Salario minimo fuori dai contratti nazionali? No grazie!

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Ci risiamo. In ogni epoca troviamo risposte semplici a problemi complessi. Nel secolo scorso abbiamo avuto le baby pensioni, i prepensionamenti, i lavori socialmente utili, le assunzioni facili nella P.A., ecc. Qualcuno si dimentica che i precari nella P.A. Non sono un’invenzione recente ma nascono con il ministro Stammati nel 1979. Anche allora c’è chi le aveva ritenute risposte a problemi specifici e altrimenti irrisolvibili. Sostenere economicamente giovani e meno giovani in un Paese con il nostro tessuto produttivo e occupazionale significa condannarli all’esclusione dal mercato del lavoro e magari, trovarci tra qualche decennio con i “nostri” inattivi e assistiti e, al loro potenziale posto, lavoratori di altri Paesi che manifesteranno perché stanchi di pagarne i contributi previdenziali… Il punto oggi non è trovare le scorciatoie ma affrontare i problemi. Il Presidente dell’Inps ci dice che, purtroppo, ritrova un lavoro un over cinquanta su dieci ma, in questo modo, rischia di confondere la malattia con la cura. Secondo me, al contrario, occorrerebbe intervenire su più fronti evitando assolutamente forme di neo assistenzialismo. Ad esempio con sgravi fiscali finalizzati, forme di job sharing e/o di staffetta generazionale, riqualificazione professionale, sostegno economico a progetti individuali, ecc. Insomma occorrerebbe impegnarci tutti per contribuire a creare lavoro. Non sostituirlo con palliativi.

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C’è un rapporto tra età e diritti?

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Di Vico, oggi sul corriere, all’interno di un ragionamento sulla vertenza Ikea, si pone una domanda interessante: c’è una relazione tra l’età (circa quarant’anni) degli amministratori delegati di whirpool e Ikea e l’insofferenza verso le nostre liturgie sindacali? È ovvio che la risposta è: si. C’è una grande insofferenza ma non solo data dall’età. E non riguarda solo i CEO. La ragione è molto semplice. Lo schema classico dell’azione sindacale (obiettivo, lotta, risultato) è andato in crisi da quando i rapporti di forza, favorevoli alle organizzazioni sindacali sono venuti meno a causa di elementi di contesto. Inoltre ci sono stati anche pesanti errori di strategia politico sindacali la cui ultima intuizione positiva (per gli anni in cui si è prodotta) è stata la stagione della concertazione. Il vuoto che ne è seguito ha spinto inevitabilmente le imprese a riempirlo. La crisi è la mancanza di lavoro hanno fatto il resto. E quindi intorno alla contrattazione (cioè intorno alle modalità distributive delle risorse destinate al lavoro) si è spostato lo scontro. Da un lato chi vuole disporre di temi, tempi e modalità di coinvolgimento dei lavoratori in modo selettivo e quindi unilaterale semmai coinvolgendo in un secondo tempo le rappresentanze sindacali, e, dall’altro chi non avendo idee e progetti all’altezza della situazione si limita a impedire, ritardare o difendere ciò che ha. E questo indipendentemente dal fatto che ciò che ha non riguarda tutti i lavoratori né, ovviamente, chi lavoratore vorrebbe diventare anche se per brevi periodi. È la legge del pendolo. A questo si aggiunge l’età (degli amministratori delegati, dei dirigenti e dei nuovi lavoratori spesso non dei sindacalisti). L’età “mitizza” le conquiste e le difficoltà che furono necessarie per ottenerle. I sacrifici, i licenziamenti e le emarginazioni subite. Per questo l’età rende tutto maledettamente simbolico. L’articolo 18, il contratto aziendale, i diritti acquisiti. E questo impedisce qualsiasi cambiamento condiviso. Nei contenuti ma anche negli atteggiamenti. Ci deve essere sempre chi vince e chi perde. E questo non fa crescere né una nuova cultura dei diritti né la consapevolezza dei limiti dell’azione imprenditoriale. Chi vince prende tutto. Al contrario alle imprese servirebbe un sindacato consapevole, serio e costruttivo. Che non comporta necessariamente un sindacato subalterno. Un sindacato che ha una strategia riformista, che si batte contro il lavoro nero, sottopagato e contro le discriminazioni di genere o di razza. Ma che capisce la differenza tra chi investe e crea occupazione in contesti come questo e quindi propone anche una battaglia culturale con i propri iscritti per allargare opportunità e diritti magari a chi non li ha non pretendendo di estendere ciò che ha ottenuto in contesti storici ed economici differenti. Quel mondo è finito. Ma è la credibilità che si costruisce in situazioni dove hai ancora forza e la impieghi con intelligenza che fa e farà sempre di più la differenza.

