Qualcosa si muove intorno a noi…

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C’è voglia di cambiamento nel Paese. E non solo nella politica. Ci sono persone chi interpretano questa voglia voltandosi indietro e chi, al contrario, cerca di trovare risposte, guardando in avanti.

La politica interpreta queste volontà agitandosi in entrambe le direzioni. Il mondo del lavoro e della rappresentanza, almeno fino al referendum istituzionale, ha tentato di tenere insieme quanto di buono veniva dal passato con un presente difficile cercando, però, per quanto è possibile, di interpretare il futuro.

D’altra parte la profondità della crisi e l’Europa presentata come matrigna hanno purtroppo rappresentato per molti solo un grande alibi. Il cambiamento necessario vissuto come una maledizione inevitabile. Quindi subìto.

Comprensibile nei singoli individui perché disorientati non in chi li dovrebbe rappresentare perché il futuro non si subisce né si immagina; si fa. E, purtroppo, lo si deve fare operando quotidianamente tra chi ipotizza cose mirabolanti ma lontane e forse improbabili e chi, incapace di uscire dal porto, ripropone costantemente l’illusione di un ritorno al passato. Ma le navi non sono costruite per essere tenute ancorate nei porti.

Purtroppo quello dei corpi intermedi è un mondo un po’ autoreferenziale dove tutti pensano di avere molte ragioni e dove i torti, semmai, sono sempre degli altri. Il recente intervento di Marco Bentivogli sul Foglio ha il merito di rompere gli schemi e di proporre uno scenario con il quale è necessario confrontarsi. Uno scenario in movimento per tutti.

Da un lato la CGIL e la sua carta dei diritti. Dall’altro i pentastellati che ripropongono la disintermediazione nel lavoro scegliendo come compagno di viaggio il rancoroso ex FIOM Cremaschi. Quest’ultimo, con i Grillini, sembra però avere un solo obiettivo in comune: delegittimare il sindacato confederale.

Tutte strade, queste, decisamente impraticabili. Sicuramente per il mondo delle imprese. Così come sarebbe un errore accettare come inevitabile il declino propositivo unitario delle organizzazioni di rappresentanza. Il rischio dell’irrilevanza dei corpi sociali si combatte entrando nel merito delle questioni poste. Anche da sindacalisti come Marco Bentivogli che segnalano l’avvicinarsi del punto di non ritorno. Non solo per il sindacato confederale.

Innanzitutto nel prefigurare un futuro possibile nel quale dobbiamo essere tutti consapevoli che la tradizionale divisione del lavoro tra terziario, industria e agricoltura sta mutando rapidamente.

I tradizionali confini settoriali stanno venendo meno. La conseguenza di questa nuova divisione del lavoro è che l’industria tenderà sempre di più a terziarizzarsi e il terziario tenderà inevitabilmente ad industrializzarsi cercando di realizzare economie di scala nella gestione dei servizi, dei dati e delle conoscenze.

Nelle filiere globali che stanno emergendo da questi nuovi modi di lavorare tutto ciò che può essere meccanizzato e codificabile verrà sempre più attratto inevitabilmente da luoghi dove i costi sono minori (lavoro, energia, tasse, vincoli amministrativi e ambientali) o al contrario dove esistono capacità e talenti di eccellenza in specifiche situazioni.

Quindi la capacità del sindacato di trovare nuovi livelli di mediazione può fare la differenza. La vicenda FCA lo dimostra inequivocabilmente. Le conseguenze che questa prospettiva può avere per l’attuale assetto anche della rappresentanza sia imprenditoriale che sindacale, ancorate tuttora a un modello che deriva dal secolo scorso è facilmente immaginabile.

Il compito della nuova rappresentanza, che voglia impegnarsi a gestire la transizione in corso, è dunque di aiutare le imprese e il lavoro, che si presenta sempre più anche in forme differenti e deregolamentate, a non esserne travolti presidiando alcune azioni chiave. Innanzitutto investendo sul capitale umano e sulle infrastrutture necessarie alla rivoluzione digitale/globale in corso.

Poi impegnandosi a promuovere le innovazioni collettive (politiche, contrattuali, sociali, infrastrutturali, normative, di welfare e di apprendimento/ricerca) che è necessario realizzare per sostenere i percorsi delle imprese e dei lavoratori nel difficile confronto con i nuovi competitors. E su questo, gli ultimi rinnovi contrattuali hanno cominciato a dire qualcosa di nuovo.

Infine occorre stimolare lo sviluppo di iniziative che favoriscano forme (chiamiamole pure come vogliamo) di collaborazione intraprendente, corresponsabilità, partecipazione, condivisione del rischio tra i tanti soggetti coinvolti dai percorsi di transizione a monte, all’interno e a valle dell’impresa.

Ultimo ma non di minore importanza occorrerà partecipare alla trasformazione in senso creativo ed efficiente dei contesti di vita e di lavoro che condizionano produttività e creatività delle imprese (smart cities, ambienti creativi, attrazione dei talenti, relazioni utili con la ricerca e le università, servizi innovativi di welfare ecc.).

Per fare tutto questo non occorre disintermediare alcunché. Occorre esattamente l’opposto. Occorre più rappresentanza, seppure diversa, non meno.

