1. Volge al termine un anno segnato da una crisi così grave da imporre l’assoluta centralità del problema della sopravvivenza.
Una centralità quotidianamente alimentata dalle preoccupazioni della classe di governo, dalle drammatizzazioni dei media, dalle inquietudini popolari; dalla paura di non farcela, una paura reale, che non ha risparmiato alcun sog- getto della società, individuale o collettivo, economico o istituzionale.
Basta pensare all’ansia dei piccoli imprenditori rispetto all’ipotesi di dover chiudere attività e impianti; alle insicurezze delle famiglie esposte a un drastico impoverimento delle risorse e degli stili di vita; alla improvvisa fragilità di ri- cavi e di autonomia avvertita dalle banche; alla strisciante sensazione dei si- stemi territoriali di veder crollare la loro orgogliosa vitalità; al quasi terrore delle classi di governo di fronte all’incubo dello spread che si impenna e del default che si avvicina; allo sbandamento di quasi tutti noi europei per una crisi forse senza ritorno della moneta comune e della stessa coesione comuni- taria. Nessuno, si può dire, è rimasto fuori dalla paura di non sopravvivere alla crisi e ai suoi vari processi.
2. Non si è trattato certo di una paura da “prima volta”. Di crisi negli ultimi decenni ne abbiamo attraversate a ripetizione, tanto che si potrebbe paragonare la nostra piccola storia del recente passato alla denominazione della Bibbia come “grande storia delle crisi e non dei successi di Israele”.
È forse questa continua iterazione di problemi che spiega perché, di fronte alle drammatiche vicende dell’ultimo anno, la nostra società abbia avuto l’automatica tentazione di derubricarle, ritenendole una ulteriore riproposizione di dinamiche precedenti e immaginando quindi che anche stavolta si potessero riutilizzare gli aggiustamenti sperimentati in passato. Pensavamo quindi, sotto sotto, di essere indenni e immuni da giorni cattivi. E invece ci siamo ritrovati inermi, in una immunodeficienza tanto inattesa quanto pericolosa.
3. La realtà si è rivelata diversa da quella che ci aspettavamo, più complicata che nelle crisi precedenti, e così “perfida” da imporci una radicale rottura di schema anche interpretativo (prima ancora che decisionale e operativo). Ci siamo infatti trovati dentro fenomeni e processi non padroneggiabili, e in parte neppure comprensibili, da parte di soggetti da tempo sicuri di ricondurre le difficoltà alle proprie specifiche responsabilità di azione:
– sono entrati in giuoco “fenomeni enormi”, per dimensione e complessità fuori della nostra portata intellettuale e politica (la speculazione interna- zionale, la crisi dell’euro, la impotenza dell’apparato europeo, la modifica degli assetti geopolitici internazionali e altro ancora);
– ci sono piovuti addosso “eventi estremi”, quasi con caratteristiche di catastrofi naturali (basterebbe pensare a come abbiamo vissuto la dinamica dello spread e il pericolo di default), quasi fossimo immersi in tempi pe- nultimi, timorosi di un possibile vertiginoso sprofondamento in un baratro o in un abisso;
– e soprattutto ci siamo ritrovati nella progressiva crisi della sovranità, a tutti i livelli, visto che nessuno, in Italia e altrove, è stato in grado di esercitare un’adeguata reattività decisionale. Nessun soggetto politico (Stato, partito, Parlamento che fosse) e nessun soggetto socio-economico (impresa, banca, sindacato che fosse) si è rivelato infatti più padrone della propria strategia d’azione, della propria operatività, del proprio stesso destino, tutti esautorati dall’impersonale potere dei mercati.
4. Il combinarsi di questi tre fattori (grandi fenomeni, eventi estremi e crisi delle sedi di sovranità) ha concorso a rendere inservibile il silenzioso “io posso” che per decenni, nei successi e nelle crisi, ha fatto da riferimento vitale ai vari soggetti di questa società; e la cui mancanza rende quasi naturale la loro inermità collettiva di fronte alle progressive drammatizzazioni, spesso alimentate anche da internazionali portatori di emozioni e di interessi.
Non mette qui conto ricamare sopra i sospetti di condizionamento dall’esterno, meglio segnalare che le dinamiche più importanti le abbiamo avute in casa, sul piano interno; e tutte collegate a una parallela discontinuità delle respon- sabilità:
– da un lato le istituzioni politiche, che si sono concentrate a esercitare la “necessità” e la determinazione nel difendere, con rigore e “nel rigore”, la fragilità dei conti pubblici, della nostra credibilità finanziaria internazionale, della possibile nostra dipendenza e tutela rispetto ai poteri e alle istituzioni internazionali;
– dall’altro lato i soggetti quotidiani della vita economica, che si sono adattati a risolvere da soli la loro inermità (anche scontando sacrifici e restrizioni derivanti dalle politiche di rigore) operando su se stessi radicali modifiche di atteggiamento e comportamento.
