Contrattazione aziendale: opportunità o “trappola”?

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Di questi tempi sembra la panacea di tutti i mali. Nel sistema di relazioni sindacali nessuno ci aveva pensato fino ad oggi: la contrattazione deve essere in azienda. È l’uovo di Colombo. È in azienda che si crea la ricchezza e quindi è lì che deve essere distribuita. Basta con i contratti nazionali. Soprattutto basta con due livelli di contrattazione. Uno è più che sufficiente. E così, per evitare di affrontare il problema principale che riguarda quali materie ha senso affrontare in azienda e quali ad altro livello si preferisce “gettare il bambino con l’acqua sporca”. La contrattazione in azienda. In Italia, nasce come intuizione della CISL negli anni ’50. Non sostituiva la contrattazione che faticosamente si stava affermando ad altri livelli ma la integra sui temi legati alla specificità della singola realtà produttiva. Ovviamente si afferma nelle realtà medio grandi inizialmente sui temi della produttività, del cottimo ma, via via, si allarga su altre tematiche trasformando i principali contratti aziendali in “anteprime” di ciò che i sindacati avrebbero poi posto sui differenti tavoli negoziali nella contrattazione nazionale. Quindi uno strumento che all’inizio integrava ciò che il CCNL non poteva garantire né prevedere si è poi trasformato in altra cosa. Spesso molto costosa. E anche quando nei contratti nazionali si cominciò ad introdurre elementi di moderazione salariale e normativa i contratti aziendali hanno sempre mantenuto il loro carico di costi e di appesantimenti organizzativi (i cosiddetti diritti acquisiti). Ovviamente i fautori del ritorno al passato (guarda caso non i Sindacati), pensano ad una contrattazione aziendale di tipo esclusivamente “concessivo” improntata cioé allo scambio tra salario legato alla produttività individuale e/o di sito e modalità di lavoro decisi unilateralmente dall’azienda. È il caso Fiat. Non si chiede di condividere strategie e obiettivi e di collaborare alla loro realizzazione. Si chiede di scommettere esclusivamente sulla lungimiranza di uno specifico management. Un po’ poco. È una visione che non determina una crescita culturale, collaborativa e costruttiva dei lavoratori. E quindi non è lungimirante. Oggi è così e sembra tutto semplice ma domani, se dovessero cambiare i rapporti di forza, riesploderebbero le contraddizioni in maniera identica a quelle che hanno determinato la degenerazione del sistema attuale della contrattazione aziendale. Senza la crescita di una cultura della collaborazione, della partecipazione e della condivisione, non ha alcun senso imporre regole e luoghi deputati al negoziato. Il secondo problema è legato alla volatilità del secondo livello di contrattazione. Chi può negozia a proprio vantaggio e chi non può subisce? Attenzione! Da entrambe le parti. il terzo problema è il dumping contrattuale. Chi non contratta avrà meno costi. Quindi molte aziende tenderanno a non contrattare. È così mi aspetto che qualche esperto ne proponga l’obbigatorietà con tutti i disastri che una determinazione di questo tipo può portare con sé.. Aziende grandi, piccole, piccolissime. Aziende che forniscono altre aziende, aziende che esportano. I due livelli servono proprio a garantire differenze e specificità. Il secondo non è obbligatorio ma non può sostituire il CCNL che, invece, garantisce un salario minimo, un inquadramento corretto e, spesso, un welfare decoroso. Quindi io andrei piano a sostituire il primo con il secondo livello contrattuale. Così come andrei piano a mettere in crisi un sistema contrattuale che ha i suoi equilibri. Lavorerei sulle materie e sulle deroghe. Cosa può o non può essere oggetto di negoziazione al primo e al secondo livello ma, soprattutto, cosa può essere derogato del CCNL nella contrattazione aziendale. Da chi? Ovviamente da chi sottoscrive il CCNL di categoria. Ne basterebbero quattro. Industria, terziario, artigianato e agricoltura. Le parti comuni semplificate perché sono uguali per tutti (ferie, malattia, ecc.) le specificità di settore prevedendo anche specificità di comparto o di dimensione aziendale. Regole certe uguali per tutti con la possibilità di lavorare su modalità e specificità aziendali, territoriali e/o di comparto. Il resto sono furbizie dalle gambe corte o fumo creato ad arte per non affrontare i problemi veri.

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Essere in gamba non basta più.

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Si parla tanto di meritocrazia. Spesso a vanvera. E, i non meritevoli sono, quasi sempre, gli altri. A volte è vero. Ma a noi, chi ci conosce? Questo è il punto. Essere “bravi” non basta più. Bisogna che altri lo sappiano o, almeno, siano interessati a saperlo. Colleghi, gestori delle risorse umane, capi, amici, fornitori, clienti, professori e consulenti sono i nostri potenziali head hunter. Oltre a quelli veri. Le società di selezione e tutti coloro che hanno la possibilità di proporre, suggerire e valutare le nostre capacità e le nostre competenze. Quanto tempo dedichiamo a coltivare queste relazioni? Poco o nulla se osserviamo la realtà. Ce ne rendiamo conto quando è troppo tardi. E dopo è difficile recuperare il tempo perduto. La soluzione è semplice. Occorre dedicare alla costruzione del sistema di relazione il tempo necessario. Quasi quotidiano. Fare spesso il punto su chi conosciamo e chiederci se ci apprezza e ci conosce professionalmente. Perché, ad esempio, ad un colloquio di lavoro cerchiamo di essere puntuali, educati e professionali mentre ce ne dimentichiamo quando navighiamo in rete, litighiamo per sciocchezze con il collega o non coltiviamo il rapporto con chi si occupa di risorse umane nella nostra azienda? Pensiamo di non avere tempo da perdere e, invece, ci attardiamo su comportamenti e attività secondarie. Un tempo era molto semplice. Il rapporto tra azienda “mamma” e collaboratore era più gestibile nella qualità e nella durata. Oggi no. Quindi occorre costruirsi un percorso che ci faccia conoscere e ci valorizzi negli anni. Personalmente ho sempre lavorato così e mi sono sempre trovato bene. Ho sempre saputo esattamente dove erano finiti i miei ex colleghi, i miei collaboratori, i giovani che ho assunto e gli HH che mi hanno apprezzato nel tempo. Organizzo spesso incontri o cene con colleghi con cui interagivo vent’anni fa. Anche con chi mi chiede favori. Frequento convegni, professori e consulenti avendo sempre in testa che sto investendo tempo. Non lo sto perdendo. E mi sono sempre trovano bene.