Marco Bentivogli ha fatto bene a lanciare un segnale forte a tutto il sindacato (e non solo alla sua parte) segnalando l’urgenza dei cambiamenti necessari e la loro direzione di marcia. Sarebbe importante che la sfida venisse raccolta da tutti.

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Il trivio necessario…

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Nessuno ha notato la concomitanza tra due eventi apparentemente opposti. L’8 aprile, al teatro Brancaccio di Roma l’attivo dei delegati della CGIL mentre, a Ivrea il movimento 5 stelle ha scelto lo stesso giorno in un luogo simbolico e la figura di Adriano Olivetti per lanciare Sum01 “Capire il futuro”.

Da una parte un pezzo comunque importante del Paese, rappresentato dalla CGIL, che cerca di ricostruire intorno ad un’idea, condivisibile o meno, di centralità dei diritti, dignità del lavoro e una diversa distribuzione del reddito il proprio futuro politico e sociale. Una parte che individua nella globalizzazione più i rischi che le opportunità.

Dall’altra un movimento eterogeneo che sa di poter vincere politicamente perché è riuscito ad intercettare sia la protesta che la voglia di cambiamento che sta crescendo nel Paese, soprattutto tra le nuove generazioni. Un movimento che ha, nel cuore della base e dei militanti, i tassisti ma ha Uber nella testa dei suoi ispiratori.

Non è un caso che il mov 5 stelle ha scelto Olivetti e la sua Ivrea. Immagine rassicurante di un imprenditore visionario lontano dagli stereotipi manageriali e imprenditoriali ” sempre bravi a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite” di cui il nostro Paese resta uno dei principali produttori.

C’ė, nei vertici del movimento, la certezza assoluta della vittoria e quindi la volontà di rassicurare il Paese che conta. Ma anche di spiegare alle sue diverse anime interne, invitate in platea, che non c’è spazio per i protagonismi movimentisti della prima ora. Un passaggio difficile. Soprattutto perché il movimento rischia la diaspora di una parte consistente dei militanti “duri e puri” proprio nell’ultimo miglio. La vicenda di Roma è lì a dimostrarlo.

Dall’altra parte la CGIL che vinta la partita dei voucher “a tavolino” sembra aver scambiato, purtroppo, un tramonto per un’alba e cerca di serrare le fila per nuove battaglie contando esclusivamente sulle proprie forze e su quella parte della sinistra esclusivamente impegnata in una rivincita contro Renzi e ciò che rappresenta.

Un dato che li accomuna è la convinzione di potercela fare da soli. Entrambi sicuri di attrarre verso di sé il resto del mondo di riferimento. I primi sul piano sociale, i secondi su quello politico. È il NO che, inevitabilmente, li unisce. Anche se è un NO di segno opposto. Il NO a tutto ciò che cambia il lavoro costruito dai baby boomers (che oggi governano il sindacato) e lo mantiene ancorato ad una tradizionale cultura fordista, per i primi. Il NO a tutto ciò che quelle generazioni hanno costruito nel bene e nel male, in Italia e in Europa, per i vertici dei secondi.

Si elideranno a vicenda? Probabilmente si. Il punto è stabilire chi ne pagherà le conseguenze. A mio parere manca ancora all’appello un terzo soggetto credibile. Sociale e politico.

Paolo Pirani, segretario generale UILTEC, con una battuta felice ha centrato il problema: “Più che un Partito della Nazione occorrerebbe un Patto per la Nazione”. Indubbiamente è l’ultima chance che ha a disposizione questo Paese prima del burrone. Chi non crede nella deriva movimentista o in quella tecnocratica digitale non può stare alla finestra. Non siamo di fronte ad un bivio ma ad un trivio.

È difficile pensare che un Paese come il nostro con differenze territoriali e culturali così profonde e con il nostro debito pubblico possa “salvarsi” mettendo le generazioni l’una contro l’altra o scegliendo strade diverse da tutto il resto d’Europa.

Nel sindacato, nei corpi intermedi più in generale e, probabilmente nel Paese c’è anche voglia d’altro. Lo stesso referendum del 4 dicembre lo ha dimostrato. Che lo si voglia ammettere o meno è da lì che occorre ripartire per ricostruire, insieme, un’altra idea di Paese. Più moderno, inclusivo, unito nei territori, nelle generazioni e nei suoi valori di fondo.

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Mala tempora currunt….

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Le dinamiche messe in atto dall’esito referendario stanno rimettendo in moto il quadro politico italiano e, di conseguenza, le dinamiche che attraversano i corpi intermedi.

Sul fronte datoriale la debolezza di Confindustria è evidente. Le vicende interne pesano. La stessa difficoltà a chiudere l’accordo confederale con i sindacati lo dimostra come il fatto che, i suoi comparti, hanno preferito chiudere i rispettivi contratti nazionali manifestando la volontà di mantenere comunque una forte autonomia settoriale.

Inascoltata dal Governo sui voucher (come purtroppo tutte le organizzazioni datoriali), sta tentando di rimettersi in gioco lasciando intendere al Governo la possibilità di uno scambio tra l’aumento del’IVA e una riduzione del cuneo fiscale. Scambio che non farebbe bene al Paese.

