Segnali di rallentamento nelle vendite? Anche Mercadona decide di abbassare i prezzi

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La Spagna è il quarto partner commerciale dell’Italia. Attualmente sono quasi 500 le imprese spagnole presenti sul mercato italiano ed entro il 2030 saranno il doppio. La Comunità di Madrid, l’Andalusia, Valencia e la Catalogna sono le quattro regioni con il maggior numero di aziende presenti sul mercato italiano e le prime tre (Madrid, Valencia e Andalusia) registreranno la maggiore crescita della loro presenza nei prossimi anni. Queste regioni, con aziende del settore della moda e dell’agroalimentare, guideranno l’emergere delle imprese spagnole in Italia. Mercadona, la più importante insegna spagnola, che sta crescendo anche in Portogallo  non sembra intenzionata ad essere della partita. Eppure c’è stato un momento in cui  lo ha fatto credere. Però l’intuito di Juan Roig lo ha consigliato di non imbarcarsi in un’avventura dagli esiti incerti. Sa di essere considerato il migliore se continua a giocare su un campo che conosce. E l’intera penisola iberica è, per ora, il suo campo da gioco.

Nonostante il successo finanziario e commerciale, l’azienda in Spagna non è stata esente da critiche. Nel marzo 2023, durante la presentazione dei risultati dell’esercizio 2022, Juan Roig ha  riconosciuto di aver aumentato i prezzi. Ha difeso la misura come un’azione necessaria per evitare conseguenze su tutta la filiera: lavoratori, fornitori, clienti e la società in generale. Non si è certo nascosto dietro un dito né ha scaricato su altri le sue responsabilità.  L’azienda leader detta le tendenze. La concorrenza segue, come è successo recentemente con il prezzo dell’olio d’oliva. Mercadona nel 2023 ha fatturato 32.800 milioni di euro, un dato che tiene a distanza la concorrenza. Nel mese  di luglio, ha però registrato una diminuzione della sua quota di mercato di 0,2 punti percentuali rispetto a giugno, il primo calo mensile da dicembre dell’anno precedente.

Nonostante questo calo, la catena guidata da Juan Roig continua a occupare la prima posizione, con il 26,8% delle vendite. Secondo gli ultimi dati del Kantar Worldpanel, Carrefour, sotto la direzione di Elodie Perthuisot, è al secondo posto con una quota di mercato del 10%, che rappresenta un calo di 0,1 punti rispetto al mese precedente. Lidl, invece, riesce a mantenere la propria quota di mercato al 6,6%. Eroski, invece, che occupa la quarta posizione, perde 0,1 punti e raggiunge una quota del 4,2%, mentre il Grupo DIA mantiene la sua quota al 3,6%. Dietro di loro, Consum e Alcampo, rispettivamente al sesto e settimo posto, hanno registrato un aumento di 0,1 punti nella loro quota di mercato mensile. Consum raggiunge il 3,4% delle vendite di largo consumo, mentre Alcampo, parte di Auchan, raggiunge il 3,2%. A luglio, questi sette operatori rappresentavano il 57,8% del mercato dei beni di largo consumo in Spagna.

Questo leggero calo ha contribuito alla decisione di Mercadona di abbassare i prezzi su circa 1.000 prodotti nel 2024.  Tra  i prodotti scontati, spiccano  il pesce, il pane, la pasta e l’olio d’oliva. Quest’ultimo del 14%. Altro segnale che le strategie di prezzo (EDLP in primis) si devono adattare alla situazione. Uno dei settori più colpiti è la pescheria. Secondo Expansión la vendita del pesce in Spagna sta cambiando. NIQ precisa che l’anno scorso il pesce è stata l’unica categoria che ha ridotto il volume delle vendite in Spagna del 4,2%. Nonostante questo calo, la categoria è cresciuta del 3% in valore, grazie all’aumento dei prezzi. Inoltre, anche le abitudini di acquisto dei consumatori sono cambiate. Ormai si passa sempre meno tempo a cucinare o ad aspettare il turno in pescheria, da qui il proliferare di cibi trasformati o semilavorati in tutte le categorie. Questo è esattamente ciò in cui Mercadona vuole investire. Come rivelato dalla stessa catena di supermercati, sta effettuando test in 77 dei suoi punti vendita per ridurre il banco del pesce fresco e optare per preparazioni preparate in vaschetta. Leggi tutto “Segnali di rallentamento nelle vendite? Anche Mercadona decide di abbassare i prezzi”

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Conad e la Champion League

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Simpatica e azzeccata la metafora della Champion proposta da Francesco Avanzini Direttore Generale Conad per disegnare le diverse traiettorie delle insegne della GDO. Lasciare il primo posto a Selex nel campionato italiano è così meno frustrante. Selex è una centrale che comprende diverse aziende come lo è Vegé piuttosto che Agorà Network per citare alcune tra le più note. Al loro interno coesistono realtà eterogenee sia sul piano delle strategie che delle risorse disponibili.

