Geografia del nuovo Made in Italy

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C’è chi dice che l’Italia sia un Paese senza futuro. Che dietro l’angolo ci aspetti un ineluttabile declino, la perdita di posizioni nella competizione internazionale, il definitivo declassamento, dopo le glorie remote e recenti, a nazione satellite. Tesi che trova il sostegno di fonti autorevoli, nazionali e internazionali: “Il modello di specializzazione dell’Italia è molto simile a quello di Paesi emergenti come la Cina – dice l’ultimo rapporto, datato 4 aprile 2013, dedicato al nostro Paese dalla Commissione Europea – con la maggior parte del valore aggiunto in settori tradizionali a bassa tecnologia, principalmente a causa della limitata capacità innovativa delle imprese italiane”.

Ma l’Italia è davvero questa: scarsamente innovativa, in competizione al ribasso con i Paesi emergenti? Forse sì, se usiamo le lenti del pregiudizio, se ci accontentiamo di griglie di valutazione inadeguate, che magari inducono a sposare tesi come quella, tutta ideologica, che la ripresa passa per la modifica dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ma se al nostro Paese guardiamo con un po’ di simpatia e di affetto, e con un pizzico di curiosità e attenzione in più, la risposta è no, decisamente no.

Una delle eccellenze italiane, l’industria del mobile, soffre da anni di una crisi durissima. Attaccata prima dalla concorrenza, non sempre leale, dei paesi dell’Asia e di quelli dell’Est Europa. Poi dall’esplosione della bolla immobiliare, che ha affossato mercati strategici come quello statunitense. Poi la crisi globale, che – complice anche l’ostinazione ragionieristica del governo e dell’Europa sul rigore dei conti pubblici – ha mandato a picco il mercato nazionale. Tutto questo ha lasciato ferite molto profonde nel settore. Se l’Italia fosse quella adombrata da qualche pigro tecnocrate della Commissione Europea, dovremmo avere intorno solo macerie.

Non è così. Inaridito il mercato interno, le aziende si sono rimboccate la maniche, andando a cercare dove sinora non si erano spinte. A volte mettendo un piede, a volte conquistando, mercati promettenti: dai Paesi Arabi a quelli emergenti come Cina, India, Brasile, a piazze minori ma ricche di prospettive come Azerbaigian, Georgia. E hanno fatto innovazione, con l’ecodesign ad esempio. Così, pur senza raggiungere i livelli pre-crisi, dal 2009 l’export italiano di mobili è in costante crescita. Di cosa si tratta se non di capacità di reazione di fronte al mutare degli scenari? Di quella creatività e duttilità che sono il marchio di fabbrica del made in Italy?

L’Italia deve affrontare e risolvere tante questioni, non solo legate al pesante debito pubblico, che aggravano la crisi: le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, l’economia in nero e la criminalità, una macchina burocratica elefantiaca e spesso inefficace, gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, il ritardo di tante aree del Sud. Guai a sottovalutare, ma è un errore confondere tutto questo col posizionamento del Paese nel mondo.

Dietro i foschi pronostici internazionali e le lamentazioni delle prediche nazionali c’è altro, c’è una questione culturale: la pervasività di certi stereotipi disfattisti che, anche a non voler considerare gli effetti negativi sui mercati, non giovano certo a ridare speranza al Paese. E c’è anche una questione più tecnica, che ne è il riflesso: manca la capacità, la curiosità e la voglia di superare strumenti interpretativi inadeguati a cogliere quanto si agita nei nostri distretti, nei territori, nelle nuove realtà creative.

Se, ad esempio, continuiamo pretendere di misurare la competitività italiana con la quota di mercato detenuta nell’export mondiale – indicatore sempre meno rappresentativo, ma ancora oggi ritenuto erroneamente il principale parametro di riferimento – vedremo solo un’Italia in discesa libera. E saremo fuori strada. Se adottiamo invece come metro la bilancia commerciale dei prodotti, le cose cambiano: l’Italia è uno dei soli 5 Paesi del G-20 (con Cina, Germania, Giappone e Corea) ad avere un surplus strutturale con l’estero nei prodotti manufatti non alimentari. Vantiamo quasi 1000 prodotti in cui siamo tra i primi tre posti al mondo per saldo commerciale attivo con l’estero. Vuol dire che se pensiamo al mercato globale come a un’olimpiade, ai prodotti come discipline sportive in cui vince chi ha un export di gran lunga superiore all’import, l’Italia arriva a medaglia quasi mille volte. Meglio di noi solo Cina, Germania e Stati Uniti. Può essere questo l’identikit di un Paese dalla “limitata capacità innovativa”?

