Nel Gennaio scorso abbiamo esaminato le tematiche delle retribuzioni e della distribuzione del reddito alla luce di tutti i dati disponibili, prevalentemente dell’Istat, pubblicati nel 2011.
Allora si delineava un andamento nella distribuzione del reddito, dei salari, del risparmio e dei consumi di tendenziale impoverimento della popolazione italiana, in un contesto di crescenti divaricazioni tra le punte minime e massime di ciascun fondamentale.
Oggi, – alla luce dei preoccupanti allarmi dell’Istat sul divario salario – prezzi che segna un livello record per gli ultimi 15 anni, ed ai dati dell’Ocse sugli stipendi e salari in Italia, rapportati a quelli degli altri paesi aderenti a tale organizzazione – pensiamo sia opportuno aggiornare l’esame che facemmo nei primi giorni dell’anno in corso.
Questo ci aiuterà a capire meglio la situazione economico sociale del nostro paese, soprattutto in rapporto alla crisi economica che dura ormai da 5 anni, ci colpisce particolarmente e sembra non declinare.
Ma vediamo in premessa i campanelli d’allarme suonati in questi giorni.
Il primo è rappresentato dai dati dell’Istat sulle retribuzioni contrattuali che a Marzo 2012 registrano una differenza del 2,1% tra aumenti retributivi (+1,2%) e tasso di inflazione su base annua (+3,3%).
Per trovare una differenza così ampia bisogna risalire almeno al 1983 (anno di avvio di queste rilevazioni).
E’ da notare che, mentre le retribuzioni orarie crescono dell’1,7% nel settore privato, hanno invece una crescita nulla nell’agricoltura, nella pubblica amministrazione, nel credito e nelle assicurazioni.
Da un lato quindi l’Istat ci dice che le retribuzioni non reggono l’aumento dell’inflazione, mentre dall’altro, dati negativi arrivano dal Rapporto annuale dell’Ocse “Taxing wages”, secondo il quale la retribuzione netta media annua nel 2011 in Italia è al 23° posto su 34 con 19.034 € per un lavoratore single senza figli
Ma le retribuzioni sono tra le più basse d’Europa al netto, mentre al lordo sono praticamente nella media degli altri paesi.
Questo è l’effetto della tassazione del lavoro dipendente che vede il nostro paese al 6° posto per l’incidenza.
Il cuneo fiscale da noi (la differenza tra quanto paga il datore di lavoro e quanto entra in tasca del lavoratore, al netto di tasse e contributi sociali) è del 47,6%.
Su questo dato sono ben 11 anni che l’Italia è sopra la media Ocse, di più del 10% l’anno.
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Ripercorriamo allora la situazione economica e del lavoro, con particolare attenzione ai temi delle retribuzioni e del reddito ed aggiornando il quadro, sopra citato, di fine 2011.
Per quanto riguarda il reddito e risparmio delle famiglie, nel 2011 la loro propensione al risparmio(rapporto tra il risparmio lordo delle famiglie e il loro reddito disponibile) si è attestata al 12%, il valore più basso dal 1995, mentre il reddito disponibile in valori correnti è aumentato del 2,1%; se si tiene però conto dell’inflazione, il loro potere di acquisto nel 2011 è diminuito dello 0,5%.
Per quanto riguarda i profitti delle società, nel 2011 la quota di profitto delle società non finanziarie (data dal rapporto tra il risultato lordo di gestione e il valore aggiunto lordo ai prezzi base) si è attestata al 40,4%, il valore più basso dal 1995, con un meno 1,1 percentuale rispetto all’anno precedente.
Nel 2011, l’attività di investimento delle società non finanziarie è diminuita rispetto all’anno precedente; gli investimenti fissi lordi, che nel 2010 avevano visto un + 8%, sono aumentatisolo dell’1,6%.
Per quanto attiene alla tematica del reddito e delle condizioni di vita, non ci sono ulteriori rapporti dell’Istat oltre a quello per l’anno 2010. Quindi per i dati sulla povertà, sull’esclusione sociale, sui rischi e sulle difficoltà economiche delle famiglie si rinvia all’articolo citato.