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39,40,46: numeri buoni per il lotto o vera modernizzazione del Paese?

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L’importanza e il rispetto della nostra Costituzione e la sua integrale applicazione sono spesso “agitate” da chi vorrebbe semplicemente utilizzare la Costituzione stessa per evitare qualsivoglia cambiamento e/o modernizzazione del nostro Paese. Spesso la polemica si incentra sull’articolo 1 e sulla mancanza del lavoro come elemento di non attuazione della Costituzione stessa. E siccome il lavoro manca e mancherà ancora a lungo ci si ferma alla denuncia e alla protesta evitando di approfondire il valore di altri articoli che aiuterebbero a modificare il quadro nel quale il lavoro si crea e si sviluppa. Parlo dell’articolo 39, 40 e 46. Il 39 parla della sostanziale certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali. Datoriali e dei lavoratori. Il 40 dell’esercizio del diritto di sciopero. E il 46 riconosce il valore dell’impresa. Bene. Un sistema dove la rappresentatività è certificata, lo sciopero è utilizzato come estrema ratio dalle organizzazioni sindacali e l’impresa ritorna ad essere un luogo riconosciuto dove si crea valore. Direi un altro mondo rispetto alla cultura del conflitto e della contrapposizione tanto in voga ancora oggi. O no?

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Unico, unitario, unito……

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Ci risiamo. Ogni volta che si rimette al centro un problema fondamentale del nostro Paese ci si rifugia nel significato ultimo delle parole per fare tre passi indietro. Renzi ha posto un problema. Ha senso avere tre sindacati confederali nel 2016? Domanda semplice con risposta altrettanto semplice: no. E allora anziché lavorare per superare le divergenze e ricostruire un moderno disegno riformista e unitario che dia una prospettiva vera al sindacalismo confederale si preferisce giocare sulle parole. Cgil, Cisl e Uil hanno forse una prospettiva continuando a “marciare divisi” senza riuscire, per autentica debolezza sociale delle singole organizzazioni a “colpire uniti”? Quello che manca è un vero disegno unitario degno di questo nome che sappia andare oltre la stagione della concertazione. Il lavoro oggi si difende contribuendo a crearlo. Nelle imprese e nel Paese. Una strategia collaborativa, riformista e moderna che è sempre stata condivisa nelle principali categorie dell’industria (escluso i metalmeccanici della CGIL). Questo sforzo deve riprendere superando l’esperienza negative e l’orgoglio di organizzazione. Per fare questo i nominalismi non servono. Servono dirigenti sindacali che sappiano guardare oltre al proprio orticello.

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Essere valutati e imparare a valutarsi. Prima che sia tardi…

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la ricerca di un sistema di valutazione oggettivo è sempre stato un tema che ha impegnato esperti RH, manager e studiosi della materia. Nel secolo scorso, in molte realtà aziendali, sono state via via trovate soluzioni e strumenti idonei a gestire le carriere, i cosiddetti kpeople, e la retention dei talenti che, soprattutto se cresciuti in azienda, non si volevano perdere. Poi, è cambiato tutto. Le trimestrali, la navigazione a vista, la crisi. Il mercato del lavoro ricco di professionalità disposte a accettare non uno ma tre passi indietro. Colleghi che “andavano a letto intelligenti e si svegliavano cretini” o viceversa. Questo rovesciamento del contesto ha spostato il baricentro anche della valutazione. Prima fondamentale per l’azienda e i suoi meccanismi di crescita interna, oggi meno determinante (ovviamente con le dovute eccezioni) per l’impresa ma sempre più decisiva per il manager e non solo. La necessità di restare sul mercato più a lungo, di trovarsi spesso in fasi di transizioni professionali e quindi di reinventarsi un valore sul mercato rende indispensabile sapersi valutare e sapere come e cosa proporre di sé. Il mercato non offre nulla di oggettivamente riconosciuto. A parlare è, innanzitutto, il proprio CV. Ma è indispensabile che qualcuno abbia voglia di leggerlo. Quindi il sistema di relazioni di ciascuno diventa centrale. Non basta ritenersi in gamba occorre che qualcuno lo riconosca. E siccome il mercato è inondato da CV “gonfiati” le referenze ritornano ad essere fondamentali. Un tempo bastava impegnarsi nella propria azienda. Oggi l’impegno non basta. Occorre farsi conoscere quindi dedicare tempo e energia a questa attività. Il mondo del lavoro è però in continua evoluzione. Occorre mantersi formati. Sempre. Occorre lavorare sulla propria impiegabilità. Per ciò che si fa oggi ma anche per ciò che si potrà fare domani. Quanti colleghi che oggi lavorano rischiano di essere disoccupati domani? E quanti tra chi è disoccupato oggi rimpiange ciò che non ha fatto ieri. Per queste e per altre ragioni occorre cambiare passo. Soprattutto per se stessi.

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Una “causa” giusta in un momento sbagliato?