Ma, al netto dei problemi specifici di Confindustria, questa difficoltà a rientrare in gioco per poter dare il proprio contributo propositivo al rilancio del Paese è un po’ di tutte le parti datoriali. E questo non è un bene di fronte alla accentuata debolezza della politica, alle sue divisioni e in un contesto internazionale profondamente mutato.

Se Atene piange, però Sparta non ride. Nel campo sindacale ciò che i contratti nazionali avevano prodotto di buono sul terreno dell’unità tra le diverse sigle confederali e con le rispettive controparti rischia di essere vanificato dalla divaricazione che pare inarrestabile tra la CGIL e le altre due confederazioni.

Il protagonismo messo in campo dal primo sindacato italiano è evidente. La “vittoria a tavolino” sui voucher è solo il primo segnale. È difficile non cogliere nei propositi di Susanna Camusso la volontà di approfittare della debolezza della sinistra politica (vecchia e nuova) per contribuire in modo determinante a ridisegnarne il campo.

La CGIL, come peraltro le altre organizzazioni sindacali, ha capito benissimo che nelle aziende il vento è cambiato profondamente. Tra i lavoratori c’è preoccupazione per il proprio futuro e per il contesto ma c’è voglia di dare il proprio contributo, di impegnarsi e di fare la propria parte nell’interesse dell’impresa e del lavoro.

C’è, in sostanza, voglia di collaborare, di investire su se stessi e nel rapporto con la propria azienda. Certo permangono situazioni di crisi, anche grave, dove i sindacati sono costretti in un ruolo tradizionale. Ma, queste realtà, non rappresentano la norma.

Non è un caso che i contratti nazionali si siano chiusi unitariamente e il dissenso presente nell’elaborazione delle differenti piattaforme è improvvisamente scomparso lasciando il campo ad una volontà convergente nelle singole categorie. Così come non è un caso che, proprio la CGIL, ha messo in campo una spinta decisiva per chiudere rapidamente i rinnovi e formalizzare gli accordi sulla rappresentanza e sui livelli della contrattazione.

A tutto questo, però, non è seguito nessun forte ridisegno dei rapporti unitari né la volontà di riprendere una iniziativa comune che rimettesse al centro un ruolo propositivo dell’insieme delle parti sociali. È un po’ come se l’obiettivo politico della CGIL di contribuire a ridisegnare in prima persona il campo della sinistra fosse comunque prevalente a tutto il resto e quindi necessitasse di sgomberare velocemente il terreno da tutto ciò che poteva in qualche modo ritardarne l’implementazione sociale. Contratti nazionali compresi.

È vero che CISL e UIL confederali sono in evidenti difficoltà sul piano dell’iniziativa generale ma nelle rispettive categorie la generosità e la disponibilità messa in campo sul terreno unitario faceva ben sperare. Vedremo le prossime mosse.

È chiaro che una CGIL che si dovesse caratterizzare sempre più come soggetto politico è comunque destinata, prima o poi, a entrare in rotta di collisione con l’insieme del sistema della rappresentanza. E questo non è un bene. È già successo in altri Paesi con un esito scontato.

Il vero problema è che una CGIL che si dovesse sottrarre per mero calcolo politico ad un ruolo unitario e di proposta con l’insieme del sindacato confederale propedeutico ad una convergenza tra capitale e lavoro commetterebbe un grave errore destinato ad essere pagato da tutto il Paese. Purtroppo i segnali di questi giorni non sono incoraggianti.

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Signore, io sono Irish…

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Un vecchio e indimenticato pezzo dei New Trolls negli anni 70 descriveva la domenica di uno schiavo nero che, dopo una durissima settimana impiegata a raccogliere il cotone, il giorno del riposo si trovava costretto a fare 60 miglia a piedi per andare e tornare dalla messa.

Allora la domenica aveva questo duplice scopo: riposare e dedicare a Dio, per i credenti, il settimo giorno. Riposare significava recuperare veramente le forze. E non metaforicamente. Da allora molte cose sono cambiate. Nel lavoro, nel vivere la propria religiosità e nel dare significato al termine “riposo”.

Per il lavoratore coinvolto in una particolare attività economica e per quello che, quel giorno, lo utilizza per trasformarsi anche in consumatore. Sul lavoro festivo, purtroppo, si va da un estremo all’altro.

L’outlet di Serravalle Scrivia, suo malgrado, rischia di trasformarsi in una sorta di linea di confine. Finirà come sempre. Da una parte la narrazione dei contrari al lavoro domenicale quasi esclusivamente sui media, dall’altra la realtà di migliaia di lavoratori/consumatori che, quel giorno, come in tutte le altre festività, affolleranno l’outlet per passare una giornata di festa magari con qualche acquisto.

Un outlet, un grande centro commerciale ma anche un supermercato dovrebbero essere aperti sempre. Soprattutto oggi dove i concorrenti sono del livello e dell’aggressività commerciale di Amazon o E Bay. Questi ultimi con negozi virtuali aperti tutto l’anno h 24 con saldi a getto continuo per tutto l’anno. Se non fossero frequentati anche nei giorni festivi non avrebbe alcun senso tenerli aperti. I costi di gestione sarebbero pesantissimi.