A questo riguardo sono importanti i dati che cominciano ad emergere dal censimento 2011: tra il 2001 e il 2011 le famiglie residenti nel paese sono aumentate da 21.810.676 a 24.512.012. Si è ridotto invece il numero medio dei componenti per famiglia da 2,6 a 2,4 persone.
Le abitazioni sono 28.863.604 , di cui 23.998.381 occupate da residenti. Le famiglie che risiedono in baracche, roulotte, tende ecc. sono 71.101, in forte aumento sul 2001 (erano 23.336).
Anche per quanto riguarda la struttura del costo del lavoro, purtroppo, i Report dell’Istat si fermano allo studio, pubblicato a fine settembre 2011, sulle retribuzioni del 2008 e non ci sono ancora studi ed analisi sugli anni successivi.
Si rinvia quindi all’articolo citato per i dati analitici sulla composizione del costo del lavoro, sulle ore lavorate, sulle retribuzioni lorde e nette per i vari settori
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Sono invece aggiornati ad Aprile 2012 i dati sui contratti collettivi e retribuzioni contrattuali.
Alla fine di marzo 2012 i contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore corrispondono al 67,4% dei lavoratori dipendenti e al 61,8% del monte retributivo relativo.
Alla fine di marzo la quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è del 32,6% rispetto all’insieme dei settori e del 12,3% nel settore privato. L’attesa del rinnovo per i lavoratori che hanno il contratto scaduto è, mediamente, di 27 mesi.
In totale, i contratti da rinnovare sono 36 – di cui 16 appartenenti alla pubblica amministrazione – relativi a circa 4,3 milioni di lavoratori (di cui circa tre milioni del pubblico impiego).
Da gennaio 2010 tutti i contratti della pubblica amministrazione sono scaduti e la legge 122/2010, art. 9 comma 7, stabilisce il blocco delle procedure contrattuali relative al triennio 2010-2012.
Abbiamo già affrontato il tema delle retribuzioni contrattuali in altra parte dell’articolo.
Va solo ricordato che nel 2011 le retribuzioni medie aumentano del 2,2% rispetto al 2010, mentre gli oneri sociali crescono del 2,5%. In media d’anno l’aumento del costo del lavoro è del 2,3%.
L’occupazione nelle grandi imprese nel Marzo 2012, depurata della stagionalità, è stabile rispetto a Febbraio sia al lordo, sia al netto dei dipendenti in Cassa integrazione guadagni (Cig).
Rispetto a Marzo 2010 l’occupazione nelle grandi imprese scende dello 0,7% al lordo dei dipendenti in Cig e dello 0,2% al netto dei dipendenti in Cig.
Sempre rispetto a Marzo 2010, a parità di calendario, si registra una diminuzione del numero di ore lavorate per dipendente (al netto della Cig) dell’1,2%.
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Di grande interesse e novità è il Report pubblicato dall’Istat ad Aprile 2012 su: “ Disoccupati, inattivi, sottoccupati.” Infatti dal 2011 l’Ufficio statistico dell’Unione europea (Eurostat) ha previsto che annualmente si diffondano alcuni indicatori complementari al tasso di disoccupazione.
Gli indicatori sono calcolati sulla base dell’indagine sulle forze di lavoro divisa in tre gruppi (occupati, disoccupati, inattivi) secondo i criteri definiti dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) e recepiti dai Regolamenti comunitari.
Per rappresentare la realtà del mercato del lavoro si intende andare oltre la distinzione tra occupati, disoccupati e inattivi, con l’ausilio di indicatori complementari. I primi riguardano due segmenti di inattivi:
– coloro che non cercano attivamente un lavoro, ma sono disponibili a lavorare;
– coloro che cercano lavoro ma non sono subito disponibili.
La somma di questi due segmenti rappresenta le “forze di lavoro potenziali”
Un terzo indicatore è calcolato tenendo conto di quanti lavorano con un orario ridotto non per propria scelta, e vorrebbero lavorare più ore, i quali vengono definiti “sottoccupati part time.”
Nel 2011 gli inattivi che non cercano un impiego ma sono disponibili a lavorare sono 2 milioni 897 mila, con un incremento del 4,8% (+133 mila unità) rispetto al 2010. Gli inattivi, rispetto alle forze di lavoro, crescono tra il 2010 e il 2011, passando dall’11,1% all’11,6%, dato tre volte superiore a quello medio europeo (3,6%).