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La recente sentenza che impone la restituzione della mancata indicizzazione delle pensioni pone una serie di questioni serie che andrebbero affrontate sia da chi si è battuto contro la decisione del Governo Monti sia da chi, forse con troppa fretta, ne proclama la illegittimità. Due categorie si sono particolarmente distinte. Gli opportunisti e i moralizzatori. Tra i primi occorre annoverare i parlamentari che allora votarono a favore del provvedimento e oggi si ergono a paladini della restituzione totale e immediata del maltolto. Tra i secondi chi, con troppa facilità liquida il problema ritenendolo dannoso per le finanze pubbliche e prodotto dei privilegi del sistema retributivo. Personalmente non condivido entrambe le tesi. La prima perché urlare oggi quello che si è sommessamente accettato poco tempo fa è immorale. La seconda perché occorrerebbero argomenti ben più sostanziosi che attaccarsi alla “cassa vuota” o lamentare altrui privilegi. Io credo che il problema sia, al contrario, molto serio.
1) il patto tra cittadino e Stato. L’ammontare della pensione è il risultato di un contesto legislativo dato. Non da una rapina a mano armata. Se quel patto deve essere rimesso in discussione non può riguardare solo alcuni contraenti ma tutti. Il parametro non può essere il reddito. È un parametro semplice ma profondamente sbagliato.
2) la restituzione del maltolto. Non possono esserci dubbi. Ciò che è stàto sottratto deve essere restituito. Si può discutere sul come è sul quando. Non sul se. Non è serio.
3) non ci sono le risorse. È una logica aberrante. Siccome non ci sarebbero le risorse si toglie a chi si presenta alla cassa in quel momento.
4) il retributivo è un privilegio. Altra follia. Prima dell’euro uno stipendio di 5 milioni al mese era uno stipendio importante. Lo sono 2500 euro di oggi? E cosa saranno tra dieci anni? Il retributivo è solo servito a correggere questi rischi. Ma i giovani avranno solo il contributivo. Chi lo dice? Ma veramente qualcuno di buon senso può pensare che fra trent’anni esisteranno solo pensioni da fame? Nessuno in buona fede può raccontarci queste favole. Così come oggi si è affrontato il tema degli esodati così in futuro ritornerà d’attualità il sistema previdenziale e il suo equilibrio sociale oltreché economico.
E allora che fare?
Condivido l’approccio del sindacato dei dirigenti (Manageritalia e federmanager).
Primo. Un torto è un torto e va superato. Come? Negoziando contenuto e gradualità necessaria. Con chi? Con chi ha promosso la causa. Come si fa quando i problemi si vogliono risolvere.

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Sindacato confederale tra declino e nuove prospettive

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Il declino della concertazione, la mancanza di lavoro stabile e l’attivismo del Governo rischiano inevitabilmente di mettere in soffitta le aspirazioni di rilancio dell’iniziativa sindacale. È certo che un’epoca si è chiusa. Conflitto e contrapposizione, pur legittimi e fisiologici, tendono a caratterizzarsi sempre più come fenomeni locali o, al massimo, a “macchia di leopardo”. Le stesse forze politiche che tradizionalmente li sostengono non sembrano più in grado di incanalarli in un nuovo progetto politico. E, nonostante tutti i tentativi di presentare questo evidente malessere come inevitabilmente propedeutico a prossime rotture della coesione sociale, generazionale e territoriale tutto questo non sembra affatto essere all’ordine del giorno. Né prossimo a venire. Anzi. Ovviamente questo non deve essere sottovalutato ma, semmai, costituire motivo di stimolo per ricreare le condizioni di un riposizionamento del movimento sindacale di matrice riformista. Se poi a questo aggiungiamo che difficilmente esisteranno per lungo tempo margini redistributivi apprezzabili ci rendiamo conto che la necessità di riposizionamento strategico, organizzativo e culturale diventa fondamentale per evitare il declino. Da un lato l’azione del Governo dovrebbe spingere i corpi intermedi, tutti i corpi intermedi, a porsi nella prospettiva di essere concretamente dei veri e propri contrappesi sociali fondamentali nel contesto istituzionale e politico che si va affermando. Non è tempo di battaglie di retroguardia su supposti ruoli e rendite di posizione delle singole organizzazioni. La stessa riflessione sull’articolo 39 della Costituzione può aiutarci ad andare in questa direzione. Ma una nuova stagione di unità non può avvenire limitandosi a sommare le rispettive debolezze ma dovrebbe fare perno su una nuova strategia. E questa strategia non può che far leva su un modello innovativo che noi chiamiamo di “collaborazione intraprendente”. Un modello di relazione che consente di condividere rischi e opportunità tra impresa e lavoro. Ma anche con gli altri soggetti che interagiscono nella filiera che oggi, più che mai, è il luogo dove si crea valore. Dal produttore al consumatore finale. È da qui che bisogna partire. Tra lavoratori e impresa, tra sindacati e Governo, tra sindacati e istituzioni locali. Ma questo impone una strategia unitaria. E quindi la necessità di una nuova stagione di unità sindacale. Ai leader di oggi il dovere di crederci.

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Le pensioni e monsieur de la Palice di Maurizio Benetti

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Mettiamo insieme due titoli di giornali dei giorni scorsi. “Boeri, Ci sono pensioni molto alte non giustificate dai contributi” e “Fondo speciale ferrovieri, il 96% delle pensioni è superiore ai contributi” e poniamoci la domanda qual è la vera notizia giornalistica?

La vera notizia, almeno per chi conosce il sistema pensionistico, è che vi sia una parte delle pensioni calcolate con il retributivo che trova corrispondenza nei contributi versati. Ci si può, infatti, domandare come sia potuta accadere una simile anomalia in un sistema in cui il calcolo della pensione prescindeva dall’aliquota contributiva (vedi dipendenti e autonomi), si basava sugli ultimi anni di retribuzione (ultimo anno nel pubblico impiego) e non considerava l’età di pensionamento.

Trovare una corrispondenza tra ammontare della pensione e contributi versati in un sistema simile ha del miracoloso ed è certamente meritevole di analisi come tutti i fenomeni simili.

Veniamo all’aggettivo che usa Boeri, (non) giustificate. Se è usato in un’accezione tecnica è, come detto, lapalissiano, se è usato in termini “morali” non ha alcun senso. Chi è andato in pensione con il retributivo vi è andato con regole fissate dal Parlamento e che il Parlamento ha difeso per decenni a fronte di vari tentativi di riforma tutti falliti fino al 1992.

Le scelte di pensionamento (quando il pensionamento non è stato imposto) sono state fatte in base a quelle norme sia in relazione all’età sia in relazione all’ammontare della pensione; norme diverse avrebbero probabilmente portato a scelte diverse, qual è il senso, e l’equità, di metterle in discussione oggi? Riammettiamo al lavoro coloro che lo richiedono perché giudicano troppo bassa la pensione ricalcolata?

Vi sono stati certamente episodi di leggi che potremmo definire ad personam e che hanno determinato situazioni di privilegio abnorme e limitato ad alcune persone. La possibilità di passaggio per i dirigenti dell’Ente telefonico di stato dal Fondo per dirigenti (con tetto pensionistico) al Fondo telefonico (senza tetto) o la possibilità data per un certo periodo ai componenti delle Authority di unire gli anni di incarico presso le Authority stesse ai precedenti periodi lavorativi ad esempio. Sono fatti che gridano vendetta, ma che riguardano poche decine di persone (ma quando il Parlamento e/o i governi hanno approvato queste norme tutti gli altri dove erano?).