Tutto l’ultimo anno ha visto crescere questa divaricazione di spazi di respon- sabilità, anche se essa è stata per mesi resa invisibile dalle urgenze internazio- nali; dalla crescente inerzia della dialettica politica e parlamentare; e dalla valutazione tutta negativa che l’opinione pubblica ha dato sulla classe diri- gente, specie politica (“pastori che pascolano se stessi”, direbbe Ezechiele). Ma quando via via la divaricazione si è fatta chiara, ci siamo resi conto che le strategie istituzionali (di rigore dei conti, di riduzione delle spese, di riforme settoriali, di razionalizzazione dell’apparato pubblico) sempre meno trovavano saldatura con le affannose strategie di sopravvivenza dei vari soggetti sociali. Si potrebbe dire due strategie da “separati in casa”.
5. Qualcuno avverte il pericolo che in una tale situazione possano maturare da una parte poteri oligarchici e dall’altra tentazioni di populismo, anche rancoroso. Ma sono effetti naturalmente di lungo periodo, che non sembra possibile ricomprendere nell’analisi delle turbolenze dell’ultimo anno, già abbastanza ansiogene per loro conto. Più utile è segnalare come, proprio nell’ultimo anno, le due diversificate logiche abbiano esaltato la propria forza sottovalutando la dinamica dell’altra e accentuando la loro diversa discontinuità.
Ne è stato un esempio il modo e il tono con cui si è messo in atto il “salvataggio” di un sistema in cui i fondamentali erano strutturalmente disaggiustati; i tempi e gli eventi si erano fatti cattivi; le prospettive di continuità erano in pericolo; e su cui era giusto che scattasse una forte determinazione decisionale, con uno scatto di discontinuità politica, peraltro accettato dall’opinione pub- blica.
Una determinazione considerata non puramente “tecnica” ma anche politicamente straordinaria, specie nelle procedure, visto che “dovevamo dimostrare” ai mercati una forte capacità di concentrazione mentale e operativa, capace di:
– ridurre lo sfascio inerte, quasi un dissolvimento, in cui stava vivendo la nostra dinamica politica e la nostra immagine nazionale, dentro e fuori i con- fini;
– ricalibrare i pregiudicati rapporti con i nostri partner europei, le autorità comunitarie, i regolatori dei mercati finanziari globali;
– proporre, e per qualche verso imporre, un potere disciplinare specialmente nei settori più “trasandati” e bisognosi di riforma.
Un’“agenda” compatta e con largo apprezzamento, ma con ancora più larga distanza dall’affannato darsi da fare dei vari soggetti sociali. Questi infatti non si sono sentiti coinvolti più di tanto nella rigorosa opera di aggiustamento, forse perché erano istintivamente resistenti a una certa enfasi esortativa delle cosiddette manovre (Salva Italia o Cresci Italia); forse perché erano sospettosi che alle strategie tecnico-politiche non seguisse un’adeguata tecnicalità di im- plementazione amministrativa e organizzativa; forse perché restavano in attesa di un messaggio e di una proposta di percorso comune, più che di richieste di adesione a improbabili cambi di mentalità; forse perché progressivamente sor- presi dallo squilibrio fra la lucidità dell’azione di governo sul fronte estero e le incertezze espresse sul fronte interno.
Così, per l’intreccio di tutte queste condizioni, la conclamata discontinuità dell’azione di governo rispetto a precedenti modelli di comportamento, privati e pubblici, ha ulteriormente separato in casa il secco rigore sistemico delle istituzioni e l’abbondante miscela di specifiche singole soluzioni; e a niente sono servite le flebili indicazioni programmatiche via via avanzate (più crescita, più equità, più Europa, più economia sociale di mercato, ecc.). Non è scattata la magia dello sviluppo fatto da “governo e popolo”; ed è rimasto in campo un rigore di governo, spesso solo disciplinare, che non ha lo spessore per diventare “Legge”, cioè riferimento forte per generare forza psichica col- lettiva.