Domenica scorsa sono stato al “Centro” di Arese. C’erano decine di migliaia di persone. Famiglie, giovani, un po’ di tutto. Dal 1963 al 2005 c’era l’Alfa Romeo. Poi più niente. Sono cresciuto a due passi dal Portello a Milano. Anche lì fino al 1963 c’era l’Alfa Romeo. Poi il nulla. Il centro commerciale ha rivitalizzato il quartiere e trasformato un luogo degradato in un centro di incontri e di svago tutto l’anno.

A differenza di altre città Milano ha saputo interpretare bene il passaggio da città industriale a città del commercio e del terziario. Ha gestito con intelligenza le contraddizioni tra Grande e piccola Distribuzione. Ha assorbito gli inevitabili contrasti. Questo ha creato occupazione vera. Sopratutto per molti senza alcun titolo di studio, donne e giovanissimi anche provenienti da altri Paesi.

Occorrerebbe prendere atto che come la televisione si è trasformata negli anni in un antidoto alla solitudine per molti anziani questi centri sono diventati accoglienti, pieni di vita e luoghi frequentatissimi tutto l’anno. E non solo per fare acquisti. Negarlo o far finta di non vederlo è un errore.

O meglio è uno di quei residui di atteggiamento fine 900, un po’ snob, che comprende anche il giudizio sui Mc Donald’s, sulla Coca Cola, sul terziario in generale visto come ancillare rispetto ad un mondo che non esiste più. Personalmente poi, lo dico sommessamente,  provo un certo imbarazzo per tutti quei laici che si nascondono dietro il tema religioso esclusivamente per sollevare un inutile polverone..

Per centinaia di migliaia di persone lontane da questi dibattiti sono luoghi dove passare il tempo. Sarebbe ora di comprenderlo e guardare avanti. Anche perché il lavoro sarà sempre più terziario. Povero o ricco di contenuti che sia.

L’amico Giuseppe Sabella centra il problema quando invita a riflettere su di un punto: “Il lavoro futuro passa inevitabilmente per una nuova umanizzazione dei luoghi di lavoro. E, chiaramente, il lavoro festivo va pagato come tale.” Sono perfettamente d’accordo.

Per questo ci sono i contratti di lavoro che devono evolvere proprio perché il lavoro cambia. Aprire 360 giorni all’anno non significa lavorare tutto l’anno. Significa organizzare il lavoro e i riposi e retribuire il giusto. E il giusto lo si deve concordare  nei contratti di lavoro.

Ma il lavoro nel terziario resta profondamene diverso da quello industriale. Ruota intorno al servizio, non al prodotto. Si dice: “ma all’estero non è così”. È vero. Il tessuto distributivo degli altri Paesi e le regole sono diverse. Anche il tessuto industriale, però, è diverso.

Ogni Paese ha le sue regole, i suoi contratti di lavoro e una cultura commerciale differente. Si aggiunge: “C’è molto lavoro povero”. Si. Però  questo fornisce uno sbocco a migliaia di giovani, sopratutto donne che non proseguono gli studi e che possono entrare nel mercato del lavoro e crescere. E, assicuro i più scettici, la formazione messa a disposizione nella Grande Distribuzione è di notevole entità e qualità.

C’è molto da fare sul piano contrattuale. Certo che si. Verso il basso perché il fordismo è entrato nei centri di Distribuzione, nelle attività di consegna e nel lavoro povero della GDO e verso l’alto anche in quegli stessi o in altri settori. C’è da affrancarlo proprio dalla cultura fordista senza però dimenticare che molti di quei lavori saranno presto sostituiti da macchine o direttamente dai consumatori stessi.

Francesco Riccardi sull’Avvenire esagera quando scrive: “I sindacati – e in particolare la Cgil – hanno compreso da tempo, però, che in gioco non c’è tanto e solo una questione contrattuale su orari e retribuzioni, che si possono sempre negoziare, ma qualcosa di assai più prezioso: i diritti di ciascun lavoratore e di tutti…”.

Mi sembra francamente una esagerazione. Non credo che i sindacati si siano mai proposti di bloccare a Pasqua o in altri periodi, Gardaland, i parchi tematici o le multisale cinematografiche. Non c’è molta differenza e anche lì lavorano, pur nel rispetto dei loro diritti, migliaia di lavoratori del terziario.

A suo tempo Confcommercio pose il problema della regolamentazione delle aperture cercando di consentire alle Regioni uno spazio di manovra soprattutto quando, nel gennaio del 2012, entrò in vigore la riforma c.d. Salva Italia del Governo Monti, con la liberalizzazione totale degli orari di apertura, 24 ore giornaliere e 365 giorni l’anno.

Non ci fu nulla da fare. Né nessuno (anche di chi oggi protesta) disse nulla. Comunque Federdistribuzione conferma un aumento degli occupati significativo a seguito della liberalizzazione. Che di questi tempi, non credo sia comunque da sottovalutare.

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Sgravi contributivi per i giovani. Perché ripetere l’errore?

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S. Agostino ci ricorda che  “Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere”. È in quel insistere per “superbia” che sta l’errore vero (allora come oggi).