È  vero, come lascia intendere Avanzini, che è un po’ come paragonare pere con mele. Il perimetro di responsabilità è differente. Nella stessa centrale possono coesistere addirittura situazioni contraddittorie.  Alcune funzioni formalmente simili nella loro definizione sulla carta  impongono pari professionalità ed esperienze. Altre sono in realtà molto diverse. Il punto è che le regole della competizione non sono modificabili in corsa. E quando era Coop in testa, alle inseguitrici, nessuno aveva preteso l’esame del DNA. E la “gara” quindi offriva a tutti, centrali, cooperative e singole realtà pari opportunità.

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Le abitudini dei consumatori visti dall’Osservatorio Immagino di GS1

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È indubbio che la qualità della vita della popolazione è strettamente legata alle abitudini anche alimentari. L’alimentazione è fondamentale per un invecchiamento di qualità. Tutti gli studi concordano sul fatto che un comportamento alimentare sano ed equilibrato consenta di mantenersi  in salute a lungo. Il fatto poi che il nostro Paese risulti sempre ai primi posti per la qualità del suo cibo non significa che da noi non esistano problemi. In Italia, come nel resto del mondo, non si mangia tutti allo stesso modo.

Secondo il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida “Da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi, cercando dal produttore l’acquisto a basso costo spesso comprano qualità”. Tutte le ricerche fatte però dimostrano il contrario: nel nostro Paese, come nel resto del mondo, le persone con minori disponibilità economiche tendenzialmente mangiano peggio. Così come mangia peggio chi, per mancanza di cultura,  non conosce gli effetti dell’alimentazione sulla salute, anche in termini di quantità di cibo oltre che di qualità, prima ancora di avere la disponibilità di acquistare gli alimenti più “sani”.

In questo contesto economico che tende alla polarizzazione dei consumatori le ragioni che incidono sulla motivazione all’acquisto sono diverse. Oltre al reddito, contano la conoscenza dei prodotti, le caratteristiche familiari, le opinioni che i clienti si creano in base anche alla comunicazione dei brand e delle insegne. Per le insegne garantire standard di sostenibilità ambientale significa quindi parlare di  riciclabilità, di livelli minimi di inquinamento e tossicità e capacità  di preservare risorse come energia e acqua. Lo vediamo in molti nuovi PDV, negli impianti di illuminazione e refrigerazione adottati, nei materiali utilizzati.  La stessa attenzione verso prodotti e scelte in questa direzione è aumentata significativamente nel corso degli ultimi anni.

La comunicazione sulla sostenibilità, se fatta bene, aumenta la fiducia dei consumatori nel brand. Persone informate e sensibilizzate, che sentono che le loro azioni possono fare la differenza, saranno consumatori leali e fedeli ai brand e alle insegne che adottano le giuste politiche di produzione e comunicazione dei valori della sostenibilità. Molte insegne della  GDO hanno scelto di caratterizzarsi sempre di più  in questo direzione. Ovviamente in proporzione  alle risorse economiche disponibili. Leggi tutto “Le abitudini dei consumatori visti dall’Osservatorio Immagino di GS1”

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LIDL. Net-zero 2050, un punto di riferimento per la Grande Distribuzione

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È un obiettivo a livello internazionale. Ambizioso quanto basta. Entro il 2050 LIDL nei 31 Paesi dove è presente punta all’equilibrio tra la quantità di gas a effetto serra (GHG) rilasciati nell’atmosfera e la quantità di gas a effetto serra rimossi. Lanciato nel 1998, il GHG Protocol è il quadro di riferimento globale per la misurazione e la gestione delle emissioni di gas a effetto serra (GHG) derivanti da operazioni, catene di valore e azioni di mitigazione del settore privato e pubblico.  L’obiettivo di limitare al di sotto di 1,5°C il riscaldamento globale e di raggiungere emissioni di carbonio pari a zero è stato previsto dall’Accordo di Parigi.