6. Vedremo, nella strada che porta alle elezioni politiche, se l’agenda di rigoroso governo del sistema si tradurrà, nei prossimi mesi, in impulsi di leadership politica e di mobilitazioni collettive anche per i tanti soggetti che continuano a non capire e non sentirsi coinvolti. Per ora, a quel che è dato di vedere, per la prima volta nella storia delle crisi italiane del dopoguerra, il fronteggiamento della crisi non vede un apporto significativo degli impegni politici e dell’in- tervento pubblico. Così nella loro prova di sopravvivenza i singoli soggetti sociali sono restati e restano soli, anzi “peggio che soli”, come potrebbero dire coloro che hanno visto nella citata agenda fattori di compressione e depres- sione.
La reazione più diffusa è stata di paura e di fuga; reazioni di frustrazione strutturale (“siamo troppo deboli come sistema”); di sfiducia soggettiva (“non ci sono le forze per fronteggiare eventi così potenti”); di sfiducia speculare fra le diverse componenti (“non abbiamo classe dirigente” insieme a “siamo una società appagata e seduta”); di reciproca incitazione a cambiare mentalità e comportamenti, con venature anche spregiative (fra politici immorali e bam- boccioni schizzinosi); e perfino di autodistruzione (si pensi alla pur breve sta- gione dei suicidi di piccoli imprenditori).
In questo sobbollire di pulsioni negative, i tempi cattivi avrebbero potuto di- ventare pessimi, nella drammatica attesa di tracolli da qualcuno preconizzati come inevitabili. Invece nel sottofondo della dinamica sociale ha cominciato a vedersi una sua autonoma tensione alla solidità, confermando l’antica verità che le crisi, forse proprio nel sobbollire di pulsioni negative, inducono a per- corsi di complessa maturazione del corpo sociale, di “iniziazione” direbbero i non razionali e i non dotti. E così, proprio nei mesi di più drammatica diffi- coltà, sono emerse, o meglio hanno cominciato a funzionare, tre grandi spinte di sopravvivenza:
– resistere facendo perno sulla “restanza”;
– esaltare la “differenza” degli atteggiamenti e dei comportamenti;
– operare un continuo “riposizionamento” delle presenze e delle azioni.
7. Quando si è in crisi e tutto sembra venire meno è quasi automatico far conto su quello che ci resta, sulla “restanza”, per usare una focalizzazione semantica di Jacques Derrida che, partendo dalla parola résistance ed eliminando il “si” intermedio, evidenzia il concetto di restance, che ben esprime – anche nella traduzione – quanto sia essenziale nei pericoli difendere, riprendere, valoriz- zare ciò che resta di funzionante dei precedenti processi di sviluppo.
Guardando a ciò che è avvenuto nel recente avvicinarsi di gravi eventi di crisi è possibile intravedere la filigrana della dinamica attraverso cui i vari soggetti sociali hanno giuocato sul valore e sull’utilizzo della “restanza”.
a) Soprattutto della restanza del passato, sfruttando al massimo tutte le più nascoste ma solide componenti del modello pluridecennale che ha fatto l’Italia di ieri e anche di oggi:
– lo scheletro contadino del modo di pensare e vivere (nella sobrietà e pa- zienza);
– il valore dell’impegno personale (dell’io posso) spesso al confine del protagonismo aziendale e familiare (con la ricerca di tante e diverse so- luzioni, anche temporanee);
– la funzione suppletiva delle famiglie rispetto ai buchi della copertura del welfare pubblico, in particolare per i bisogni dei membri della famiglia disabili o non autosufficienti;
– la centratura sulla prossimità come hardware della quotidianità, nella quale si svolge la gran parte delle funzioni primarie individuali e collet- tive, e si sviluppano le relazioni cruciali;
– la solidarietà diffusa e l’associazionismo, come anche la socialità ricreativa (feste, manifestazioni popolari, sagre);
– la valorizzazione del territorio come dimensione strategica di competitività del sistema, fondata non solo sull’intraprendenza della singola im- presa, ma anche sulla capacità delle realtà locali di promuovere l’eccellenza dei tanti fattori che le compongono.