Nel prossimo Def (Documento di Economia e Finanza) ci saranno (così scrivono i giornali) sgravi contributivi riservati ai giovani con meno di 35 anni di età che vengono assunti per la prima volta con un contratto di lavoro stabile.

Sul piatto, per questa misura, ci dovrebbe essere circa un miliardo di euro l’anno. Confindustria, dal canto suo, è soddisfatta anche se questo potrebbe avere, come conseguenza, un aumento dell’IVA.

Sia chiaro, l’idea di ridurre il cuneo fiscale (a tutti) è corretta. Anzi, dovrebbe essere salutato come un atto dovuto. E non solo per i giovani. Raccontare però che, in questo modo, si contribuisce a ridurre la disoccupazione giovanile, soprattutto là dove ha raggiunto livelli di assoluta intollerabilità è un errore che rischia di portare con sé conseguenze molto negative.

Da un lato, tutti hanno capito che i 18 miliardi della decontribuzione renziana non hanno funzionato perché senza ripresa economica non si crea occupazione stabile e che, addirittura, anche in presenza di una inversione di tendenza, non sarà certo l’industria a creare occupazione.

Dall’altro, si persevera nello spingere gli imprenditori ad assumere, incentivando alcune tipologie, cercando di forzare, così, le loro esigenze. Scettiche le reazioni (non solo) della Cgil che ricorda: «sono già stati dati 18 miliardi con la decontribuzione Renzi senza grandi risultati. Meglio sarebbe investire su di un piano straordinario di lavoro per i giovani».

Personalmente non sarei così sbrigativo nel respingere al mittente questo approccio. L’intuizione della CGIL non è sbagliata. Il punto vero è, ancora una volta, decidere se siamo o meno di fronte ad un’emergenza nazionale o se il Governo chiede (semplicemente) ad una parte sociale un atto di generosità nei confronti di un segmento della popolazione.

Se non è così occorrerebbe decidere chi è il soggetto vero dell’intervento (i giovani e il loro futuro o solo il loro costo per le imprese) e agire di conseguenza. La Regione Emilia Romagna, dal canto suo, ha predisposto fin dal 2012, un piano interessante concordato con l’insieme delle parti sociali.

Oggi abbiamo i primi risultati. Per quanto riguarda il “Fondo per l’assunzione e la stabilizzazione” sono stati erogati 2463 incentivi sia per nuove assunzioni che per conferme a tempo indeterminato. Attraverso il “Fondo apprendistato” sono stati finanziati 27 mila percorsi formativi. Con il “Fondo fare impresa” sono stati finanziati 283 voucher che hanno consentito, al termine dei percorsi, al 60% dei giovani di avviare un’attività. Infine è stato predisposto un “Fondo giovani” (30/34 anni) per finanziare percorsi individuali di formazione, prevalentemente dentro le imprese, finalizzate a far acquisire competenze utili al loro percorso professionale.

Un approccio, come si può vedere, molto diverso. Soprattutto una assunzione di responsabilità molto diversa da parte di tutte le componenti sociali, istituzionali e formative della regione. Il messaggio forte che esce da queste prime valutazioni è di aver ottenuto un risultato parziale, certo modesto ma utile.

Ciascuno lo difenderà, si predisporrà per migliorarlo ulteriormente, per renderlo ancora più funzionale. Non si scateneranno inutili polemiche, né ci saranno trasmissioni televisive, indagini, pallottolieri che narreranno una realtà lontana dal Paese reale.

Ed è per questo che ho ricordato che più che ripetere l’errore è la superbia nel ricommetterlo dove sta il vero male. Oltre che nell’inutile spreco di risorse.

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Il piano Calenda e il rischio di sottovalutare il lavoro…

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Per Rachel Botsman non ci sono dubbi. Lo ha scritto nel suo libro What’s Mine is Yours che è uno dei testi di riferimento della sharing economy: il potere della collaborazione e la fiducia, cambieranno il nostro modo di lavorare e consumare.

Cambieranno il modo di pensare ai brand e ai prodotti, le esperienze e i comportamenti sia dei consumatori che del lavoro. L’economia in generale e quindi le aziende, lo dicono ormai tutti, saranno caratterizzate sempre più da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità.

In questo contesto la collaborazione diventa una inevitabile strategia di sopravvivenza. Difficile cavarsela da soli. Quindi l’impresa collaborativa sarà, per sua natura, più competitiva.

Deve saper costruire un modo di rapportarsi nuovo all’esterno con clienti, fornitori, partner, reti, ecc. e, all’interno con i propri collaboratori. Nel rapporto Technology vision 2015, Accenture analizza le tendenze tecnologiche destinate ad affermarsi nei prossimi anni e mette come centrale il cambiamento in atto verso la “We Economy”.

Aziende che fanno sistema e non opereranno più come singole entità ma amplieranno i confini tradizionali del proprio business entrando in contatto con altre realtà dando così vita a nuovi ecosistemi digitali collaborativi.

Da un’indagine globale condotta su oltre 2000 dirigenti aziendali e responsabili IT è emerso che quattro intervistati su cinque pensano che in futuro i confini tra settori saranno sempre più sfumati e le piattaforme digitali li trasformeranno in ecosistemi interconnessi tra di loro. Saper operare in questo modo e non invece come singole entità aziendali farà la differenza in termini di business.