Il resto dei lavoratori privati, pubblici e autonomi è andato in pensione con le regole generali. Sbagliate? Certo possiamo dire che le differenze di calcolo tra dipendenti pubblici e privati non erano giustificate, ma quando nel 1978 il ministro Scotti presentò una proposta per eliminare le disparità e le situazioni di privilegio scaturenti dalla pluralità dei regimi pensionistici esistenti il Parlamento non l’approvò. Così come possiamo dire che fu sbagliata nel 1990 la riforma previdenziale dei lavoratori autonomi che equiparò di fatto la modalità di calcolo della pensione degli autonomi a quella dei lavoratori dipendenti anche se i versamenti dei primi erano fortemente inferiori a quelli dei secondi (ma la riforma fu approvata da tutti i partiti).

L’esistenza di regole diverse, e in alcuni casi privilegiate, attribuisce semmai una colpa a chi ha fatto passare decenni prima di intervenire non a chi è andato in pensione in base alle normative “generali” vigenti.

Credo, quindi, che il ricalcolo proposto dal Presidente dell’Inps delle pensioni retributive sia sbagliato e non equo. Se sia poi possibile dal punto di vista giuridico sfugge alle mie conoscenze (immagino pareri opposti da illustri costituzionalisti), mentre dubito, per usare un eufemismo, che sia possibile dal punto di vista tecnico.

Essendomi occupato da molto tempo di pensioni ed avendo lavorato per sei anni in Inpdap ho sempre pensato che la proposta di Boeri, anticipata da S. Patriarca, sia tecnicamente molto difficile da attuare. L’operazione trasparenza fatta da Boeri con la pubblicazione delle analisi delle pensioni del fondo dei dirigenti e del fondo ferrovie conferma in pieno questa convinzione.

Un ricalcolo della pensione retributiva con il sistema contributivo richiede la conoscenza dell’intera vita retributiva dei soggetti interessati o, come si legge negli studi dell’Inps sui due fondi, “comporta la disponibilità delle informazioni relative a tutta la storia contributiva del lavoratore che nel caso di pensioni con decorrenza lontana nel tempo risulta assai difficoltosa”.

Come ha fatto, di fronte a questa difficoltà, l’Inps ad affermare che nel fondo ferrovie il 94% delle pensioni non corrisponde ai contributi versati? Leggiamo la nota metodologica contenuta nello studio. Intanto ha scelto fior da fiore prendendo in considerazione 50.000 pensioni che rappresentano 1/3 di tutte le pensioni erogate. Non sono state considerate le pensioni “di cui al momento è impossibile ricostruire la storia contributiva”. Per le pensioni considerate “sono stati colmati i vuoti delle informazioni retributive attribuendo a ciascun periodo da integrare, la retribuzione più vicina disponibile parametrata all’anzianità contributiva presente in ogni anno solare…”.

Tradotto si fa un’affermazione, “il 94% delle pensioni non corrisponde ai contributi versati”, riferita all’intera gestione sulla base di un campione non rappresentativo dell’universo e con una ricostruzione teorica e non reale della storia retributiva/contributiva dei soggetti interessati.

L’analisi sul fondo ferrovieri anticipa quello che avverrà certamente su tutti i fondi del pubblico impiego. L’analisi sarà limitata ad una parte ristretta delle pensioni di ogni gestione e le singole carriere retributive dovranno essere ricostruite con dati medi (del resto è quello che ha fatto Patriarca nel suo lavoro). La ragione della mancanza dei dati sulla storia contributiva dei pensionati, soprattutto nel settore pubblico, è indicata nella nota metodologica ricordata: “le posizioni assicurative dei contribuenti sono state acquisite tralasciando le informazioni retributive più lontane nel tempo non strettamente necessarie al calcolo della prestazione collegato alla media retributiva degli ultimi anni”.

Dal punto di vista di uno studio accademico la ricostruzione delle singole carriere con procedimenti statistici e con valori medi può avere un senso, ma se si vuole ricalcolare ogni singola pensione e applicare una ritenuta sulla differenza tra pensione retributiva e pensione contributiva il calcolo va fatto su dati reali e non su stime altrimenti si nega l’unico, discutibile, fondamento dell’operazione: commisurare la pensione ai contributi effettivamente versati.

E’ possibile ricostruire le carriere retributive di tutti i pensionati? Se penso ai faldoni cartacei dei professori presenti nel provveditorato agli studi di Roma non posso che fare gli auguri a chi vuol fare un’operazione del genere.

L’Inps pensa ad accordi con le diverse amministrazioni. Il punto è che molti dati sono su carta e che molti lavoratori sono passati da una amministrazione ad un’altra. Un programma, quindi, necessariamente lungo, complesso e dagli esiti incerti.

Se le difficoltà nel settore pubblico sono certe, qual è la situazione nelle altre gestioni Inps di dipendenti e autonomi? E’ così scontato che ci siano i dati necessari? A giudicare dall’ex-Inpdai si direbbe di no, anche in questo caso secondo la nota metodologica dello studio si è proceduto alla ricostruzione statistica di una parte della storia contributiva.

Si può fare una operazione di ricalcolo a fini di stabilire una contribuzione individuale sulla base di una ricostruzione teorica? Si può fare un’operazione di ricalcolo limitata solo alle pensioni di cui è possibile ricostruire la storia contributiva?

L’idea del ricalcolo nasce (vedi articoli di Patriarca e Boeri) come strumento per ottenere risorse per effettuare altri interventi. Si dice che calcolare un contributo sulla differenza tra pensione percepita e pensione calcolata con il contributivo abbia un elemento di equità. Si colpisce un di più non “giustificato” dai contributi. Come detto quell’aggettivo è usato impropriamente. Le pensioni in essere sono tutte giustificate rispetto alle norme di volta in volta esistenti.