Non c’è dubbio che questa restanza può anche essere vista come un ancoraggio al passato e quindi quasi un ostacolo ai comportamenti razionali in- novativi e virtuosi che sono tipici di altri Paesi occidentali; ma sul piano della cultura quotidiana essa è il vero fondamento della dinamica sociale. Senza di essa avremmo una modernità puramente virtuale, pronta sempre a sgonfiarsi, specialmente se giuocata sui primati del nuovo e dell’imma- gine.
b) Ma nella “restanza” non c’è solo l’eredità del nostro tradizionale modello di sviluppo; c’è anche qualche complesso di colpa per quello che non ab- biamo fatto e che quindi “resta da fare”. Abbiamo sempre proceduto a sbalzi, specialmente nelle grandi sfide nazionali; e oggi la coscienza col- lettiva comincia ad esprimere la necessità di non lasciare per strada i temi della nostra continuità storica, con particolare riferimento all’idea di un’Eu- ropa con la piena sovranità delle origini, lontana dalle impotenze attuali; all’idea di una sistemazione radicale del nostro assetto fisico-territoriale (dissesti idrogeologici, rischi sismici, ecc.) che proprio noi italiani avevamo proposto nel ’57-’58 come compito prioritario dell’azione europea; e al- l’idea di mantenere in vita l’opzione di crescita istituzionale delle periferie, andando per questo oltre la rovinosa decadenza del disegno federalista e regionalista. C’era in origine una consapevolezza e convinzione di massa su questi obiettivi, vale la pena di riprenderli e continuare a perseguirli.
8. Nella sommersa ricerca dei vecchi e nuovi obiettivi e comportamenti la cultura collettiva sembra tendere a una crescente valorizzazione della “differenza”, intesa come un differire sia dagli altri sia da se stessi, con piccole torsioni di atteggiamento e comportamento.
Per anni anche da parte nostra si è fatta storia di un progressivo appiattimento dei singoli in modelli di vita sempre più omogeneizzati, un po’ coatti, quasi da poltiglia indistinta; ma oggi, non tanto per reazione quanto per realistica constatazione, siamo tentati di segnalare una iniziale rinnovata propensione alla differenza. Il piattume antropologico (e la violenza che ne nasce) ha vi- genza e potenza ormai in zone comunque minoritarie del Paese o è confinato in specifiche occasioni temporali; mentre si comincia ad avvertire il sospetto che l’omogeneità, anche la più ordinata (esser tutti un po’ più europei, se non addirittura più “tedeschi”), è sempre regressiva, visto che non ha, non può avere, quella “enzimatica” carica di generatività che è necessaria per rilanciare lo sviluppo e che solo la differenza può portare con sé.
Ritorna così, con quasi silente pudore, la voglia di personalizzazione, almeno nella misura in cui essa è possibile in una società di massa. La prima spinta in tale direzione è data proprio dalla crisi: il singolo soggetto se non cambia, se non differisce da quel che è stato finora, resta fuori dei giuochi. Per questo è portato a differenziare i propri obiettivi personali e i propri percorsi, anche reinterpretando le proprie visioni del mondo. Basta pensare a quanto in tal senso giuochino processi quali:
– il politeismo alimentare, con combinazioni soggettive di alimenti e anche di luoghi ove acquistarli, senza tabù, neutralizzando ogni passata ortodossia alimentare;
– la moltiplicazione dei format di vendita, con la forte crescita degli acquisti online, la diffusione di siti web con offerte low cost e di gruppi di acquisto solidale;
– la personalizzazione dell’impiego dei media, sia per la fruizione dei contenuti di intrattenimento, sia per l’accesso alle fonti di informazione, secondo palinsesti multimediali “fai da te”, autogestiti, svincolati dalla rigida pro- grammazione delle grandi emittenti;
– la miniaturizzazione dei dispositivi tecnologici, la proliferazione delle connessioni mobili, l’esplosione dei social network, grazie ai quali diventano centrali la trascrizione virtuale e la condivisione telematica delle biografie personali, il denudamento del sé digitale, inaugurando così un nuovo ciclo che si può definire biomediatico.
E proprio in questo ultimo campo c’è l’esempio di limite, visto che l’esplosione degli strumenti e delle modalità di comunicazione crea grandi apparati e insiemi di relazione, ma anche tanta voglia di personalizzare la presenza in rete. La differenza aumenta e ne è sintomo indiretto anche la differenziazione molto forte dell’offerta culturale (dal romanzo alle mostre d’arte) e dei relativi linguaggi e messaggi. Quasi una polisemia.