E infatti siamo stati, nel 2012, i secondi in Europa, dopo la Germania, per attivo manifatturiero con i Paesi extra-UE (proprio quei mercati emergenti che secondo la Commissione ci avrebbero mandato a picco). La maggior parte di questo surplus, poi, non proviene dai settori tradizionali (il tessile, le calzature, il mobile), ma dalla meccanica e dai mezzi di trasporto. Tra i prodotti per i quali guadagniamo più di una medaglia per il saldo commerciale troviamo le nuove tecnologie del caldo e del freddo, le macchine per lavorare il legno e le pietre ornamentali, oppure i fili isolati di rame e gli strumenti per la navigazione aerea e spaziale.

Tutti oggetti così poco italiani, se continuiamo ad avere in testa l’Italia di 15-20 anni fa, che in realtà identificano la geografia di un nuovo made in Italy. E dimostrano che siamo stati in grado di risintonizzarci, con successo, sulle nuove frequenze del mercato globale. Senza, peraltro, perdere il presidio di quei settori per noi più abituali, per i quali manteniamo il più alto surplus in Europa con i Paesi extra-UE: “semplicemente’” occupando le fasce di più alto valore aggiunto, quelle del lusso e del design. Mentre frotte di analisti discutevano dei rischi e delle potenzialità insite nella crescita dei Paesi BRIC, un’avanguardia di imprese italiane era già sul posto, a fare da apripista e portabandiera: perché anche in quei Paesi la capacità, tutta italiana, di creare bellezza è uno dei beni più ambiti.

Il discorso è lo stesso per il turismo. Non avremo mai un ritratto fedele delle nostre performance fin quando useremo come indicatore il numero degli arrivi. Se invece guardiamo i pernottamenti, vedremo che l’Italia soffre, è vero, e tanto, la contrazione del mercato domestico, ma è prima assoluta in Europa per pernottamenti di turisti extra-Ue, distaccando di molto Gran Bretagna e Spagna che la seguono nella classifica. Siamo in Europa la meta preferita di americani, giapponesi, cinesi, australiani, canadesi, brasiliani, sudcoreani, turchi, ucraini e sudafricani.

Lo scenario si ripete sul fronte caldissimo dell’innovazione. Il nostro sistema economico viene descritto nelle tabelle internazionali come scarsamente propenso a innovare. Ma se osserviamo da vicino queste classificazioni, vedremo che una macchina per imballaggio realizzata su misura o una grande nave da crociera progettata à la carte sono considerate prodotti meno innovativi e complessi di un banale telefono cellulare o di uno dei tanti computer entry level fatti in serie. Per questo – e anche per il fatto che le migliaia di piccole e medie imprese del quarto capitalismo spesso non catalogano come tali tutti gli investimenti in ricerca e sviluppo – l’innovazione italiana è largamente sottovalutata. Ma allora come spiegare i nostri primati mondiali in singoli settori caratterizzati proprio da un alto tasso di innovazione, come (solo per citarne alcuni) la robotica di servizio, le biotecnologie, i nuovi materiali, le neuroscienze, la fisica delle particelle? Non è un caso che il nostro Paese sia in prima linea, con Cnr, in due importantissimi progetti su cui la Commissione Europea ha deciso di puntare per il futuro, con un finanziamento di 2 miliardi di euro: il grafene e il cervello artificiale.

L’Italia è la culla della cultura. Ma, con paradosso tipicamente tricolore, è un Paese che alla cultura dà scarso credito. Non c’è nessuno che neghi quanto questo settore sia importante ma, prima, sentiamo ripetere, dobbiamo risolvere problemi più seri. E invece proprio la cultura è una delle soluzioni. Mentre il tessuto imprenditoriale del Paese, nel 2012, resta sostanzialmente immobile, le attività del sistema produttivo culturale (tra industrie culturali propriamente dette, industrie creative – attività produttive ad alto valore creativo ma ulteriori rispetto alla creazione culturale in quanto tale – patrimonio storico artistico, performing arts e arti visive) crescono del 3,3%, arrivando ad essere quasi 460 mila, il 7,5% del totale nazionale. Danno lavoro a quasi 1,4 milioni di persone, il 5,7% del totale degli occupati. Creano, direttamente, 75,4 miliardi di euro di valore aggiunto. E ne attivano nel resto dell’economia altri 133. In tutto fa 214 miliardi: il 15% circa del totale. Si può forse lasciare a tempi migliori la cura di questo fattore trainante del sistema Paese?

C’è poi la green economy. Mentre i governi faticano ancora a capirne la portata epocale, quasi una impresa italiana su quattro investe in tecnologie o prodotti “verdi”: di queste, il 37,9% ha introdotto innovazioni di prodotto o di servizio, contro il 18,3% delle imprese che non investono nell’ambiente. Lo stesso dicasi per la propensione all’export: il 37,4% delle imprese green vanta presenze sui mercati esteri, contro il 22,2% delle altre. Testimonianza di come il sistema economico sia, su questo fronte, complessivamente più avanti della politica.