Ma di quante risorse parliamo? Ovviamente dipende dalla percentuale del contributo e dal livello delle pensioni a cui il ricalcolo, se possibile, fosse applicato. Quando Boeri dichiara che ci sono pensioni molto alte non giustificate dai contributi fa una dichiarazione priva di alcun senso, e solo demagogica, ai fini del reperimento di risorse. Se si riferisse alle poche decine di persone che hanno goduto delle norme ad personam ricordate, anche un contributo espropriativo darebbe poche decine di milioni. Per passare alle centinaia di milioni bisognerebbe scendere sotto i 5.000 euro lordi, per arrivare ai miliardi di euro, bisogna scendere fino ai 2.000 euro di pensione lorda.

Patriarca e Boeri nel loro articolo sulla Voce hanno stimato un gettito di 4,2 miliardi di euro se il prelievo è esteso alle pensioni fino a 2.000 euro lordi. Gli autori si dimenticano che questo gettito sarebbe solo teorico in quanto ad esso va sottratta la perdita di entrate fiscali stimabili in più di 1,7 mld. Le risorse nette disponibili sarebbero quindi pari a 2,5 mld. Il 54% di queste risorse, secondo i loro calcoli, deriverebbe dal contributo richiesto alle pensioni tra i 2.000 e i 3.000 euro lordi, ossia a pensioni tra i 1.500 e i 2.200 euro netti. Dalle pensioni sopra i 5.000 euro arriverebbero meno di 500 milioni netti. Se si vogliono risorse dell’ammontare di miliardi bisogna lasciar stare la storiella della pensioni alte o d’oro, vanno coinvolte le pensioni medie e basse. Sarebbe corretto dirlo.

Vi è certamente il problema di flessibilizzare l’uscita dal mercato del lavoro così come è necessario affrontare il problema della copertura reddituale dei ultracinquantacinquenni che perdono il lavoro ma secondo quale logica le risorse, o parte di esse, dovrebbero arrivare da un contributo sulle pensioni in essere? O è un intervento di tipo assicurativo e allora va coperto con contributi o un intervento di tipo assistenziale e allora va coperto con la fiscalità generale.

Il Presidente dell’Inps ha iniziato l’operazione trasparenza con un documento sul FondoSpeciale per il Trasporto Aereo denunciando il fatto che l’attuale finanziamento al Fondo è oggi costituito per la quasi la totalità dai proventi dell’imposizione fiscale sui passeggeri degli aerei. Ora propone un’imposizione fiscale mascherata sulle pensioni per alimentare un fondo per chi perde il lavoro, potremmo allora proporre un contributo sulle retribuzioni dei docenti universitari per finanziare borse di studio. A quanto pare anche Boeri non sa proporre altro che un ennesimo balzello, ingiustificato e di dubbia attuazione.

Le pensioni quindi debbono uscire indenni dall’attuale situazione economica? Ricordiamo in primo luogo che le pensioni sono state tosate abbondantemente dal blocco della perequazione operato da Monti-Fornero e che l’attuale forma di indicizzazione produce una perdita continua di valore reale per tutte le pensioni superiori a tre volte il minimo, perdita crescente con l’aumentare dell’importo della pensione. Se vi è la necessità di una “partecipazione” delle pensioni “più elevate” alle manovre di bilancio la strada corretta è quella fiscale coinvolgendo tutti i redditi non solo quelli da pensione.

C’è solo un caso in cui, a mio avviso, trova giustificazione un contributo specifico sulle pensioni. Non è in discussione la legittimità delle pensioni retributive, ma non vi è dubbio che il passaggio al contributivo segna una rottura intergenerazionale. La mia generazione ha pagato con i propri contributi la pensione ai suoi genitori percependo poi una pensione calcolata con le stesse regole. I nostri figli pagano la nostra pensione con i loro contributi ma andranno in pensione con regole diverse e sensibilmente peggiori. Allora l’unica destinazione di un eventuale contributo sulle pensioni non può essere usato per interventi a favore delle stesse generazioni dei pensionati o a generazioni vicine ma deve essere rivolto a favore delle pensioni contributive per aumentare il loro importo.

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Un movimentismo che non convince di Raffaele Morese

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Landini fa indubbiamente discutere. Forse fin troppo. E intanto lui mobilita su parole d’ordine che passano in seconda fila rispetto a ciò che fa intendere ma che non conferma. A parte le invettive nei confronti di Renzi e la lunga lista dei mali del Paese, che proponga un nuovo Statuto dei lavori, il rilancio della riduzione dell’orario di lavoro, la ricomposizione del mondo del lavoro, una diversa democrazia nel sindacato, all’opinione pubblica interessa poco. Interessa di più sapere se quella ”coalizione sociale” c’è e se si vuole trasformare in partito. A Landini questo interesse deviante non piace, lo grida ai quattro venti e non c’è motivo per dubitare della sua sincerità. E’ e vuole rimanere sindacalista.

Ma sono in tanti a non credergli. E la responsabilità non è di questi tanti, fra i quali ci sono anche molti lavoratori, ma sua. E’ lui che deve chiarire con dei fatti qual è la strategia che vuole portare avanti. Se no rischia di ingarbugliarsi. Certo, rivendica la “politicità” del fare sindacato. Non è tematica nuova; però deve fare i conti con le mutate condizioni del Paese e del lavoro. La massima politicità dell’azione sindacale moderna fu espressa tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 90. Tra la lunga cavalcata del sindacalismo rivendicativo e il suo approdo alla concertazione. Avvenne perché il sindacalismo confederale – liberatosi dalla logica della guerra fredda e della cinghia di trasmissione tra partito e sindacato – fece del contrattualismo (e non della legge) la sua bandiera, dell’autonomia la sua identità e dell’unità la sua forza.

In una situazione in cui il contrattualismo langue, l’autonomia ripiega nel corporativismo e l’unità è un ricordo del passato, la “politicità” del sindacato o è pura velleità o è preludio alla sua trasformazione partitica. D’altronde, le parole d’ordine che resero autorevole e di massa il sindacato dei Lama, Benvenuto e Carniti avevano un carisma in sé, frutto di una paziente e ricercata cucitura di culture diverse che si rispettavano tra loro e diventavano il valore aggiunto della tenuta unitaria dei lavoratori. I leaders servono a questo, a proporre quel passo in avanti che trascina l’insieme dei loro rappresentati. E nessuno può sostenere che i gruppi dirigenti della Cisl, della Cgil e della Uil di quegli anni avessero perso la loro identità originaria.