L’accordo raggiunto il 12 dicembre 2015 impegna a mantenere l’innalzamento della temperatura sotto i 2° e – se possibile – sotto 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali. Fino al 2020 le riduzioni delle emissioni erano regolate dal Protocollo di Kyoto e erano obbligatorie solo per i paesi industrializzati. Il sostegno finanziario e tecnologico alle azioni di mitigazione e di adattamento ai cambiamenti climatici deciso a Parigi è fondamentale perché può favorire in tutto il mondo una transizione verso economie a basso tenore di carbonio.

L’accordo è stato firmato da 177 paesi, compresa l’Italia, il 22 aprile 2016 a New York, nella sala dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. Per raggiungere gli obiettivi che si propone  e far sì che il riscaldamento globale non superi 1,5°C, soglia oltre la quale il cambiamento climatico minaccia di rendere invivibili alcune parti del pianeta, le emissioni devono essere ridotte del 45% entro il 2030 e raggiungere lo zero netto entro il 2050. Attualmente a livello globale non si è purtroppo sulla buona strada.

Le Aziende del Gruppo Schwarz hanno aderito all’iniziativa Science Based Targets (SBTi) nel 2020 per contribuire all’obiettivo di limitare il riscaldamento globale intorno agli 1,5 °C, in linea con quanto previsto dall’Accordo di Parigi. SBTi è l’iniziativa che definisce obiettivi di riduzione delle emissioni basati sulla scienza, per rafforzare la posizione competitiva delle aziende che vogliono passare a un’economia a basse emissioni di carbonio.  L’iniziativa nasce nel 2015 dalla collaborazione tra CDP, UN Global Compact, World Resources Institute (WRI), World Wide Fund for Nature (WWF) e We Mean Business Coalition, e mira a guidare le aziende in un percorso strutturato verso la riduzione significativa e scientificamente fondata delle emissioni di gas serra. Leggi tutto “LIDL. Net-zero 2050, un punto di riferimento per la Grande Distribuzione”

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Despar Nord (Aspiag Service) in prima linea contro gli sprechi alimentari.

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In occasione della Giornata internazionale della consapevolezza sugli sprechi e le perdite alimentari che ricorre il 29 settembre, Despar Nord rinnova il proprio impegno nel contrasto allo spreco alimentare con una campagna in store e sui canali web https://www.despar.it/it/antispreco/#gref per sensibilizzare i clienti. Nel 2019 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha ufficialmente introdotto la Giornata internazionale della Consapevolezza sugli sprechi e le perdite alimentari, che dal 2020 viene celebrata il 29 settembre. L’appuntamento è un invito ad enti pubblici e privati affinché si attivino per ridurre le perdite e gli sprechi alimentari e per la transizione sostenibile dei sistemi agroalimentari, come richiesto dagli Obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Despar Nord (Aspiag Service), concessionaria dei marchi Despar, Eurospar e Interspar in Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna e Lombardia con una rete logistica di 10 piattaforme, gestisce 250 punti vendita diretti e rifornisce 304 punti vendita affiliati con  oltre 9.285 collaboratori. Assieme alle concessionarie SPAR di Austria, Slovenia, Croazia e Ungheria, Aspiag Service fa parte del gruppo SPAR Austria. Aspiag Service è inoltre parte del Consorzio Despar Italia che, con i suoi 6 soci consorziati, riunisce tutte le concessionarie del marchio sul territorio nazionale. Da ormai 20 anni, l’azienda ha avviato con Banco Alimentare e Last Minute Market un progetto per il recupero delle eccedenze alimentari e la donazione ad associazioni ed enti caritativi del territorio. Nel solo 2023 nei punti vendita a gestione diretta delle regioni in cui l’azienda è presente sono state raccolte 1.460 tonnellate di prodotti alimentari rimasti invenduti. Gli alimenti raccolti sono stati redistribuiti attraverso una rete di oltre 170 associazioni e organizzazioni benefiche sui territori e hanno consentito la preparazione di circa 3,2 milioni di pasti destinati a coloro che si trovano in situazioni di maggiore necessità.

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Conad (ri)lancia una linea di prodotti studiati per “Piacersi”.