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IKEA: uno dei tanti episodi del tafazzismo sindacale italiano.

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Ci risiamo. Ogni volta che un’azienda seria cerca di affrontare problematiche organizzative legate alla contrattazione aziendale c’è la solita reazione pavloviana delle organizzazioni sindacali di categoria. Basterebbero questi episodi per spiegare ai fautori del ritorno alla contrattazione aziendale a tutti i costi che si tratta di un percorso già visto e pure sbagliato dal punto di vista sociale. IKEA come molte altre aziende punta al rispetto del lavoro e dei collaboratori. Questo rispetto si basa sulla necessità di creare un rapporto adulto, collaborativo, utile a consolidare il lavoro migliorando il rapporto con il cliente che, entrando o meno in un punto vendita, ne decreta il successo o l’insuccesso. Quindi una prospettiva o la chiusura. Modificare un orario di lavoro o una indennità costruita in un contesto tayloristico nel secolo scorso, dovrebbe essere cosa semplice. No. Scatta il riflesso condizionato dal “diritto acquisito” contenuto nella contrattazione aziendale e negoziato oltre dieci anni fa che impedisce qualsiasi ragionamento positivo. L’azienda assume, si sviluppa e cresce? Chi se ne frega! Il punto è che lo deve fare non rimettendo in discussione accordi passati che oggi dimostrano tutti i loro limiti. Ma, per avere ascolto con i media, occorre ingigantire il problema è rappresentare IKEA come un’azienda retriva, ingiusta, tutta tesa al profitto e quindi “ingrata” verso i suoi collaboratori. Siamo alla caricatura. Siccome il problema non meriterebbe neanche un rigo di stampa si passa al romanzo sociale noir. Dove il cattivo è un’azienda matrigna che predica bene e razzola male mentre dall’altro lato la “plebe tradita” In difesa del Piave. Questa è purtroppo quella parte del Paese che vive ancora di liturgie, rappresentazioni, illusioni. La stessa, disarmata e attonita, che resta in silenzio a salutare l’addio di numerose multinazionali dietro roboanti quanto inutili striscioni. Verrà il tempo del buonsenso, della collaborazione e della condivisione? Per primi i dovrebbero accorgergersene i media raccontando altre storie. A me piacerebbe leggere questa: “I sindacati hanno indetto una assemblea all’IKEA per spiegare ai lavoratori l’importanza dello sviluppo e del lavoro e di come ci si deve riorganizzare per rispondere meglio ai clienti e favorire in questo modo la creazione di nuovi posti di lavoro.” Difficile? Verrà il giorno…..

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Oltre il welfare pubblico: uno spazio da ricostruire.