Anche la filiera agroalimentare, settore in cui la vocazione alla qualità è evidentissima, soffre di simili letture distorte, quasi che il posto che ci siamo guadagnati nel mondo sia solo frutto di fortuna, e non dell’attitudine a dare valore all’irripetibile patrimonio agricolo, ambientale ed enogastronomico del Paese. L’Italia ha una capacità di creazione di valore aggiunto pari a quasi duemila euro per ettaro: il doppio di quanto registrato mediamente in Francia, Germania e Spagna, il triplo circa della Gran Bretagna. Un caso? Siamo il primo Paese nell’Unione Europea per numero di operatori biologici (48.269) e il secondo per superficie investita (quasi un milione e centomila ettari). Siamo undicesimi al mondo come valore agroalimentare complessivamente esportato, ma in 13 produzioni su un totale di 70 monitorate – dalla pasta, agli aceti ai superalcolici a base di vino – abbiamo la leadership globale.

Non si può poi non menzionare il Terzo Settore, il cui impegno nella produzione ed erogazione di servizi sociali – grazie alle tante cooperative sparse sul territorio e alle “nuove” imprese sociali – è fondamentale. Questo variegato comparto contribuisce ad un 4,3% del Pil (con un volume di entrate annuo stimato di 67 miliardi di euro). Dati ancor più significativi se accompagnati da una quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai quattro milioni di volontari e, ancor più, dal benessere materiale e immateriale apportato a chi ha beneficiato delle loro prestazioni, del loro aiuto e della loro solidarietà. Infatti, una recente stima del valore economico del lavoro volontario in Italia, basata sulla determinazione dell’ammontare delle ore di volontariato prestate trasformate in unità di lavoro equivalente (ULA), ha evidenziato come tale valore sia pari a 7.779 milioni di euro. In termini relativi, questa stima corrisponde allo 0,7% del Pil; nel complesso, il volontariato in termini economici rappresenta il 20% dell’ammontare complessivo delle entrate delle istituzioni non-profit.

Questa Italia che ce la fa, che resiste alla crisi, che in qualche caso se la sta lasciando alle spalle, è quella che si ostina, nonostante le sirene del declino, a fare l’Italia. Che sa innovare senza perdere la propria anima. Che ha capito che nel mondo del XXI secolo, se uno spazio c’è per il nostro Paese è quello della qualità. È l’Italia che scommette sull’attitudine ai prodotti taylor-made, sulle competenze radicate nei territori e mantenute salde con la coesione sociale e la cura del capitale umano. Che presidia la nuova frontiera della qualità ambientale. Che sa dare valore alla propria bellezza (quella dei paesaggi, dell’arte, della cultura, dell’ospitalità, degli stili di vita) intercettando la grande, e crescente, domanda di Italia che viene da ogni angolo del pianeta.

Questa Italia non può più attendere. Va riconosciuta, guardata con attenzione, raccontata con passione. È l’ambizione del rapporto I.T.A.L.I.A. di Symbola, Fondazione Edison e Unioncamere, giunto alla sua seconda edizione: la stessa scelta del nome del nostro Paese, usato come acronimo, segnala già dal titolo la voglia di percorrere le geografie del nuovo made in Italy, dall’Industria al Turismo, dall’Agroalimentare al Localismo e alla sussidiarietà, dall’Innovazione, la tecnologia e l’ambiente all’Arte e la cultura. Numeri e storie di un’Italia che va sostenuta: con un progetto collettivo, una missione in grado di ridare speranza e motivazione alle tante energie depresse. “Non conosciamo mai la nostra altezza – ha scritto Emily Dickinson – finché non siamo chiamati ad alzarci”. A molti talenti italiani la possibilità di alzarsi viene negata. Rimuovere gli ostacoli che ci separano da un futuro degno di questi talenti è la vera priorità per il Paese.

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Le modifiche al decreto lavoro

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Premessa. Nel merito le proposte di modifica dell’esecutivo al provvedimento “partono dalla riscrittura del preambolo, con il compito di attribuire al decreto funzione di raccordo con il disegno di legge delega, ricordando che tutti i provvedimenti in esso contenuti hanno come obiettivo il contratto a tempo indeterminato a protezione crescente che sarà esaminato nella delega” spiega ancora Bobba.

Sanzioni. Il governo modifica quindi, pur rispettando la validità del principio, la sanzione prevista per le aziende che non rispettino il tetto del 20% per il numero dei contratti a tempo determinato rispetto a quelli a tempo indeterminato. Ora la sanzione non è più l’obbligo dell’assunzione a tempo indeterminato, ma diventa di tipo amministrativo, con una multa pari al 20% dello stipendio del 21esimo contratto a tempo determinato per tutta la sua durata, che sale al 50% per gli ulteriori contratti successivi al 21esimo.

Enti ricerca e 5 dipendenti. Significativa novità riguarda quindi gli istituti pubblici e privati che operano nella ricerca, per i quali il limite del 20% non vale, proprio in ragione della specificità dell’attività svolta. Esclusi dall’obbligo del tetto del 20% anche le aziende con meno di 5 dipendenti.