Eppure, Landini nel finale del suo discorso a Piazza del Popolo, ha detto di ispirarsi a Trentin. Questo ha irritato molto Marcelle Padovani, intellettuale e giornalista raffinata e moglie di Bruno (vedere Corriere della sera del 29 marzo 2015). E non le si può dare torto. Uno dei libri può meditati di Trentin aveva un titolo emblematico: Da sfruttati a produttori. La sua visione dell’evoluzione del peso e del ruolo dei lavoratori italiani non portava alla cogestione, ma alla partecipazione sì. Alla partecipazione consapevole, responsabile, schietta che era anche uno dei cavalli di battaglia della Cisl di Carniti, benché anche lui avesse alle spalle una stagione di dura radicalità. Landini, invece, sembra privilegiare un antagonismo conflittuale, un primato del movimentismo che non si rifà al pensiero di Trentin ma che non trova riscontro nella gran parte delle realtà del lavoro e negli accordi aziendali che firmano anche i delegati della Fiom. Né l’antagonismo conflittuale, ammesso che abbia una sua forza d’affermazione, può diventare l’asse portante di una “coalizione sociale” che pretenda di diventare egemonica nel Paese. Soltanto il sospetto che non riesca a creare le minime condizioni per coagulare il mondo del lavoro, fa perdere di efficacia all’obiettivo di mettere insieme i tanti mondi che vogliono più giustizia sociale e maggiore democrazia.

Infatti, in ogni campo della vita pubblica e associativa, la dialettica tra il “meglio” e il “possibile” non si risolve con una divisione dei ruoli. C’è chi tiene alto il vessillo dell’intransigenza e chi sventola la bandiera della mediazione. E’ un taylorismo della ragione che porta soltanto all’indebolimento della capacità persuasiva del sindacato e della sua improduttività negoziale. Finanche il giovane Presidente del Consiglio greco, che ha vinto le elezioni puntando al “meglio”, oggi sta spiegando ai suoi concittadini – che non vogliono abbandonare l’euro – che si può fare soltanto il “possibile”. Vale anche per il sindacalismo italiano che ha l’opportunità dell’inizio dell’uscita dalla crisi per ridisegnare la propria strategia rivendicativa e la propria area di rappresentanza.

Le due cose vanno insieme sia perché c’è bisogno di redistribuire ricchezza e occupazione pigiando sul pedale della fiscalità piuttosto che su quello dei salari, azionando meno la leva legislativa e di più quella contrattuale per dare lavoro, sia perché occorre allargare l’area dell’ascolto e della rappresentanza a quei settori del lavoro finora a basso tasso di visibilità, innovando le modalità di formazione dei gruppi dirigenti sindacali nei luoghi di lavoro. Fare emergere obiettivi condivisi e possibilmente unitari, in questi territori propri dell’azione del sindacato, potrà essere più efficace che continuare a procedere in ordine sparso. Vale anche per i sindacalisti, l’affermazione di un grande atleta come Pietro Mennea: “per raggiungere grandi sogni, bisogna fare grande fatica”.

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L’Italia vista dal Censis di Ferruccio Pelos

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Il 5 dicembre 2014 il Censis ha presentato il 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese. Scrivere queste note alcuni giorni dopo l’evento ci ha permesso anche la lettura dei capitoli iniziali e di quelli sulle tematiche più vicine all’attività di Nuovi Lavori, consentendoci l’estrapolazione di tutti i dati, per noi rilevanti, che in genere non vengono affrontati in una presentazione. Anche quest’anno, infatti, hanno prevalso in quella sede le immagini forti delle analisi, delle tendenze e dei processi in atto nella società italiana: “Il Paese delle sette giare”, “Una società satura dal capitale inagito”, “Rischio deflazione delle aspettative”, “L’attendismo cinico delle famiglie liquide” e così via. Andiamo con ordine, nella lettura della fotografia 2014 dell’Italia, tra gli innumerevoli percorsi e dati che il poderoso volume ci offre.

Partiamo dalle “Considerazioni generali” del Rapporto.

Siamo una società liquida in un sistema liquido. Senza cultura e ordine sistemico, i singoli soggetti si sentono abbandonati in una obbligata solitudine: vale per l’imprenditore come per la famiglia. E si fa strada un fatalismo cinico. Dice il Rapporto del Censis: ” La profonda crisi della cultura sistemica induce a una ulteriore propensione della nostra società a vivere in orizzontale. Interessi e comportamenti individuali e collettivi si aggregano in mondi non dialoganti. Non comunicando in verticale, restano mondi che vivono in se stessi e di se stessi. L’attuale realtà italiana si può definire come una «società delle sette giare», cioè contenitori caratterizzati da una ricca potenza interna, mondi in cui le dinamiche più significative avvengono all’interno del loro parallelo sobollire, ma senza processi esterni di scambio e di dialettica. Le sette giare sono: i poteri sovranazionali, la politica nazionale, le sedi istituzionali, le minoranze vitali, la gente del quotidiano, il sommerso, il mondo della comunicazione”.

Per il Rapporto le sette giare “vanno connesse tramite una crescita della politica come funzione di rispecchiamento e orientamento della società, come arte di guida e non coazione di comando, riprendendo la sua funzione di promotore dell’interesse collettivo, se si vuole evitare che la dinamica tutta interna alle sette giare porti a una perdita di energia collettiva, a una inerte accettazione dell’esistente, al consolidamento della deflazione che stiamo attraversando. Una deflazione economica, ma anche delle aspettative individuali e collettive, della mobilità verticale individuale e di gruppo, della rappresentanza degli interessi, della capacità di governo ordinario (malgrado la proliferazione decretizia di tipo verticistico)”.

Il capitolo «La società italiana al 2014» è intitolato: “Una società satura dal capitale inagito, rischio deflazione delle aspettative” e ha come sottotitoli: “Desideri sospesi per famiglie e imprese. Contante, soldi fermi sui conti correnti e ri-sommersione nel nero come strategie adattative di fronte all’incertezza. Investimenti ai minimi dal dopoguerra, ma crescono patrimonio e liquidità delle imprese che ce l’hanno fatta. È l’Italia del «bado solo a me stesso».