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I consumatori non sono tutti uguali. E non tutti sono alle prese con gli stessi problemi. Segmentarne gusti e aspettative è importante così come anticipare tendenze. Declinarli poi in un concetto di convenienza e di salute a 360° in un momento dove l’attenzione alla spesa alimentare è alto dimostra la sensibilità al contesto e alla sua evoluzione tipica di una grande azienda del comparto. Secondo IPSOS c’è un’attenzione crescente verso la salute mentale e fisica e gli affetti, dalla famiglia alle relazioni sentimentali. Benessere a tutto tondo e relazioni significative passano in primo piano rispetto a valori come il successo professionale ed economico e il divertimento.

E questo è il portato di ciò che abbiamo alle spalle (pandemia e inflazione) e le preoccupazioni indotte dal contesto che stiamo vivendo. Lo si comprende anche dal fatto che il “successo in sé” scala come priorità e sarebbe ricercato solo da un italiano su quattro. Io lo leggo come una sorta di disillusione e di rassegnazione sulle reali possibilità di cambiamento delle proprie condizioni. È un segno dei tempi. La cosiddetta “permacrisi” che segnala un elemento di difficoltà costante e non passeggero produce inevitabilmente  due effetti. Il primo di grande attenzione alla spesa alimentare (perché è una delle poche voci di spesa che dipende dalle scelte individuali).

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Il lavoro nei servizi al consumo. Un contributo interessante della sociologa Giovanna Fullin

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Ho avuto modo di partecipare ad un’iniziativa proposta dal Sindacato di base CUB (nato negli anni 90 da una scissione nella FIM CISL milanese) sul lavoro nei servizi dal titolo: “Flessibilità-alienazione e rapporti con i clienti”. Argomento impegnativo e ambiente, com’era prevedibile  estremamente critico sia nei confronti delle aziende del terziario, insegne GDO  in testa, ma anche dei sindacati confederali. L’occasione è scaturita dalla presentazione del libro di Giovanna Fullin “I CLIENTI SIAMO NOI. IL LAVORO NELLA SOCIETÀ DEI SERVIZI (Il Mulino, 2023)”.

Le ricerche sul lavoro nel terziario e nei servizi,  che ormai riguardano oltre  il 70% dell’occupazione totale, si concentrano in genere sui knowledge workers o sui lavoratori delle piattaforme. Difficile trovare sociologi del lavoro che hanno focalizzato il loro lavoro sui servizi al consumo pur trattandosi di oltre 5 milioni e mezzo di persone. Quasi il 30% dell’occupazione complessiva. Ci aveva provato negli anni 90 un altro sociologo, Renato Curcio, noto più per altre vicende, che aveva individuato, studiando i lavoratori dei centri commerciali e degli ipermercati, l’emergere di una nuova “classe operaia” in grado di sostituirsi al cosiddetto “operaio massa” fondamentale per la ripartenza di un movimento simile a quello del ‘68. Anche allora le interviste a supporto le avevano fornite i lavoratori della GDO, i delegati sindacali delle aziende  e i sindacalisti (soprattutto della Uiltucs milanese).

Al di là delle teorizzazioni di allora che poi si sono dimostrate completamente errate per la prima volta in quelle riflessioni sindacali entrava il “cliente”. Pur raccontato da Curcio  come isterico e alleato del datore di lavoro nel “vessare” i lavoratori, ma terzo soggetto di un triangolo che, in qualche modo, introduceva un elemento di diversità rispetto alle riflessioni sul lavoro derivate dalla cultura industriale e tayloristica che riduceva il rapporto di lavoro  alle dinamiche esclusive tra imprenditore e lavoratore.

Questa presenza viene ripresa anche dalla sociologa  Fullin che costruisce un nesso interessante  tra mestieri diversi (dal lavoro nel turismo, alla ristorazione, dalle hostess fino alla grande distribuzione) dove il rapporto con il cliente è centrale e ne approfondisce alcuni aspetti nel libro. Innanzitutto il delicato confine tra organizzazione aziendale e cliente.  L’organizzazione tende, per sua natura, a standardizzare i comportamenti richiesti  ma deve contemporaneamente saper costruire un rapporto personalizzato perché il cliente porta con sé una forte dose di imprevedibilità nei suoi comportamenti. Tra l’altro, nel negozio del  futuro, questa capacità di relazione e di assistenza sarà ancora più centrale. Leggi tutto “Il lavoro nei servizi al consumo. Un contributo interessante della sociologa Giovanna Fullin”

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Associazioni di categoria. Gli associati si contano o si pesano?