Apprendisti. Per quanto concerne l’apprendistato, si stabilisce che il 20% degli apprendisti deve essere stabilizzato solo per le aziende con oltre 50 dipendenti (non più come prima con oltre 30 dipendenti).

Stagionali. Sempre per l’apprendistato le proposte del governo prevedono la possibilità del suo utilizzo a tempo determinato per le attività stagionali. Le Regioni devono però aver definito un sistema di alternanza scuola-lavoro e la possibilità dovrà essere prevista nei contratti di lavoro collettivi.

Formazione. Altro punto su cui si era acceso il dibattito politico è quello dell’offerta formativa pubblica: con un ulteriore emendamento, il governo specifica che la Regione dovrà indicare anche “sedi e calendario” e potrà anche avvalersi “delle imprese e delle loro associazioni che si siano dichiarate disponibili”. Infine, spiega sempre Bobba, sarà “responsabilità della Regione comunicare entro 45 giorni” le modalità di svolgimento “e non se ne potrà far carico né esimere l’impresa”.

Regime Transitorio. Un’altra modifica riguarda una riformulazione del regime transitorio per i contratti a termine. Viene specificato che nel periodo fino al 31 dicembre oltre alla “norma nazionale del 20%” varranno anche le regole già scritte nei contratti vigenti. Le imprese devono cioè adeguarsi al tetto del 20%, a meno che non il contratto collettivo applicabile sia più favorevole. Quindi, il datore di lavoro che all’entrata in vigore del decreto abbia in corso rapporti di lavoro a termine superiori al tetto del 20% dovrà rientrare a meno che “un contratto collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite-percentuale o un termine più favorevole”. E, infine, viene previsto che il diritto di precedenza per le donne in gravidanza sia prevista nel contratto.

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Libera circolazione dei lavoratori: il Consiglio dell’UE adotta la direttiva

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Il Consiglio dei Ministri dell’UE ha adottato la direttiva volta a garantire una migliore applicazione a livello nazionale del diritto dei cittadini dell’UE di lavorare in un altro Stato membro. Le nuove norme intendono colmare il divario esistente tra diritti e realtà e aiuteranno i cittadini che lavorano o cercano un lavoro in un altro paese ad esercitare concretamente i loro diritti. Gli Stati membri dispongono ora di due anni per attuare la direttiva a livello nazionale.
La direttiva, proposta il 26 aprile 2013, ha per obiettivo di eliminare gli ostacoli esistenti alla libera circolazione dei lavoratori, tra cui la scarsa consapevolezza delle norme UE da parte dei datori di lavoro sia pubblici che privati e le difficoltà incontrate dai cittadini mobili nell’ottenere informazioni e assistenza negli Stati membri ospitanti. Per superare questi ostacoli e prevenire ogni forma di discriminazione la direttiva imporrà agli Stati membri di garantire:
– che uno o più organismi a livello nazionale forniscano un sostegno e assistenza giuridica ai lavoratori migranti dell’UE per quanto riguarda l’applicazione dei loro diritti,
– una tutela giuridica efficace dei diritti (tra cui, ad esempio, la protezione dalla vittimizzazione per i lavoratori migranti dell’UE che vogliono far valere i loro diritti) e
– informazioni facilmente accessibili in più di una lingua dell’UE sui diritti di cui godono i lavoratori migranti dell’UE e le persone in cerca di lavoro.
Indipendentemente da questo nuovo atto legislativo, la Commissione, in qualità di custode del trattato, continuerà ad avviare procedimenti di infrazione, ove necessario, nei confronti degli Stati membri il cui diritto nazionale non sia in linea con gli obblighi imposti loro dal diritto dell’UE.

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Parità di genere: relazione annuale della Commissione europea

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La relazione annuale pubblicata dalla Commissione europea passa in rassegna i principali sviluppi delle politiche e della legislazione dell’UE sull’uguaglianza di genere dell’ultimo anno e fornisce alcuni esempi di strategie e azioni adottate negli Stati membri. La relazione analizza inoltre le tendenze recenti, sulla base di dati scientifici e dei principali indicatori che nutrono il dibattito sull’uguaglianza di genere, e riporta in allegato i dati statistici dettagliati sui risultati conseguiti a livello nazionale. Dalla relazione emerge che negli ultimi anni il divario di genere si è notevolmente ridotto, con progressi però variabili tra gli Stati membri e con differenze ancora presenti in diversi ambiti – a danno dell’economia europea.
La relazione è strutturata attorno alle cinque priorità della strategia della Commissione europea per la parità tra donne e uomini 2010-2015: pari indipendenza economica; pari retribuzione per lo stesso lavoro e lavoro di pari valore; parità nel processo decisionale; dignità, integrità e fine della violenza nei confronti delle donne, parità tra donne e uomini nelle azioni esterne e questioni orizzontali.