Dopo la paura della crisi, e convinti che il grosso della crisi sia alle spalle, tra gli italiani prevale l’incertezza. Quindi le famiglie incrementano i contanti e i depositi bancari. A giugno 2014 questa liquidità è cresciuta fino a 1.219 miliardi di euro. Si risparmia perché si ha paura di imprevisti, tipo la perdita del lavoro o una malattia, o perché c’è voglia di sentirsi le spalle coperte. Si vogliono tenere i soldi vicini per ogni evenienza. La gestione del contante è una risposta all’incertezza; ma il contante vuol dire anche informale, nero, sommerso, reddito non tassato. In Italia si continua a pensare che per riuscire nella vita servano le conoscenze giuste o il provenire da una famiglia benestante; solo il 7% pensa all’intelligenza come fattore per l’ascesa sociale ed è il valore più basso in tutta l’U. E..

Dal 2008 si è registrata una flessione degli investimenti di circa un quarto. Si sono ridotti gli investimenti in hardware, costruzioni, mezzi di trasporto, macchinari e attrezzature. Dal 2007 al 2013 la mancata spesa per investimenti è stata superiore a 333 miliardi di euro. L’incidenza degli investimenti fissi lordi sul Pil si è ridotta al 17,8%: il minimo dal dopoguerra (16,4% nel 1947, 17,3% nel 1948, poi 19,1% nel 1949). Ma questa flessione delle spese produttive, dovuta alla recessione e alle aspettative negative, non ha voluto dire un analogo peggioramento dei conti delle imprese che hanno tenuto. Dal 2008 a oggi il margine operativo lordo delle imprese è rimasto elevato, il patrimonio netto delle imprese è aumentato, come le risorse liquide disponibili, passate dai 238 miliardi di euro del 2008 ai 279 miliardi del 2013 (+17,3%). Il grande capitalismo familiare italiano appare declinante, mentre cresce il microcapitalismo di territorio. Nel primo semestre del 2014 le esportazioni degli oltre 100 distretti industriali sono cresciute quasi 4 volte in più di quelle dell’export manifatturiero.

Si dissipa il capitale umano, che non riesce a diventare energia lavorativa; siamo cioè un paese dal capitale inagito che non utilizza i propri talenti. Ai 3 milioni di disoccupati vanno aggiunti 1,8 milioni di inattivi scoraggiati e 3 milioni di persone disponibili a lavorare, anche se non cercano attivamente un impiego. Sono quasi 8 milioni di persone: un enorme capitale umano non utilizzato. I giovani tra 15 e 34 anni sono il 50,9% dei disoccupati totali, e i NEET (15-29 anni) crescono da 1.832.000 nel 2007 a 2.415.000 nel 2013. Va poi aggiunto il capitale umano sottoutilizzato rappresentato dai 2.500.000 occupati part time involontari ( dato del 2013, raddoppiati rispetto al 2007) e dagli occupati in CIG (1,2 milioni di ore, equivalenti a 240.000 lavoratori sottoutilizzati. Il capitale umano sottoinquadrato, detto anche fenomeno dell’overeducation (lavoratori con posizioni per le quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore a quello posseduto), riguarda più di 4 milioni, il 19,5% dei lavoratori occupati. Tra di essi anche i laureati in scienze economiche e statistiche e anche un ingegnere su tre.

Il capitale inagito riguarda anche il patrimonio culturale del paese che viene messo a valore per una parte molto esigua. Paesi con minore patrimonio del nostro (Regno Unito, Francia, Germania, ecc.) hanno quasi tutti, mediamente il doppio degli occupati e del valore aggiunto e conoscono anche, a differenza nostra, un forte sviluppo del settore.

La estraneità dei soggetti alle dinamiche di sistema risalta nel rapporto con i media digitali personali. A fronte del 63,5% di italiani che utilizzano internet, gli utenti dei social network sono il 49% della popolazione e arrivano all’80% tra i più giovani di 14-29 anni. Delle 4,7 ore al giorno trascorse mediamente dagli italiani sul web, 2 ore sono dedicate ai social network. E il numero di chi accede a internet tramite telefono cellulare in un giorno medio (7,4 milioni di persone) è ormai più alto di quanti accedono solo da pc (5,3 milioni) o da entrambi (7,2 milioni). “La pratica diffusa del selfie è l’evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l’altro da sé”. “Non è contraddittorio quindi il dato che emerge da una rilevazione del Censis secondo cui la solitudine è oggi una componente strutturale della vita delle persone: il 47% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno per una media quotidiana di solitudine pari a 5 ore e 10 minuti. È come se ogni italiano vivesse in media 78 giorni di isolamento in un anno, senza la presenza fisica di alcuna altra persona”.

Di fronte a 86 decreti approvati dal Consiglio dei ministri dal 2011 ad oggi, il Censis parla della “trappola della promessa che non si traduce in processi reali (amministrativi, economici, sociali), il ricorso alla decretazione, l’aggiramento da parte della politica dei corpi intermedi e il parlare direttamente ai cittadini non hanno però portato al decollo dello sviluppo e dell’occupazione”.

Negli anni della crisi si sono ampliate le disuguaglianze sociali, il ceto medio si è indebolito, le opportunità di integrazione sono diminuite. Ed è grave lo slittamento verso il basso delle grandi città del Sud.

Gli immigrati imprenditori continuano a mostrare segnali di vitalità, soprattutto nel commercio e nell’artigianato. Nei sette anni della crisi, le imprese con titolare extracomunitario sono aumentate del 31,4%, mentre quelle gestite da italiani sono diminuite del 10%.

Prima della crisi gli investimenti diretti esteri si erano attestati su un livello superiore ai 30 miliardi di euro all’anno. Nel 2013 sono stati pari a 12,4 miliardi. È diminuita la nostra capacità di attrarre capitali stranieri per quegli investimenti che potrebbero rilanciare la crescita e favorire l’occupazione. Pesa lo svantaggio competitivo rappresentato dalle lungaggini delle procedure autorizzative per ottenere permessi e concessioni, e da quelle della giustizia civile quando si tratta di far valere un contratto commerciale.