9. Un istinto di sopravvivenza che portasse solo a resistere, a valorizzare la re- stanza e a propendere al differire da come si è stati sarebbe comunque nei fatti un istinto puramente culturale e personale. In questi ultimi mesi l’affermarsi congiunto di tali atteggiamenti ha permesso però un più collettivo e complesso processo di riposizionamento differenziale. È evidente che ogni soggetto ricerca il suo riposizionamento (è conseguenza delle differenze) ma è anche possibile, rileggendo con attenzione le pagine della seconda parte del Rap- porto, individuare una notevole articolazione di singole tendenze:
– nella crescente propensione a razionalizzare l’assetto del territorio, è ma- turata l’attenzione alla riduzione del consumo di suolo, alla rifunzionalizzazione delle aree dismesse, alla riqualificazione urbana, al risparmio energetico;
– nel dramma dell’esplosione del precariato giovanile si è andata affermando una maggiore ricerca di percorsi di studio a più elevato differenziale competitivo e un riorientamento verso percorsi di formazione tecnico-profes- sionale dalle prospettive di inserimento occupazionale più certe; insieme alla riduzione delle immatricolazioni ai corsi universitari di tipo umanistico-sociale e alla crescente inclinazione dei giovani a compiere gli studi universitari o esperienze di lavoro all’estero;
– nella crisi si è ristretta la base produttiva del manifatturiero, ma ora mostrano una rinnovata vitalità altri pezzi del tessuto produttivo (le imprese cooperative, le imprese femminili, le imprese del settore Ict e in particolare legate alle applicazioni Internet, con centinaia di start-up nell’alta tecno- logia e nelle tecnologie verdi legate all’ambiente e alle energie alternative);
– sono diminuite le imprese esportatrici, ma ora sta cambiando il modello di internazionalizzazione grazie a un di più di strategia che si traduce in un aumento degli investimenti in partecipazioni all’estero;
– si è ridimensionata la capacità di penetrazione nei tradizionali mercati esteri del made in Italy (tessile, abbigliamento-moda, alimentare, mobile-arredo), ma stanno aumentando le quote di mercato dell’Italia nelle aree emergenti del mondo grazie ad altre specializzazioni produttive (metallurgia, chimica, farmaceutica);
– sono state decine di migliaia le chiusure tra gli esercizi del piccolo commercio tradizionale, ma continua l’espansione della distribuzione organizzata e delle attività di commercio via web.
Si tratta, come si vede, di tendenze appena abbozzate, ma è interessante che esse si siano espresse proprio nell’anno di crisi più drammatica, quella in cui abbiamo temuto per la sopravvivenza del sistema. Quasi a significare che la sfida della sopravvivenza non solo è stata combattuta a difesa di quel che c’era e che avrebbe potuto andar perduto; ma ha comportato una torsione quasi iden- titaria. In questi mesi non abbiamo solo salvaguardato il nostro “essere” ma anche cercato, più o meno consapevolmente, di “essere altrimenti”. Per chi ci crede, anche le crisi possono diventare funzionali allo sviluppo sociale.
10. Finiamo allora questo anno, pervaso di pericoli e sacrifici, con una doppia po- sitiva acquisizione. Da un lato abbiamo visto in atto impegnative politiche di vertice volte ad allineare il sistema al rigore predicato e perseguito dalle più influenti sedi di potere europeo. E dall’altro abbiamo visto milioni di persone sopravvivere da sole alla crisi, con un’intima tensione a cambiare (ad “essere altrimenti”) e con differenziati riposizionamenti di competizione e di coesione.
Si è trattato di due dinamiche importanti, ma pur sempre parallele, visto che non si sono integrate fra loro, anzi hanno di fatto agito con reciproco senso di alterità, e talvolta di conflittualità. Se restassero in tale parallelismo ci potrebbe anzi essere il pericolo di una ulteriore loro divaricazione. Gli “dei della città” (politici e opinion maker) sembrano infatti propensi a pensare che solo una oligarchia della polis (o della city) possa gestire la competitività del sistema prescindendo dall’orientamento dei suoi vari soggetti. Mentre questi ultimi, che restano fuori dai poteri oligarchici, sono propensi a pensare che le scelte e i comportamenti che essi “da soli” hanno messo in campo per sopravvivere abbiano dentro una doppia potenziale forza: quella di esercitare una “disse- minazione” di culture di progressivo cambiamento individuale e collettivo; e quella di prefigurare una realistica governabilità, nata dall’attenta gestione delle recenti contingenze continuate.
Contrapposizioni di questo tipo sono spesso inutilmente coltivate nella nostra dialettica socio-politica; ma oggi sarebbero ancora più fuori luogo, visto che vive nel Paese una serietà collettiva (nelle preoccupazioni come nell’impegno) che era impensabile ancora pochi mesi fa e che non va dispersa nelle venature conflittuali delle prossime vicende elettorali. Tenere insieme le ragioni del rigore istituzionale e la popolare voglia di sopravvivenza sarebbe un ulteriore e significativo passo di crescita della nostra unità nazionale.