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Sconfiggere le paure, alimentare le speranze di Raffaele Morese

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A proposito di Europa, mi piace riportare un’esperienza nella quale Nuovi Lavori è stata, sia pure marginalmente, coinvolta. E’ il percorso di studio, ricerca, confronto e sintesi che ha fatto per due anni un gruppo di studenti (16 più 8 tra insegnanti ed esperti) del liceo linguistico “Leopoldo Pirelli” di Roma, assieme ad altrettanti coetanei belgi, spagnoli e tedeschi. Nell’ambito del programma COMENIUS (fratello minore dell’Erasmus) hanno lavorato sulle tematiche del lavoro contemporaneo, utilizzando e producendo vari strumenti di lavoro (tutti rintracciabili sul sito EST, european shared treasure) oltre a partecipare a incontri nei singoli Paesi. Studenti e insegnanti italiani, come gli altri, sono entusiasti dell’esperienza e con loro le famiglie che hanno ospitato nelle proprie case i giovani venuti dagli altri Paesi. Per loro, i confini dell’Europa sono i loro confini. Senza se e senza ma.*

Ma questi giovani non votano il 25 maggio. Votano gli adulti dei 27 Paesi che formano l’Unione, attraversati da paure di vario tipo e speranze altrettanto varie. Le prime sembrano prevalere, anche se, non tanto lontano da noi, in Ucraina, c’è gente che rischia di morire per avere espresso il diritto di scegliere di far parte di questo progetto continentale. Di certo, non sono elezioni come le precedenti. Fino all’ultima, cinque anni fa, l’idea di Europa non era messa in discussione se non da modeste frange politiche, specie in alcuni Paesi come la Francia e l’Italia. Ma il grosso dell’elettorato è sempre andato alle urne per esprimere un’adesione, tra il moderato e l’entusiasta, al rafforzamento dei vincoli europeistici.

Ora la musica è cambiata. L’euro è sotto tiro, dopo anni ed anni di crisi economica. Bruxelles è vista come un luogo che da una spinta, specie per Paesi in maggiori difficoltà, ma per avvicinarli al baratro. L’allargamento a molti Paesi dell’Est non è stato presentato e gestito come un’opportunità per tutti, ma come una convenienza soltanto per essi. Le istituzioni europee non hanno avuto mai parole d’ordine volte allo sviluppo, ma anzi ad un’ossessiva austerità. E’ abbastanza per giustificare quel grande cambiamento di umore che serpeggia in molti popoli dell’Unione. In pochi anni si è consumata buona parte di quel patrimonio di sintonie che accompagnò, dal Trattato di Roma fino all’introduzione dell’euro, il cammino dell’unità degli europei. Ma non per questo, va condiviso l’accumulo di pessimismo.

Non è con le mozioni degli affetti, con enfatizzazioni fuori spartito, con lanci del cuore oltre lo steccato che si possono cancellare le paure e far avanzare le speranze. Né basta dire che uscire dall’euro è una pazzia. Lo è, ma fermarsi a questa affermazione è come dire che “o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”. La nostra moneta è l’euro, ma una pura gestione monetaristica, nonostante gli sforzi della Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi, non ha dato bella mostra di sé. Né agli occhi dei “benestanti” come i tedeschi, né a quelli dei “malestanti” come gli italiani. Verso i primi, allarmati per i costi, più presunti che effettivi, a loro carico per sostenere la stabilità dell’euro e verso i secondi, tormentati soltanto dalle richieste di fare i “compiti a casa”.

Con queste elezioni, o si volta pagina o l’Europa rischia di sfarinarsi. C’è da sperare che tutte le forze politiche che non giocano allo sfascio puntino, innanzitutto, a realizzare l’unità politica europea senza la quale le politiche economiche non riescono ad avere lo spessore che è necessario in questa fase. E’ ormai evidente che se i singoli Stati hanno l’obbligo morale e politico di mantenere in ordine i propri conti pubblici, l’Unione si deve farsi carico di essere il motore dello sviluppo. Se viene meno questo, anche la sopportabilità sociale del pareggio di bilancio diventa difficile. Un convincimento profondo su questa impostazione rappresenterebbe un punto di riferimento importante per tagliare le unghie al qualunquismo e al nazionalismo striscianti.

E poi c’è la questione del lavoro. Grande cenerentola del dibattito europeo: mai una sessione del Parlamento europeo sull’argomento, mai un serio programma della Commissione, tanto da far rimpiangere i tempi di Delors. La ripresa economica mondiale aiuta a frenare la recessione, ma non a rilanciare l’occupazione. Investimenti e consumi possono avere ritmi ben più sostenuti di quelli previsti, soltanto se la funzione keynesiana degli investimenti europei viene spinta al massimo. Associata ad un deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, potrebbero innestare una marcia in più per l’occupazione, specie giovanile.