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La crisi del welfare pubblico è un problema non solo italiano. Nuove priorità rendono difficile il suo sostegno da parte degli Stati soprattutto della vecchia Europa. E quindi un suo forte ridimensionamento è prevedibile. Sanità, previdenza e istruzione saranno oggetto di continue riorganizzazioni che tenderanno ad escludere tutto ciò che potrà essere messo a carico del reddito dei cittadini. Quindi non poco a tutti ma semplicemente garantire, a chi è sotto una determinata fascia di reddito, una copertura “di cittadinanza”. E sopra? Senza alcun intervento tutto finirà in mano alle assicurazioni private. Fortunatamente tutto ciò non è inevitabile. Già oggi interi settori possono contare su forme di welfare contrattuale e, alcune grandi aziende, su forme promosse direttamente dall’impresa. Nel contratto del Terziario abbiamo Est, Fonte e Quadrifor. Nel Contratto Dirgenti del Terziario abbiamo i Fondi Pastore, Negri, Fasdac e Cfmt. Non sono i soli. In altri contratti abbiamo forme di previdenza integrativa e/o forme di assistenza sanitaria. Poco sulla formazione degli adulti, a parte i fondi interprofessionali. Queste forme di natura contrattuale hanno un futuro? Nel lungo periodo credo di no. Occorre andare oltre e pensare a forme intercategoriali aperte a tutti i cittadini che consentano di creare masse critiche ben più significative. In questo modo si creerebbe una situazione di indubbio vantaggio per l’iscritto che godrebbe di condizioni ben più favorevoli di quelle proposte dalle assicurazioni, di possibili sgravi fiscali significativi per l’effetto sostituzione di parte dei costi del welfare pubblico per lo Stato e, ultimo ma non ultimo, un offerta di servizi integrati di natura privatistica di buon livello. Occorre però muoversi rapidamente per evitare di discutere di questi temi in situazione di emergenza economica.

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Contrattazione aziendale: opportunità o “trappola”?

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Di questi tempi sembra la panacea di tutti i mali. Nel sistema di relazioni sindacali nessuno ci aveva pensato fino ad oggi: la contrattazione deve essere in azienda. È l’uovo di Colombo. È in azienda che si crea la ricchezza e quindi è lì che deve essere distribuita. Basta con i contratti nazionali. Soprattutto basta con due livelli di contrattazione. Uno è più che sufficiente. E così, per evitare di affrontare il problema principale che riguarda quali materie ha senso affrontare in azienda e quali ad altro livello si preferisce “gettare il bambino con l’acqua sporca”. La contrattazione in azienda. In Italia, nasce come intuizione della CISL negli anni ’50. Non sostituiva la contrattazione che faticosamente si stava affermando ad altri livelli ma la integra sui temi legati alla specificità della singola realtà produttiva. Ovviamente si afferma nelle realtà medio grandi inizialmente sui temi della produttività, del cottimo ma, via via, si allarga su altre tematiche trasformando i principali contratti aziendali in “anteprime” di ciò che i sindacati avrebbero poi posto sui differenti tavoli negoziali nella contrattazione nazionale. Quindi uno strumento che all’inizio integrava ciò che il CCNL non poteva garantire né prevedere si è poi trasformato in altra cosa. Spesso molto costosa. E anche quando nei contratti nazionali si cominciò ad introdurre elementi di moderazione salariale e normativa i contratti aziendali hanno sempre mantenuto il loro carico di costi e di appesantimenti organizzativi (i cosiddetti diritti acquisiti). Ovviamente i fautori del ritorno al passato (guarda caso non i Sindacati), pensano ad una contrattazione aziendale di tipo esclusivamente “concessivo” improntata cioé allo scambio tra salario legato alla produttività individuale e/o di sito e modalità di lavoro decisi unilateralmente dall’azienda. È il caso Fiat. Non si chiede di condividere strategie e obiettivi e di collaborare alla loro realizzazione. Si chiede di scommettere esclusivamente sulla lungimiranza di uno specifico management. Un po’ poco. È una visione che non determina una crescita culturale, collaborativa e costruttiva dei lavoratori. E quindi non è lungimirante. Oggi è così e sembra tutto semplice ma domani, se dovessero cambiare i rapporti di forza, riesploderebbero le contraddizioni in maniera identica a quelle che hanno determinato la degenerazione del sistema attuale della contrattazione aziendale. Senza la crescita di una cultura della collaborazione, della partecipazione e della condivisione, non ha alcun senso imporre regole e luoghi deputati al negoziato. Il secondo problema è legato alla volatilità del secondo livello di contrattazione. Chi può negozia a proprio vantaggio e chi non può subisce? Attenzione! Da entrambe le parti. il terzo problema è il dumping contrattuale. Chi non contratta avrà meno costi. Quindi molte aziende tenderanno a non contrattare. È così mi aspetto che qualche esperto ne proponga l’obbigatorietà con tutti i disastri che una determinazione di questo tipo può portare con sé.. Aziende grandi, piccole, piccolissime. Aziende che forniscono altre aziende, aziende che esportano. I due livelli servono proprio a garantire differenze e specificità. Il secondo non è obbligatorio ma non può sostituire il CCNL che, invece, garantisce un salario minimo, un inquadramento corretto e, spesso, un welfare decoroso. Quindi io andrei piano a sostituire il primo con il secondo livello contrattuale. Così come andrei piano a mettere in crisi un sistema contrattuale che ha i suoi equilibri. Lavorerei sulle materie e sulle deroghe. Cosa può o non può essere oggetto di negoziazione al primo e al secondo livello ma, soprattutto, cosa può essere derogato del CCNL nella contrattazione aziendale. Da chi? Ovviamente da chi sottoscrive il CCNL di categoria. Ne basterebbero quattro. Industria, terziario, artigianato e agricoltura. Le parti comuni semplificate perché sono uguali per tutti (ferie, malattia, ecc.) le specificità di settore prevedendo anche specificità di comparto o di dimensione aziendale. Regole certe uguali per tutti con la possibilità di lavorare su modalità e specificità aziendali, territoriali e/o di comparto. Il resto sono furbizie dalle gambe corte o fumo creato ad arte per non affrontare i problemi veri.

