampo novecentesco tra le differenti tipologie di lavoratori perché ciò che era possibile tutelare o acquisire orizzontalmente in passato, tra soggetti tutto sommato simili, si è ormai sempre più verticalizzato (tra capitale e lavoro) nella singola impresa tra soggetti diversi. È come se si determinasse una nuova alleanza interna che, di fatto, mette tutti sullo stesso piano. Imprenditori, manager, lavoratori di ogni singola impresa. Il “nemico” è altrove. Ed è, a volte, allo stesso livello professionale, magari in un altro Paese concorrente. Nelle crisi aziendali è già evidente. Se c’è una soluzione, per difficile che sia, è condivisa tra imprenditore, management e lavoratori. Chi non accetta questa impostazione è inevitabilmente in contrapposizione con l’intero contesto aziendale. Si sta affermando un modello che prevede sempre più che chi è dentro accetti di misurarsi “contro” chi è fuori. Fuori dall’azienda e fuori dalla filiera nella quale l’impresa interagisce. In questa dimensione le dinamiche e le regole del gioco sono quasi tutte interne. Prevedono una nuova centralità della risorsa umana, del suo percorso e del suo apporto al successo dell’impresa così come il suo corrispondente e specifico riconoscimento economico e professionale. Uno scambio concreto, seppur asimmetrico nel potere. Certo ci sono anche i sindacati datoriali e dei lavoratori, le leggi, i contratti e tutto quel contesto che il fordismo ha portato con sé nel sistema delle relazioni tra individuo e organizzazione. Ma sono “altro”, lontani e sempre più avulsi dal contesto lavorativo di oggi. La crisi e la globalizzazione hanno cambiato profondamente le regole del gioco. Pochi, da fuori, se ne sono accorti. I segnali di insofferenza verso un sistema esterno di regole condivise e rispettate sono sempre più evidenti. Ed è nella impresa medio grande che questa tendenza si manifesta con maggiore evidenza. FCA, in fondo, ha solo segnalato l’esistenza di un problema. E, fortunatamente, si è trovato di fronte una parte del sindacato che ha capito immediatamente la posta in gioco. Ma lo stesso vale, ad esempio, per molte imprese del terziario moderno, della ristorazione o della GDO che cercano di affrancarsi da regole e contratti collettivi nazionali e aziendali. O di creare al loro interno nuove regole del gioco che rendono marginale il ruolo del sindacato. Interno o esterno che sia. E non mi si dica che questo è un problema riguarda solo le grandi imprese. Riguarderà tutti, prima o poi. Se non affrontato diventerà la norma. Anche in considerazione della modesta dimensione della stragrande maggioranza delle imprese. D’altra parte l’idea stessa che sia sufficiente sostituire la contrattazione nazionale con quella aziendale o di integrarla rappresenta un estremo tentativo di adattamento della vecchia cultura giuslavoristica italiana che fatica a comprendere l’evoluzione dei comportamenti e dei modelli organizzativi nell’impresa post fordista. Eppure basterebbe uno sguardo attento, nelle imprese del terziario avanzato, dove quei comportamenti e quei modelli organizzativi sono la norma, per verificare come la contrattazione decentrata sia praticata con percentuali da prefisso telefonico. E questo indipendentemente dalla dimensione aziendale. Se tutto questo è vero il lavoro di ricostruzione di un nuovo ed efficace sistema di relazioni sindacali moderno sarà indubbiamente lungo e complesso. E non può che partire dalla volontà di impegnarsi reciprocamente in un rapporto costruttivo, collaborativo e di rispetto. Anche facendo crescere una nuova cultura tra i propri associati. Ma questo è un ruolo importante e impegnativo che spetta ai corpi intermedi in prima persona. Non certo ad altri.

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