In un contesto che assuma questi connotati, non è né azzardato, né utopico ipotizzare che a livello europeo si progettino due nuovi filoni di intervento. Il primo è quello di istituire un Servizio civile obbligatorio di 6 mesi per tutti i giovani diplomati e laureati, preferibilmente da realizzarsi in Paesi diversi da quelli di origine. Per tutti i partecipanti sarebbe un’esperienza indimenticabile. Il secondo è quello di sostenere, con adeguati incentivi, quelle aziende che decidono di diminuire l’orario di lavoro in modo strutturale e non soltanto per far fronte alla congiuntura negativa, favorendo così occupazione aggiuntiva. Una gestione europea di questa misura sarebbe garanzia di serietà e fattibilità.

Infine, c’è la questione fiscale. E’ difficile ipotizzare a breve un sistema fiscale unico per l’Europa. Ma sarebbe almeno auspicabile un rafforzamento delle norme restrittive del “nomadismo” delle aziende e delle loro sedi legali, indotte unicamente da vantaggi fiscali esistenti in questo o quell’altro Paese. Jurger Habermans in un suo recente libro (Nella spirale tecnocratica, La terza 2014) la definisce “offesa alla solidarietà civile”. Ormai lo sanno tutti, il lavoro è locale e il capitale è globale; ma almeno nell’Unione europea va contrastato l’andazzo di avere la testa dell’azienda da una parte e il corpo dall’altro. Prima o poi, il corpo va dove vuole e dice la testa e non viceversa.

Ovviamente ben altre questioni sono in ballo, in queste elezioni. Ma se ci fossero dei punti fermi su materie essenziali per la qualità del benessere dei cittadini, già sarebbe un buon passo in avanti sulla strada della speranza. Non siamo in un vicolo cieco, ma certamente ad un bivio. Il continuismo non attira più; occorrono scelte di rottura con il passato. Di ciò devono farsi portatori i gruppi dirigenti europei, sapendo che saranno valutati soltanto con questo metro. Che, peraltro, è l’unico che può sgonfiare la bolla antieuropeista che è cresciuta in questi anni. E’ l’unico che può consolidare le convinzioni di una generazione, come quella dei giovani del “Leopoldo Pirelli” e dei loro coetanei europei.

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Bonus 80 euro: le istruzioni per la riduzione del cuneo fiscale

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È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile, il Decreto Legge n. 66 del 24 aprile 2014 “Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”, il quale ha introdotto, limitatamente al periodo di imposta 2014, un bonus irpef a favore dei lavoratori dipendenti con reddito complessivo compreso tra 8.000 e 26.000 euro, che sarà riconosciuto dal datore di lavoro in busta paga a partire dal mese di maggio.

L’importo del bonus è di 640 euro (80 euro mensili) per i possessori di un reddito complessivo non superiore a 24.000 euro; in caso di superamento del predetto limite di 24.000 euro, il credito decresce fino ad azzerarsi al raggiungimento di un livello di reddito complessivo pari a 26.000 euro.

L’Agenzia delle Entrate, con circolare n. 8/E del 28 aprile c.a., ha fornito le prime precisazioni in merito al riconoscimento del bonus ai titolari di reddito di lavoro dipendente, la cui imposta lorda su tali redditi, sia di ammontare superiore alle detrazioni da lavoro spettanti.

In particolare, nel documento si sottolinea che:

il bonus verrà riconosciuto automaticamente dai datori di lavoro senza che i beneficiari ne facciano esplicita richiesta;
il reddito complessivo, rilevante al fine dell’erogazione del bonus, va assunto al netto del reddito dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale;
il credito dovrà essere rapportato al periodo di lavoro nell’anno, quindi in caso di rapporti di lavoro inferiori all’anno il credito è riproporzionato in base al numero di giorni lavorati;
il sostituto d’imposta, al fine di erogare il bonus, utilizza l’ammontare complessivo delle ritenute disponibile in ciascun periodo di paga (ritenute relative all’Irpef, alle addizionali regionale e comunale, .). In caso di incapienza del monte ritenute il datore di lavoro utilizza, per la differenza, i contributi previdenziali.

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Al via la detassazione dei premi di produttività per il 2014

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Pubblicato, nella Gazzetta Ufficiale n. 98 del 29 aprile 2014, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri riguardante le agevolazioni fiscali per il reddito dei lavoratori derivante da interventi previsti dai contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale allo specifico scopo di incrementare la produttività del lavoro.

Il decreto prevede che, per il periodo dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2014, le somme erogate a titolo di retribuzione di produttività, in esecuzione di contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale, sono soggette a una imposta sostitutiva pari al 10%.

L’imposta sostitutiva trova applicazione, nel limite di euro 3.000 lordi, per i titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore nell’anno 2013 ad euro 40.000, al lordo delle somme già assoggettate nel medesimo anno 2013 all’imposta sostitutiva agevolata ai sensi della normativa di riferimento.

Le norme che individuano le voci retributive detassabili sono quelle relative al 2013, già contenute nel DPCM 22 gennaio 2013, che viene espressamente richiamato art. 1, comma 4 del nuovo decreto.

È fissato un monitoraggio, entro il 30 giugno, sull’andamento dell’agevolazione anche al fine dell’eventuale adozione di specifiche proposte e iniziative di revisione.