Gli italiani si fidano poco dei poteri europei. Il nostro Paese pesa per il 12% in termini di popolazione sul totale dell’Unione a 28 Stati, ma nella mappa delle principali istituzioni europee gli italiani che oggi occupano posizioni di vertice sono 178 su 2.242 (l’8% del totale). Su 700 lobby attive in ambito finanziario a Bruxelles, più di 140 sono riconducibili al Regno Unito, mentre solo 30 organizzazioni sono italiane, a dimostrazione della nostra scarsa capacità di incidere nelle sedi strategiche di decisione.

L’interesse suscitato all’estero dall’Italia, sebbene non adeguatamente sfruttato, non conosce crisi. Siamo la quinta destinazione turistica al mondo, con 186,1 milioni di presenze turistiche straniere nel 2013 e 20,7 miliardi di euro spesi (+6,8% rispetto al 2012). L’export delle 4 A del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione) è aumentato del 30,1% tra il 2009 e il 2013.

Il successo di cibo e vini italiani nel mondo è uno degli indicatori più significativi del fortissimo appeal del nostro stile di vita. L’Italian food, inteso come “rapporto con il territorio, autenticità, qualità, sostenibilità, è uno straordinario ambasciatore del nostro Paese nel mondo globalizzato”. Il made in Italy agroalimentare è una delle componenti più dinamiche dell’export: 27,4 miliardi di euro nel 2013, con un aumento del 26,9% rispetto al 2007.

Nel Capitolo “Lavoro, professionalità, rappresentanze” del Rapporto si esamina il tema dell’occupazione e di come esso rivesta un dato di debolezza e di emergenza ormai permanente.

Una costante consolidata nei vari paesi europei è che più è alto il tasso di occupazione, più è alta la quota dei contratti part time e dei contratti a tempo determinato. Da noi, nel 2013, il tasso di occupazione ha toccato il 59,8%, con il part time a quota 17,9% e i contratti a termine al 13,2% del totale.

In questi anni di crisi molte aziende hanno avviato processi di ristrutturazione, cambiando l’organizzazione aziendale, assumendo nuove professionalità e riqualificando il personale. Si sono rivisti i processi di lavoro, gli orari, il sistema di valutazione e i meccanismi premiali, con l’obiettivo di rimettere il lavoro in movimento, ripartendo dal valore delle competenze.

Anche tra i giovani cresce l’intenzione di crearsi il lavoro, in particolare partendo dalle maggiori opportunità favorite dalle nuove tecnologie: il 22% ha avviato una start up o intende seriamente farlo nei prossimi anni.

L’ultima riforma delle pensioni ha prodotto dal 2011 ad oggi questo risultato: + 19,1% di occupati over 50 e – 11,5% di occupati di chi ha un’età inferiore ai 50 anni. Tra gli inattivi over 50 (17 milioni) ben 14 milioni si dichiarano indisponibili al lavoro Circa 700.000 over 50 (di cui più della metà donne) non cercano lavoro, ma sarebbero disponibili a lavorare a certe condizioni, per potere integrare il reddito o affrontare spese impreviste.

Mentre ieri le identità lavorative erano nette, con profili tipo operaio, impiegato, professionista, ecc., oggi sono sempre più ibride con identità e aree di lavoro che interessano ormai circa 3,4 milioni di occupati (15,1%) fatti di temporanei, intermittenti, collaboratori, finte partite Iva e pestatori d’opera occasionale. Tra gli occupati di 15-24 anni la quota di ibridi supera la maggioranza con il 50,7%. Aumentano anche i tempi di non lavoro, con entrate e uscite dall’attività lavorativa. Il lavoro diventa una somma di esperienze, spesso intermittenti che non danno più percorsi di identità professionale. Conseguentemente anche i soggetti di rappresentanza vanno in crisi di identità, perché svuotati di ruolo e perché incapaci di portare a unico modello di riferimento realtà sociali sempre più complesse e poliedriche.

Nel Capitolo “I soggetti economici dello sviluppo” è il manifatturiero italiano ad essere messo sotto esame. Tra il 2008 e la fine del 2014 sono chiuse più di 47.000 aziende manifatturiere (l’8% del totale). Questa tendenza non è finita: anche nel 2014 infatti la chiusure sono state 5.700 (-1,1%). Nonostante questa situazione l’export ha risultati molto positivi. In particolare i distretti produttivi hanno avuto incrementi importanti (+ 4,2% nel 1° semestre 2014) e nella prima parte del 2014 i valori dell’export distrettuale sono stati superiori a 42 miliardi di €, i più elevati di sempre.

Tra il 2009 e la prima metà del 2014 la nostra quota sul commercio mondiale è scesa dal 3,6% al 2,8%, ma stiamo risalendo sul versante export. Siamo l’undicesimo paese esportatore a livello mondiale e al quarto tra i paesi UE; a molti prodotti made in Italy viene associata la caratteristica di qualità e questa diventa la nuova strada per la competizione.

Il Censis esegue una radiografia territoriale delle imprese che evidenzia le strade che esse hanno intrapreso per uscire dalla crisi e per svilupparsi:

– investire in conoscenza e innovazione;

– creare reti manifatturiere più capillari e la diffusione di nuove competenze utili contro la crisi;

– attuare una commistione tra industria e servizi avanzati.

Il Rapporto individua nella “white economy” – l’insieme di servizi, prodotti e professionalità dedicate alla salute e al benessere delle persone – una nuova opportunità per il sistema paese. Già oggi questo sistema (servizi di cura, diagnostica, farmaci, ricerca in campo medico e farmacologico, tecnologie biomedicali, assistenza a malati, disabili e anziani) che fattura 186 miliardi di € all’anno, con 2,7 milioni di lavoratori occupati, fa prevedere una forte crescita.

Nel 2013 le spese complessive degli italiani sono su livelli inferiori a quelli dei primi anni 2000. Anche per il 2014 i consumi hanno registrato una variazione negativa, sia nel primo che nel secondo trimestre (-3,6% e – 2,9%). Dal 2010 tutte le voci sono in negativo, tranne quelle per la telefonia e le comunicazioni. Le famiglie cercano di ridurre gli sprechi, spendere meglio e risparmiare: infatti se per ipotesi esse disponessero di risorse più elevate, nel 77% dei casi le metterebbero da parte, vanificando in tal modo ogni effetto sulla propensione al consumo.

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