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Essere in gamba non basta più.

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Si parla tanto di meritocrazia. Spesso a vanvera. E, i non meritevoli sono, quasi sempre, gli altri. A volte è vero. Ma a noi, chi ci conosce? Questo è il punto. Essere “bravi” non basta più. Bisogna che altri lo sappiano o, almeno, siano interessati a saperlo. Colleghi, gestori delle risorse umane, capi, amici, fornitori, clienti, professori e consulenti sono i nostri potenziali head hunter. Oltre a quelli veri. Le società di selezione e tutti coloro che hanno la possibilità di proporre, suggerire e valutare le nostre capacità e le nostre competenze. Quanto tempo dedichiamo a coltivare queste relazioni? Poco o nulla se osserviamo la realtà. Ce ne rendiamo conto quando è troppo tardi. E dopo è difficile recuperare il tempo perduto. La soluzione è semplice. Occorre dedicare alla costruzione del sistema di relazione il tempo necessario. Quasi quotidiano. Fare spesso il punto su chi conosciamo e chiederci se ci apprezza e ci conosce professionalmente. Perché, ad esempio, ad un colloquio di lavoro cerchiamo di essere puntuali, educati e professionali mentre ce ne dimentichiamo quando navighiamo in rete, litighiamo per sciocchezze con il collega o non coltiviamo il rapporto con chi si occupa di risorse umane nella nostra azienda? Pensiamo di non avere tempo da perdere e, invece, ci attardiamo su comportamenti e attività secondarie. Un tempo era molto semplice. Il rapporto tra azienda “mamma” e collaboratore era più gestibile nella qualità e nella durata. Oggi no. Quindi occorre costruirsi un percorso che ci faccia conoscere e ci valorizzi negli anni. Personalmente ho sempre lavorato così e mi sono sempre trovato bene. Ho sempre saputo esattamente dove erano finiti i miei ex colleghi, i miei collaboratori, i giovani che ho assunto e gli HH che mi hanno apprezzato nel tempo. Organizzo spesso incontri o cene con colleghi con cui interagivo vent’anni fa. Anche con chi mi chiede favori. Frequento convegni, professori e consulenti avendo sempre in testa che sto investendo tempo. Non lo sto perdendo. E mi sono sempre trovano bene.