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Se si dovessero contare gli associati effettivi che ciascuna confederazione o associazione vanta senza essere costretta a certificarne la corrispondenza effettiva in molti casi   scopriremmo “magheggi” interessanti. Forse è anche per questo che una legge sulla rappresentanza è lontana dall’essere approvata. Bilanci e numero degli associati non dappertutto sono trasparenti.   Ha ragione Renato Brunetta che, al Meeting di Rimini, ha sostenuto: “Una delle imprese difficili è far tornare in vita i corpi intermedi”. La crisi della rappresentanza sociale ed economica è evidente. Il peso dei sindacati tradizionali sulle questioni di fondo è relativo. La loro capacità di mobilitazione nelle singole imprese è  localizzato in alcuni settori a macchia di leopardo.

La rappresenta datoriale è, di fatto, su un binario morto. La recente elezione di Emanuele Orsini in Confindustria è passata quasi inosservata. In Confcommercio rischia di fare più notizia la  polemica sull’età del suo Presidente o la sua volontà di ottenere un altro mandato che le proposte  sui temi del terziario e dell’economia. Altre organizzazioni datoriali fanno da tappezzeria. Qualche modesto pezzo sui media  in occasione di avvenimenti di settore o interviste dei loro presidenti rivolte più alle dinamiche associative  dei rispettivi mondi che tese ad affrontare i nodi veri del Paese che sembra ricambiare, sempre più disinteressato al loro agire. Alla politica che conta in fondo va bene così.

L’unica confederazione che ha anticipato la fase che vede in campo il Governo di centro destra muovendosi quasi in simbiosi, può piacere o meno,  è stata Coldiretti. Si è mossa però in modo grossolano decidendo di  ingaggiare a testa bassa  uno scontro duro con Confagricoltura (e Confindustria/Unionfood)  ed è anch’essa ormai accompagnata dalle critiche di chi ne sottolinea più la volontà di salvaguardare le sue prerogative e il suo potere che l’effettiva volontà di affrontare i problemi del comparto. Un associazionismo per alcuni, complessivamente  in panchina, per altri, in grande ritardo.

Se poi passiamo alla Grande Distribuzione l’offerta associativa è decisamente sovrabbondante. Abbiamo ben quattro organizzazioni  che ne rivendicano, in tutto o in parte, la rappresentanza o la leadership autonoma sul merito delle questioni di fondo. Tutte firmatarie di contratti nazionali. Due, pur con pesi diversi, sono di rango confederale: Confcommercio e Confesercenti. A livello associativo abbiamo Federdistribuzione e ANCC-Coop. Ci sarebbe anche ANCD-Conad ma, essendo quest’ultima anche in Confcommercio la considero parte del sistema di piazza Belli. Non conto Confimprese ma qualche realtà del comparto c’è anche lì. Amazon, per citare il convitato di pietra del comparto,  sta, in Italia, in  Conftrasporto mentre in Europa sta in Eurocommerce dove c’è tutta la GDO europea, compreso Federdistribuzione e Confcommercio. Nonostante questo la sua attività di lobby la gestisce in prima persona. 

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Alimenti “plant based”. Aldi guida la corsa in Germania. Ma l’interesse cresce anche da noi…

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Per quanto riguarda il nostro Paese, secondo una indagine condotta da Astraricerche e Unione Italiana Food, sono circa 22 milioni gli italiani che consumano prodotti plant based (cioè a base di proteine vegetali vegetali, spesso nati come alternativa a cibi con proteine di origine animale come carne e formaggio). Il 25% degli italiani che non ha ancora provato questi prodotti afferma di poterlo fare in futuro e Bloomberg prevede un ulteriore sviluppo a livello globale, stimando un passaggio dai 44 miliardi di dollari attuali ai 162 miliardi entro il 2030.

Non a caso, Ferrero sceglie il suo prodotto principale per segnalare l’inizio di un cambiamento epocale. “Accogliamo con favore gli sforzi di Ferrero per soddisfare le esigenze e le aspettative dei milioni di consumatori che seguono diete a base vegetale e vegane”, ha affermato Vanessa Brown, responsabile dei marchi presso la Vegetarian Society. “Siamo lieti di annunciare che la nuova Nutella a base vegetale soddisfa i severi criteri della Vegetarian Society per l’accreditamento vegano. Uno dei marchi più amati al mondo offre ora un’opzione a base vegetale.”