Ci riserviamo di tornare sull’argomento non appena perverranno i necessari ed opportuni chiarimenti da parte dei competenti Ministeri.

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Manifesto per un’Europa di progresso

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Il mondo è in rapida trasformazione. Società ed economia della conoscenza hanno profondamente ridisegnato equilibri ritenuti consolidati. Aree geografiche depresse hanno conquistato, in tempi storicamente irrisori, potenziali enormi di sviluppo e crescita. Conoscenza, cultura e innovazione rappresentano più che mai il traino decisivo verso il futuro.

All’opposto l’Occidente, e alcuni aspetti del suo modello di sviluppo, sono entrati in una crisi profonda. L’Europa, in particolare, risulta investita da gravissimi e apparentemente irrisolubili problemi: disoccupazione, crisi del tessuto produttivo, riduzione sostanziale del welfare. A pochi anni dalla sua formale consacrazione, con la nascita ufficiale della moneta comune, l’Europa rischia di deflagrare come sogno di una comunità di cittadine e cittadini che avevano ambito ad una nuova Nazione comune: più ampia non solo geograficamente, quanto nello spazio dei diritti, dei valori e delle opportunità. Lo storico americano Walter Laqueur ha parlato della “fine del sogno europeo”.

Le responsabilità sono diverse e distribuite e investono certamente l’eccessiva timidezza nel processo di costituzione politica del soggetto europeo: la responsabilità di presentare questo orizzonte politico, culturale e sociale con le sole fattezze della severità dei “conti in ordine”. L’Europa dei mercanti e dei banchieri, della restrizione e del rigore: una sorta di gendarme che impone limiti spesso insensati, piuttosto che sostegno nell’ampliare prospettive di visuale sugli sviluppi del futuro.

Proprio a causa di ciò, assistiamo, in corrispondenza della crisi, ad un’impressionante crescita di egoismi locali, di particolarismi e di veri e propri nazionalismi.
Fenomeni spesso intenzionalmente organizzati per sfruttare malesseri veri, e reali stati di sofferenza, ma che rischiano di produrre reazioni esattamente opposte a quanto oggi servirebbe alle popolazioni d’Europa.

Come scienziate e scienziati di questo continente – consapevoli che esiste un nesso inscindibile tra scienza e democrazia – sentiamo quindi la necessità di metterci in gioco. Di ribadire che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa è la più importante opportunità che ci è concessa dalla Storia. Che società ed economia della conoscenza -essenziali per il processo di reale evoluzione civile, pacifica, economica e culturale- si alimentano di comunità coese e collaborative, di comunicazioni intense e produttive e di uno spirito critico che permei strati sempre più vasti della società.

L’unica risposta possibile alla crisi incombente è allora la costruzione dell’Europa dei popoli, di un’Europa di Progresso! Realizzata sulla base dei principi di libertà, democrazia, conoscenza e solidarietà.

Nutriamo la stessa speranza con cui Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai nel “Manifesto agli Europei” del 1914 richiamarono alla ragione i popoli europei contro la sventura della guerra, e con cui Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi ispirarono l’idea d’Europa nel loro “Manifesto di Ventotene” del 1943. Le stesse idee che ebbero indipendentemente fautori illustri anche in tutti i Paesi d’Europa.
Vogliamo riprendere ed estendere all’Europa lo spirito che nel 1839 portò gli scienziati italiani a organizzare la loro prima riunione e a inaugurare il Risorgimento di una nazione divisa.

(*) Firmato da innumerevoli scienziati,accademici,ricercatori.

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Lavoro sommerso: indagine Eurobarometro

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Da una recente indagine Eurobarometro si evince che il lavoro sommerso continua ad essere diffuso in Europa, sebbene l’ampiezza e la percezione del problema siano diversi in ogni Paese.
I problemi individuati nell’indagine saranno affrontati ad aprile in una proposta della Commissione che lancerà una piattaforma europea per la prevenzione e la deterrenza del lavoro sommerso, con l’obiettivo di intensificare la collaborazione tra gli Stati membri per contrastare la situazione in modo più efficiente. La piattaforma dovrà costituire uno spazio comune per tutti gli organismi di contrasto dei diversi Stati, quali ispettorati del lavoro, organismi preposti alla sicurezza sociale, alle questioni fiscali e alla migrazione, altri soggetti interessati.

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Evitiamo il braccio di ferro tra politica e sociale di Raffaele Morese

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Man mano che, faticosamente, il lavoro conquista la prima fila nel dibattito politico, ritorna di attualità il conflitto tra primato della politica e primato del sociale. Era dai tempi della scala mobile, dell’inflazione a due cifre, della stagflation che non si assisteva ad una avvisaglia di contrapposizione tra politica e sociale, come quella che si profila. Ma non è un replay di quella fase. Neanche una sua brutta copia. Non ci sono più né un Berlinguer che non accetta di essere scavalcato da un’intesa tra un Governo – specie se a guida Craxi – e i sindacati, né un Carniti e Benvenuto che in nome dell’autonomia, interrompono l’unità con Lama. Non c’è più né il tentativo di realizzare una politica dei redditi concertata, né la scelta di dare un’alternativa al contrattualismo conflittuale, che aveva contrassegnato gli anni 70 e 80 e che tuttora aleggia nelle dinamiche tra le parti sociali.