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39,40,46: numeri buoni per il lotto o vera modernizzazione del Paese?

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L’importanza e il rispetto della nostra Costituzione e la sua integrale applicazione sono spesso “agitate” da chi vorrebbe semplicemente utilizzare la Costituzione stessa per evitare qualsivoglia cambiamento e/o modernizzazione del nostro Paese. Spesso la polemica si incentra sull’articolo 1 e sulla mancanza del lavoro come elemento di non attuazione della Costituzione stessa. E siccome il lavoro manca e mancherà ancora a lungo ci si ferma alla denuncia e alla protesta evitando di approfondire il valore di altri articoli che aiuterebbero a modificare il quadro nel quale il lavoro si crea e si sviluppa. Parlo dell’articolo 39, 40 e 46. Il 39 parla della sostanziale certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali. Datoriali e dei lavoratori. Il 40 dell’esercizio del diritto di sciopero. E il 46 riconosce il valore dell’impresa. Bene. Un sistema dove la rappresentatività è certificata, lo sciopero è utilizzato come estrema ratio dalle organizzazioni sindacali e l’impresa ritorna ad essere un luogo riconosciuto dove si crea valore. Direi un altro mondo rispetto alla cultura del conflitto e della contrapposizione tanto in voga ancora oggi. O no?

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Unico, unitario, unito……

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Ci risiamo. Ogni volta che si rimette al centro un problema fondamentale del nostro Paese ci si rifugia nel significato ultimo delle parole per fare tre passi indietro. Renzi ha posto un problema. Ha senso avere tre sindacati confederali nel 2016? Domanda semplice con risposta altrettanto semplice: no. E allora anziché lavorare per superare le divergenze e ricostruire un moderno disegno riformista e unitario che dia una prospettiva vera al sindacalismo confederale si preferisce giocare sulle parole. Cgil, Cisl e Uil hanno forse una prospettiva continuando a “marciare divisi” senza riuscire, per autentica debolezza sociale delle singole organizzazioni a “colpire uniti”? Quello che manca è un vero disegno unitario degno di questo nome che sappia andare oltre la stagione della concertazione. Il lavoro oggi si difende contribuendo a crearlo. Nelle imprese e nel Paese. Una strategia collaborativa, riformista e moderna che è sempre stata condivisa nelle principali categorie dell’industria (escluso i metalmeccanici della CGIL). Questo sforzo deve riprendere superando l’esperienza negative e l’orgoglio di organizzazione. Per fare questo i nominalismi non servono. Servono dirigenti sindacali che sappiano guardare oltre al proprio orticello.

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Essere valutati e imparare a valutarsi. Prima che sia tardi…