Gli inattivi sono inclini allo scoraggiamento: il 43% di loro (circa 1,2 milioni di unità) dichiara di non aver cercato un impiego perché convinto di non riuscire a trovarlo.
Gli inattivi che non cercano un impiego (2 milioni 108 mila nel 2011) sono di più dei disoccupati, mentre in Europa, invece, i disoccupati risultano il doppio degli inattivi.
Nel 2011, gli inattivi che cercano un impiego ma non sono disponibili a lavorare sono 121 mila unità (-4,4%, 6 mila in meno nell’anno).
Sommando le forze di lavoro potenziali ai disoccupati si ottengono le persone “potenzialmente impiegabili” nel processo produttivo: nel 2011 circa 5 milioni di unità.
Sempre nel 2011, i sottoccupati part time sono 451 mila unità (+3,9%, 17 mila in più sul 2010) e rappresentano l’1,8% del totale delle forze di lavoro.
Sul mercato del lavoro, dopo 2 anni di calo, nel 2011 l’occupazione ha avuto un leggero aumento (+0,4%, +95.000 in più sul 2010). E’ aumentata l’occupazione straniera (+170.000 unità), mentre è diminuita quella italiana (-75.000 unità): il tutto concentrato nella sola componente maschile.
Nel 2011, si è ridotta di molto l’occupazione nella fascia d’età 15-34 anni (-233.000 unità), è aumentata quella dei 35-54enni (+36.000 unità) e quella con almeno 55 anni di età (+122.000 unità).
Nel 2011 è continuata la diminuzione dell’occupazione giovanile: nella classe 18-29 anni si contano 87.000 occupati in meno (-2,7%). Dal 2008 si sono perse 569.000 unità giovanili ed il tasso di occupazione è sceso dal 47,7% del 2008 al 41% del 2011, una riduzione quattro volte quella media.
Nel 2011 è ancora diminuita l’occupazione a tempo pieno (-0,1%, pari a -19.000 sul 2010), è ancora aumentato il lavoro part time (+3,3%, pari a +114.000 unità), ma quello involontario, cioè accettato in mancanza di un lavoro a tempo pieno. Le imprese, dal canto loro, preferiscono assumere con contratti a tempo determinato (pari nel 2011 al 13,4% dell’occupazione, contro il 12,8% nel 2010). Nei mesi finali del 2011 il recupero dell’occupazione si è bloccato in quanto gli occupati, nel quarto trimestre del 2011, sono scesi dello 0,1%. La tendenza negativa è continuata nei primi due mesi del 2012, nei quali è cresciuto anche l’utilizzo della CIG.
Nel 2011 la disoccupazione è stata mediamente sull’8,4%; nel febbraio del 2012 il tasso è al 9,3%, il più elevato dal gennaio 2004. Il tasso di disoccupazione femminile è più alto di quello maschile (a febbraio 2012, il 10,3% contro l’8,6%). Si allunga la durata media della disoccupazione, con un’attesa di almeno 12 mesi per un nuovo lavoro nel 50% dei casi.
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La situazione di criticità del nostro paese è infine ribadita dal Rapporto Ocse (2011), Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising, con una nota sull’Italia, pubblicato alla fine del 2011.
Si rileva che la disuguaglianza dei redditi tra le persone in età lavorativa è aumentata drasticamente a partire dai primi anni Novanta ed è proseguita fino ad oggi. Si registrano le seguenti caratteristiche nella situazione italiana.
”La proporzione dei redditi più elevati è aumentata di più di un terzo.
E’ cresciuto un ruolo maggiore del reddito da lavoro autonomo.
I lavoratori meglio pagati lavorano più ore.
Sempre più persone si sposano con persone con redditi da lavoro simili ai loro
La redistribuzione attraverso i servizi pubblici è diminuita.”
Il Rapporto “Divided We Stand” detta, a partire dal 2012, delle “Raccomandazioni politiche fondamentali per i paesi dell’OCSE” qui riportate integralmente:
“ L’occupazione è il modo migliore per ridurre le disparità. La sfida principale consiste nel creare posti di lavoro qualitativamente e quantitativamente migliori, che offrano buone prospettive di carriera e la possibilità concreta di sfuggire alla povertà.