Oggi, il conflitto che si delinea riguarda soggetti che – ciascuno per il ruolo e la rappresentanza che esprimono – non hanno né la baldanza, né la visione, né il vigore dimostrati trenta anni fa. Il sistema dei partiti e i Governi che si sono succeduti in questo primo scorcio di secolo hanno dimostrato una debolezza propositiva sempre più accentuata, che si è tradotta in decisioni quasi sempre non definitive, spesso tendenti al rinvio, praticamente elusive dell’esigenza di un vero riformismo. A loro volta, le rappresentanze sociali – a partire da quelle degli imprenditori e dei lavoratori e passando da quelle dei consumatori o dei senza casa, da quelle delle donne o degli immigrati – hanno marciato prevalentemente in ordine sparso, hanno privilegiato l’identità d’organizzazione rispetto alla qualità delle rivendicazioni, sono state sopraffatte dalla pesantezza e lunghezza della crisi economica e sociale.

Di conseguenza, si fronteggiano due debolezze storiche e strategiche. La politica, appesantita dall’emergenza, non riesce ad offrire prospettive di medio e lungo periodo; il sociale fa una fatica bestiale ad arginare lo scivolamento verso la tutela del proprio specifico, il lavoro dipendente standard. La globalizzazione fa il resto; marginalizza l’autonomia dei poteri istituzionali e politici e spunta le armi della rappresentanza sociale, dato che il capitale è global e il lavoro è local. E’ in questo contesto che si miscelano esigenze, aspettative, delusioni e soddisfazioni, senza seguire gli itinerari canonici. Renzi parla di imprese e lavoratori, ma pensa a Farinetti e a Cipputi non alle loro rappresentanze e da più peso alle parole dei primi che ai proclami delle seconde. E non è una contraddizione se tra il Presidente del Consiglio e il capo della Fiom sembra esserci dialogo, mentre non ce n’è molto con Camusso e Bonanni. Attiene più alla tattica politica che alle scelte strategiche.

Queste ultime non ancora si vedono e quindi è più facile, meno impegnativa la sintonia con chi è fondamentalmente un “opinionista”, rispetto a chi si presenta in chiave “neocorporativa”. Ma anche l’opinionismo non può concedere al Governo più di quanto il contrattualismo è in grado di offrire. Basta leggere su Repubblica la lettera aperta di Landini del 9/4/2014. Le richieste possono essere più o meno condivisibili, ma è un chiedere senza alcun cenno a dare. Esattamente come Camusso. E così la politica prova a riprendere il primato, finanche in modo arrogante (dice Renzi: ”se il sindacato non ci sta, ce ne faremo una ragione”). Ma, in questo modo, anche se avesse più argomenti a proprio favore, la politica non renderebbe un servizio al Paese. Sia perché cercare la forzatura non è mai salutare, sia perché la costruzione del consenso non è poca cosa rispetto alla bontà, ma anche alla complessità, delle soluzioni che si andranno a proporre.

Politica e sociale si ricompongono in un unico, comune sentire, non giocando a braccio di ferro, ma cercando una visione e un percorso condiviso. E una politica pro labour può affermarsi soltanto se il sindacato si propone come interlocutore credibile dell’aumento della produttività aziendale, che non riguarda né l’intensità del lavoro individuale né le alchimie sulle regole del mercato del lavoro, ma il governo di quel complesso intreccio tra qualità del prodotto, organizzazione per ottenerlo e soddisfazione personale di chi lo realizza. Uno scambio di alto profilo tra destinazione di tutte le risorse pubbliche disponibili ai redditi delle persone e delle famiglie meno abbienti e all’occupazione giovanile e miglioramento delle condizioni di competitività delle aziende, intervenendo sui fattori di freno sia esterni che interni all’azienda; esso rappresenterebbe un grande contributo all’inversione della tendenza deindustrializzante della società italiana.

Si tratta di uno sforzo mai tentato compiutamente nel nostro Paese, mentre in altri è quasi pane quotidiano. Ma mai dire mai. La politica non ha bisogno di affermare una sua egemonia formale. “Sento tutti e decido da solo” non è messaggio rassicurante e forse neanche accattivante. Il sociale, a sua volta, non si fidi dell’ebbrezza del rivendicazionismo. Questo è tempo di progettualità da realizzare e comporta un massiccio impegno per la comprensibilità di quel messaggio “visionario”. Tanto la politica, quanto il sociale devono dare il meglio di sé stessi per favorire un avanzamento a questi tempi così turbolenti ma anche così avvincenti.

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