Per i manager la sfida è quella di saper convivere e interagire con questi ambienti sapendo estrarre e interpretare da essi il massimo dei segnali, anche contraddittori, che il sistema produce dotandosi di un mix di competenze specialistiche, di capacità manageriali e, ovviamente, digitali.

Ma questo vale anche per i lavoratori che devono investire, sulle proprie capacità e competenze in un mondo che tende a renderle velocemente obsolete, sull’uso efficace del loro tempo e su nuovi strumenti di relazione e di comunicazione.

Per questo il piano Calenda dovrebbe essere accompagnato da un’ambizione maggiore sia sul terreno del coinvolgimento dei corpi intermedi che sul tema del lavoro quindi non può non avere anche un marcato risvolto innovativo sul terreno sociale oltre che economico. I contratti di lavoro firmati sono già andati più avanti.

Anche delle modeste ambizioni di chi vorrebbe far coincidere il proprio perimetro associativo con il tutto. Non è un caso che industry 4.0 è nato e decollato in Germania dove hanno saputo inserirlo in un contesto sociale e collaborativo molto più avanzato.

La scommessa che abbiamo di fronte è proprio questa. Aver promosso un importante rinnovamento dei contratti di lavoro e le relazioni sindacali e aver investito sul welfare e la formazione continua non servirà a nulla se non inserito in questa prospettiva.

Adesso occorre contribuire al decollo dell’ANPAL per dotare il Paese di politiche attive efficaci e, attraverso l’alternanza, far collaborare il mondo della scuola e del lavoro in modo più consapevole. Sarebbe singolare che un profondo processo di innovazione delle imprese e del lavoro non colga l’esigenza di coinvolgere in modo sostanziale chi lo rappresenta.

Il “patto di fabbrica”, l’adozione di modelli che sviluppino la corresponsabilità e la collaborazione non si creano assegnando ruoli da comprimari ai soggetti in campo che, al contrario, devono esserne protagonisti consapevoli. Certo non sarà un lavoro facile perché permane, in una parte del mondo del lavoro, una cultura legata a quel “breve quanto irripetibile periodo” del novecento che fatica a credere nel cambiamento e nell’innovazione.

Ma questa non può essere una scusa per evitare il confronto. Né può essere lasciato confinato alle scadenze naturali dei contratti spostando sempre più in avanti l’esigenza di cambiamento delle relazioni sindacali del nostro Paese anche perché, il tempo, non è una variabile infinita a disposizione.

Il rischio che un nuovo protagonismo sindacale, se non trova sbocchi e interlocutori sul terreno della condivisione del futuro del lavoro e dell’impresa ripieghi su se stesso, è molto forte.

Questa deve essere la sfida che la Politica deve saper mettere in campo fin da subito e che, le parti sociali, devono essere pronte a cogliere in positivo.

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Il curriculum e le iperbole del Ministro. Calcetto a chi?

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Le iperbole del nostro Ministro del Lavoro, prima sui giovani che sono emigrati, poi sui curricula rischiano di superare, in popolarità le metafore di Bersani. Deve esserci, a sinistra, una gara non dichiarata a chi sa farsi più del male. Gara nella quale Giuliano Poletti è decisamente in testa. I problemi che solleva non sono, però, mai banali.

È banale, semmai, la loro rappresentazione ad un Paese che vive quei problemi sulla propria pelle. Il curriculum sta al lavoro come un qualsiasi “gratta e vinci” sta alla ricchezza. Purtroppo è vero.

Ma, giocare a calcetto, come propone il Ministro non è un’alternativa utile. Dentro un curriculum ci sono le speranze e le aspettative di chi lo scrive. C’è la sua autostima, la volontà di misurarsi sul mercato, di dimostrare le proprie qualità.

Spesso il protagonismo raccontato è esagerato e il linguaggio è incerto o incomprensibile. Ci si dimentica che un CV è scritto per chi, forse, lo leggerà. Lo scopo è suscitare curiosità e interesse. Non presentare la propria autobiografia personale e professionale completa.

Centoquarantaquattro milioni di curricula certificati sono girati nel 2016. Il tempo di lettura varia da 6,5 secondi a 20 secondi per quel 5/10% di essi che verrà letto da qualcuno. Difficile essere notati.

Tra l’altro, in Italia il mercato è dominato dal passa parola, dalla segnalazione o raccomandazione. Non necessariamente da intendere nella sua accezione negativa. A scuola non insegnano a scrivere un CV e nelle aziende, purtroppo, non sempre insegnano a leggerlo.

Un curriculum di trent’anni di lavoro non dovrebbe mai superare le due pagine e tutto ciò che riguarda esperienze precedenti ai 3/5 anni è di scarso interesse, per chi legge. Risultati raggiunti, contributi personali, scacchi subiti e ripartenze dovrebbero costituirne l’intelaiatura principale.

Per un giovanissimo più di ciò che ha fatto, meglio raccontare brevemente come e perché lo ha fatto. Ma un CV, pur scritto bene, senza un network sviluppato per tempo serve a poco.

E il network si sviluppa a scuola, sui social, partecipando ad iniziative, facendo sport o volontariato, mantenendo relazioni positive negli anni con i capi e colleghi di lavoro. Farsi conoscere e apprezzare è fondamentale.