È essenziale investire nelle risorse umane, un processo che deve iniziare dalla prima infanzia ed essere sostenuto per tutto il ciclo di istruzione obbligatoria. Una volta realizzata la transizione dalla scuola al lavoro, occorre fornire incentivi sufficienti affinché tanto i lavoratori che i datori di lavoro investano nelle competenze lungo l’intero arco della vita lavorativa.
La riforma delle politiche fiscali e previdenziali costituisce lo strumento più diretto per accrescere gli effetti redistributivi. Perdite ampie e persistenti di reddito per i gruppi a basso reddito in coincidenza con le fasi recessive evidenziano l’importanza del ruolo degli ammortizzatori sociali, dei trasferimenti pubblici e delle politiche di sostegno del reddito. Tali meccanismi devono essere ben congegnati al fine di ottenere i risultati sperati.
La quota crescente di reddito per la popolazione con le retribuzioni più elevate suggerisce che la sua capacità contributiva è aumentata. In tale contesto, le autorità potrebbero riesaminare il ruolo redistributivo della fiscalità onde assicurare che i soggetti più abbienti contribuiscano in giusta misura al pagamento degli oneri impositivi.
L’offerta di servizi pubblici gratuiti e di qualità elevata in ambiti quali l’istruzione, la sanità e l’assistenza familiare riveste un ruolo importante.”
Abbiamo riprodotto fedelmente le indicazioni finali del Rapporto Ocse in quanto è difficile essere in disaccordo questa volta con le ricette di questa Organizzazione.
Peccato che le politiche di risanamento e per l’uscita dalla crisi adottate dal Governo non siano adeguate, o peggio, vadano in direzione opposta a tutte le indicazioni raccomandate dall’Ocse su come ridurre le diseguaglianze.
E’ difficile infatti pensare che si possa raddrizzare la situazione economica sociale di questo paese con più precari, più disoccupati, più poveri, più baraccati, con meno ammortizzatori sociali legati alla riqualificazione, meno politica industriale e meno sviluppo, meno istruzione e ricerca, meno cultura, meno arricchimento delle risorse umane, meno welfare, meno servizi sociali.
E per quanto riguarda le risorse per tutto ciò, non si può più eludere, in un paese dove più del 90% degli occupati hanno il sostituto d’imposta e lavorano gratis 6 mesi in favore dello Stato, che ci siano annualmente 120 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione, 350 miliardi di economia sommersa, gli stimati (sembra per difetto) 500 miliardi esportati nei paradisi fiscali per non pagare le tasse, i costi per gli incidenti sul lavoro, il costo dell’abusivismo ambientale ed edilizio, i costi di una criminalità organizzata che sottrae sviluppo.
E poi, come riportato dall’inchiesta di Nunzia Penelope, “più della metà delle aziende italiane, di cui ben 320 banche, hanno una sede in qualche paradiso fiscale non solo per ottimizzare il carico fiscale, ma anche per creare partite di giro per nascondere risorse finanziarie.” Come è dimostrato da ormai centinaia di casi portati alla luce dalla Magistratura.
E infine se tutti i lavoratori dipendenti e tutti i pensionati pagano fino all’ultimo euro, perché non tassare anche i patrimoni al di sopra di un limite fissato, avviando un’opera di redistribuzione della ricchezza detassando i redditi più bassi e prossimi alla soglia di povertà?
Perché non avviare finalmente una vera e sistematica lotta all’evasione ed al lavoro nero?
Se, come ci dice la Banca d’Italia, il 10% degli italiani possiede circa il 50% della ricchezza nazionale, e se negli ultimi 10 anni più di 10 punti di ricchezza si sono trasferiti dalle retribuzioni alle rendite, allora una redistribuzione non solo è auspicabile, ma è indispensabile per uscire dalla crisi e rilanciare il paese. Con il calo dei redditi e dei consumi di gran parte delle famiglie infatti, la domanda interna non riparte e si rischia il collasso non solo del sistema produttivo, ma anche del tessuto sociale del paese.
Ferruccio Pelos