È una delle due grandi traiettorie di novità sull’alimentazione (l’altra è l’etnico) e di ciò che troveremo, in quantità notevolmente superiore ad oggi, sugli scaffali della Grande Distribuzione tra non molti anni. I prodotti alimentari proteici di origine vegetale sono considerati più sani, più nutrienti rispetto alle offerte dietetiche a base di carne. Per ragioni anche di questo tipo, le fonti di proteine vegetali, stanno riscuotendo una popolarità di mercato senza precedenti. La Germania è sicuramente il Paese dove la GDO sta investendo di più. È così dopo Lidl,  anche ALDI ha annunciato che  entro la fine di quest’anno avrebbe superato i 1.000 prodotti nella sua gamma di prodotti vegetali. Nel gennaio del 2023 nel suo rapporto nutrizionale affermava: “Il nostro obiettivo è offrire ai nostri clienti almeno 1.000 varietà di prodotti a base vegetale distribuite durante l’anno nelle nostre gamme standard, stagionali e promozionali entro la fine del 2024. Per raggiungere questo obiettivo, ci stiamo concentrando non solo sulla riduzione delle piccole quantità di ingredienti di origine animale nei nostri prodotti, ma anche sull’espansione costante della nostra gamma vegana”. ALDI sta inoltre lavorando per filtrare piccole quantità di origine animale dai prodotti e “veganizzarli”. Ciò include, ad esempio, la sostituzione del cioccolato al latte nei muesli con cioccolato vegano.

Già oggi, la percentuale di prodotti a base vegetale venduti nell’ambito della gamma a marchio proprio da ALDI Süd ha superato gli articoli a base animale, con il primo che rappresenta il 60% del totale. Il discount offre più di 1.200 prodotti etichettati vegani ed entro la fine del 2026, si prevede che questo numero salirà a 1.400. Mahi Klosterhalfen, presidente della Fondazione Albert Schweitzer, ha dichiarato: “Il Retail food  svolge un ruolo cruciale nella transizione verso una dieta più a base vegetale”. “La decisione di ALDI Süd di misurare la proporzione di prodotti a base vegetale rispetto ai prodotti animali è un passo importante su questo percorso e segna l’inizio di un cambiamento continuo”. Leggi tutto “Alimenti “plant based”. Aldi guida la corsa in Germania. Ma l’interesse cresce anche da noi…”

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Amazon USA una nuova proposta per tenere testa ai discount…

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L’inflazione degli Stati Uniti scende al 2,5% ad agosto rispetto al 2,9% di luglio, tornando al livello di marzo 2021. Eppure la preoccupazione per i prezzi resta alta. La convinzione diffusa è che nulla sarà come prima. Anche per i consumatori americani. Non è un caso se anche Amazon per rispondere a questa esigenza si è messa ad inseguire i discount sul loro terreno, moltiplicando promozioni e sconti e mettendo  sul mercato una nuova tipologia di offerta definita “senza fronzoli”.   L’hanno chiamata “Amazon Saver”. Prezzi che crescono e redditi che non salgono sono all’ordine del giorno ovunque.   C’è chi lo capisce e chi no.

“Amazon ha grandi ambizioni nel retail fisico e online, quindi deve saltare su questo carro e affinare la sua posizione nel rapporto qualità-prezzo”, ha dichiarato Neil Saunders, analista del mercato USA e amministratore delegato di GlobalData Retail. “I prodotti Saver sosterranno l’azienda nel perseguimento di questo obiettivo”. Saunders ha sottolineato alla CNN che è fondamentale che Amazon proponga prodotti con “qualità ragionevole”, perché i consumatori  “non vogliono solo  prodotti economici; vogliono prodotti buoni a prezzi bassi”. D’altra parte il costo della spesa degli americani nell’ultimo anno è aumentato dal 20% al 30% in più rispetto a tre anni fa e i redditi non sono riusciti a tenere il passo. Qui da noi, purtroppo, molti osservatori  continuano non capire la centralità del problema e i rischi sul piano sociale ed economico che questa sottovalutazione comporta. 

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