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la ricerca di un sistema di valutazione oggettivo è sempre stato un tema che ha impegnato esperti RH, manager e studiosi della materia. Nel secolo scorso, in molte realtà aziendali, sono state via via trovate soluzioni e strumenti idonei a gestire le carriere, i cosiddetti kpeople, e la retention dei talenti che, soprattutto se cresciuti in azienda, non si volevano perdere. Poi, è cambiato tutto. Le trimestrali, la navigazione a vista, la crisi. Il mercato del lavoro ricco di professionalità disposte a accettare non uno ma tre passi indietro. Colleghi che “andavano a letto intelligenti e si svegliavano cretini” o viceversa. Questo rovesciamento del contesto ha spostato il baricentro anche della valutazione. Prima fondamentale per l’azienda e i suoi meccanismi di crescita interna, oggi meno determinante (ovviamente con le dovute eccezioni) per l’impresa ma sempre più decisiva per il manager e non solo. La necessità di restare sul mercato più a lungo, di trovarsi spesso in fasi di transizioni professionali e quindi di reinventarsi un valore sul mercato rende indispensabile sapersi valutare e sapere come e cosa proporre di sé. Il mercato non offre nulla di oggettivamente riconosciuto. A parlare è, innanzitutto, il proprio CV. Ma è indispensabile che qualcuno abbia voglia di leggerlo. Quindi il sistema di relazioni di ciascuno diventa centrale. Non basta ritenersi in gamba occorre che qualcuno lo riconosca. E siccome il mercato è inondato da CV “gonfiati” le referenze ritornano ad essere fondamentali. Un tempo bastava impegnarsi nella propria azienda. Oggi l’impegno non basta. Occorre farsi conoscere quindi dedicare tempo e energia a questa attività. Il mondo del lavoro è però in continua evoluzione. Occorre mantersi formati. Sempre. Occorre lavorare sulla propria impiegabilità. Per ciò che si fa oggi ma anche per ciò che si potrà fare domani. Quanti colleghi che oggi lavorano rischiano di essere disoccupati domani? E quanti tra chi è disoccupato oggi rimpiange ciò che non ha fatto ieri. Per queste e per altre ragioni occorre cambiare passo. Soprattutto per se stessi.

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Una “causa” giusta in un momento sbagliato?

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La recente sentenza che impone la restituzione della mancata indicizzazione delle pensioni pone una serie di questioni serie che andrebbero affrontate sia da chi si è battuto contro la decisione del Governo Monti sia da chi, forse con troppa fretta, ne proclama la illegittimità. Due categorie si sono particolarmente distinte. Gli opportunisti e i moralizzatori. Tra i primi occorre annoverare i parlamentari che allora votarono a favore del provvedimento e oggi si ergono a paladini della restituzione totale e immediata del maltolto. Tra i secondi chi, con troppa facilità liquida il problema ritenendolo dannoso per le finanze pubbliche e prodotto dei privilegi del sistema retributivo. Personalmente non condivido entrambe le tesi. La prima perché urlare oggi quello che si è sommessamente accettato poco tempo fa è immorale. La seconda perché occorrerebbero argomenti ben più sostanziosi che attaccarsi alla “cassa vuota” o lamentare altrui privilegi. Io credo che il problema sia, al contrario, molto serio.
1) il patto tra cittadino e Stato. L’ammontare della pensione è il risultato di un contesto legislativo dato. Non da una rapina a mano armata. Se quel patto deve essere rimesso in discussione non può riguardare solo alcuni contraenti ma tutti. Il parametro non può essere il reddito. È un parametro semplice ma profondamente sbagliato.
2) la restituzione del maltolto. Non possono esserci dubbi. Ciò che è stàto sottratto deve essere restituito. Si può discutere sul come è sul quando. Non sul se. Non è serio.
3) non ci sono le risorse. È una logica aberrante. Siccome non ci sarebbero le risorse si toglie a chi si presenta alla cassa in quel momento.
4) il retributivo è un privilegio. Altra follia. Prima dell’euro uno stipendio di 5 milioni al mese era uno stipendio importante. Lo sono 2500 euro di oggi? E cosa saranno tra dieci anni? Il retributivo è solo servito a correggere questi rischi. Ma i giovani avranno solo il contributivo. Chi lo dice? Ma veramente qualcuno di buon senso può pensare che fra trent’anni esisteranno solo pensioni da fame? Nessuno in buona fede può raccontarci queste favole. Così come oggi si è affrontato il tema degli esodati così in futuro ritornerà d’attualità il sistema previdenziale e il suo equilibrio sociale oltreché economico.
E allora che fare?
Condivido l’approccio del sindacato dei dirigenti (Manageritalia e federmanager).
Primo. Un torto è un torto e va superato. Come? Negoziando contenuto e gradualità necessaria. Con chi? Con chi ha promosso la causa. Come si fa quando i problemi si vogliono risolvere.

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