E questo non lo si ottiene senza un impegno costante e continuativo non dimenticando mai che l’obiettivo di un curriculum non è ottenere lavoro ma è ottenere uno o più colloqui. Quindi è meglio essere sempre se stessi utilizzando un linguaggio consono.

Chi legge, se è in azienda, sa bene cosa gli hanno detto di cercare. Conosce i valori dell’azienda, la sua organizzazione, pregi e difetti di chi sarà il futuro capo, e del team. Può anche permettersi di sbagliare scartando un ottimo CV sapendo che nessuno se ne accorgerà mai. Chi scrive non sa quasi nulla di tutto questo. E spesso manco si informa.

È un campo dove, tra l’altro è difficile innovare. Però c’è chi può fare di più. La scuola, certamente, avvicinandosi di più al mondo del lavoro, inserendo nei propri programmi la scrittura del CV e il colloquio di lavoro. Magari chiedendo alle aziende del territorio di essere parte attiva sfruttando l’opportunità offerta anche dai percorsi di alternanza.

Le agenzie per il lavoro potrebbero attivare un canale di supporto in questa direzione, le stesse società di outplacement che più di altre conoscono bene il lavoro necessario per far riflettere le persone sul loro percorso e su come presentarlo. Si può fare molto.

L’unica cosa che non si deve fare è banalizzare un tema e una strumentazione che, per quanto criticabili e poco efficaci, rappresentano il mezzo con cui le persone, in perfetta solitudine, cercano di affrontare un mercato del lavoro sempre più complesso.

Le gaffes di cui si rendono protagonisti ministri e vice ministri del lavoro in carica sono sempre più frequenti e dovrebbero far riflettere, più che suscitare ironia, in un Paese normale. Altrimenti il “calcetto” dovrebbe essere riservato a chi fa queste battute.

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Quale ruolo per le organizzazioni di rappresentanza in ottica industry 4.0?

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Mi sono spesso domandato quale potrà essere, in ottica industry 4.0, lo spazio di azione in azienda, per i sindacati. Nel terziario, già oggi è minimo.

In parte per l’approccio e la cultura dei sindacalisti di settore, in parte perché, la stragrande maggioranza delle aziende non ha, né una storia di relazioni sindacali né di condivisione collettiva delle problematiche aziendali come in altri settori.

Le relazioni sindacali nel terziario, quando ci sono, sono generalmente esterne all’azienda attraverso gli enti bilaterali e le associazioni di rappresentanza. Gli stessi lavoratori si rivolgono ai sindacati solo a fronte di problemi specifici seri durante il rapporto di lavoro o alla sua conclusione.

Se escludiamo la Grande Distribuzione, che è la più legata a modelli organizzativi di derivazione fordista, nella stragrande maggioranza delle aziende del terziario il contratto nazionale viene rispettato nei minimi retributivi e in quelle norme generali applicabili al contesto specifico. Per il resto è lasciato alla gestione aziendale costituita dalla cultura interna, dall’organizzazione e dai modelli di gestione e sviluppo delle risorse.

Il singolo individuo vi si rapporta attraverso il proprio responsabile o, nelle aziende più strutturate, anche attraverso la direzione risorse umane. Nelle più evolute (quindi più vicine al contesto industry 4.0) il clima interno è generalmente monitorato attraverso vari strumenti (indagini di clima, KPI, ecc.) , la comunicazione è costante (capo/collaboratore, eventi, comunicazione, ecc.), i sistemi di valutazione e sviluppo professionale efficienti (formazione, assessment, valorizzazione del contributo individuale al business, ecc.) e infine, i riconoscimenti economici sono ben collegati ai risultati e all’andamento aziendale. Forme di welfare interno o contrattuale e benefit specifici completano il quadro.

Il rapporto è quindi personalizzato, le contropartite sono chiare così come sono chiare le possibili conseguenze negative. È un rapporto di partnership, che non prevede fedeltà né che duri per sempre. Da entrambe le parti. Ed è un modello che, ormai, tende a coinvolgere tutti. Non solo i manager dell’azienda.

Nel senso che, anche chi ne dovesse essere escluso, per ruolo o per seniority, sa quali sono le regole del gioco e le opportunità che possono e devono essere colte. E sa anche che, prima o poi, se non entra nel meccanismo, il suo contributo potrebbe essere messo in discussione. La contrattazione aziendale è praticamente inesistente perché tutto ciò che va oltre il CCNL è gestito unilateralmente dall’azienda. Né potrebbe essere diversamente.

Detto tutto questo che, a mio parere, spiega la differenza tra un modello contrattuale (quello manifatturiero) che è sempre stato costruito intorno ad un approccio collettivo e che ha “subìto” la gestione personalizzata rispetto a quello, tipico nel terziario, che viene costruito intorno alla personalizzazione del rapporto salvo utilizzare una base collettiva (il CCNL relativo) esclusivamente come punto di riferimento generale. Il punto è che tutto funziona fino a quando i confini applicativi e di categoria restano chiari, evidenti. Meno quando non hanno più ragione di esistere. Ed è questo il futuro che ci aspetta.

Il lavoro, che lo si voglia o meno, tenderà a polarizzarsi. Da una parte quello povero che sarà trasversale nei servizi alle imprese, nella GDO, nell’agroalimentare, nella logistica, nell’industria ma anche nelle start up (se, una volta per tutte, decidessimo di uscire dalla retorica che le accompagna).

Dall’altra quello di maggior contenuto professionale che coinvolgerà tutti i settori e renderà superflui le tipologie contrattuali utilizzate fino ad oggi, i confini di inquadramento, i modelli retributivi. E tutto questo non è materia delle singole imprese e non sarà materia da affrontare in un futuro remoto.

Industry 4.0 è un’occasione. È una opportunità per ridisegnare un percorso che non sarà breve ma deve andare nella giusta direzione. Per questo non credo che il problema sia legato semplicemente ai luoghi della contrattazione.

Le aziende sono cambiate profondamente mentre il modello contrattuale, i contenuti proposti, il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza è rimasto sostanzialmente lo stesso. Sono stati trovati degli adattamenti che, via via, stanno scontentando un po’ tutti.

Per questo, c’è chi pensa (forse troppo sbrigativamente) che un semplice spostamento a livello aziendale possa risolvere il problema. Non sarà così. Anzi. Il contratto del terziario è lì a dimostrare una strada diversa, che può piacere o meno.

È però molto interessante per le imprese che pur rispettando il CCNL di riferimento possono muoversi con maggiore rapidità ed efficacia. Non è un caso che un terzo delle aziende iscritte ad Assolombarda preferiscano il contratto nazionale del terziario firmato da Confcommercio rispetto ai rispettivi contratti di categoria.

L’altro versante è rappresentato (schematicamente) dal contratto dei metalmeccanici che ha disegnato un percorso diverso dove il sindacato è disponibile ad affrontare in un contesto di reciprocità tutti i problemi sul tappeto delle imprese ma anche dei lavoratori in un contesto sicuramente collettivo. 

Quello che è certo è che non si arriverà ai prossimi rinnovi senza aver messo mano ad un nuovo modello contrattuale (assetti, contenuti e luoghi). E questo vale per tutti.

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Alitalia tra tre fuochi…

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Com’era prevedibile la vicenda Alitalia si trova di fronte alla sua principale contraddizione. Machiavelli avrebbe detto: “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al popolo”. Questo è il punto.

Alitalia è un’azienda privata così come lo sono quasi tutte le grandi aziende italiane. A differenza che altrove il vezzo di tentare sempre “privatizzare gli utili e socializzare le perdite” non sembra essere ancora stato accantonato.

Quindi i soggetti in campo, come nel 900, sono tre. Non due come dovrebbe essere normalmente. Gli azionisti, il Governo e i dipendenti attraverso i sindacati che li rappresentano.

Dietro le quinte i creditori che premono per un piano che consenta loro di recuperare le risorse investite e le autorità europee che vigilano sui contenuti di un eventuale accordo che non deve configurarsi come aiuti di Stato.

Un rompicapo di difficile soluzione. Il piano industriale presentato è stato evidentemente ispirato dai creditori che, se dovessero decidere di staccare la spina, porterebbero al fallimento della società con gravi danno per loro ed a un costo, per le finanze pubbliche, non inferiore ai dieci miliardi di euro.

Questo determina la sgradevole coincidenza dei punti di forza e di debolezza di tutti i negoziatori intorno al tavolo. Ciascuno sa che può tirare la corda ma ne conosce anche il prezzo nel caso dovesse spezzarsi.

Per un negoziato è la situazione più difficile. Nessuno può permettersi di vincere ma tutti devono rispondere in modo trasparente del loro operato. L’azionista se non punta al fallimento della compagnia ma, al contrario, al rifinanziamento del debito e ad una riduzione di costi, alza il prezzo sperando di lasciare un margine di mediazione al Governo. I sindacati non possono, almeno in questa fase, non puntare ad una modifica del piano che ne sottolinei lo sforzo e il ruolo, i creditori, dal canto loro, possono fare forti pressioni ma non hanno alternative praticabili.

I fatti, ad oggi, vanno esattamente in questa direzione. Il CEO Cramer Ball ha assicurato la «piena disponibilità» a lavorare con i sindacati e il futuro Presidente Luigi Gubitosi ha confermato, a sua volta, l’impegno a fornire tutti i dettagli necessari. Le stesse dichiarazioni tranquillizzanti di Ball sulla crescita del lungo raggio e che due terzi dei tagli non sono di costo del lavoro vanno in questa direzione.

I sindacati hanno respinto la prima versione del piano dichiarando lo stato di agitazione ma hanno aderito ai tavoli tecnici con disponibilità ad entrare nel merito. il Governo, dal canto suo, si è mosso in modo corretto sgombrando il campo da ipotesi fantasiose di possibile pubblicizzazione della compagnia e assegnandosi un ruolo di facilitatore del negoziato.

Soprattutto evitando di dare giudizi sommari sul piano. Tutte queste mosse erano prevedibili e inevitabili. Il difficile viene adesso. Le carte messe sul tavolo dall’azienda sono indubbiamente insufficienti e sembrano finalizzate solo a prendere tempo. La soluzione non è nel piano presentato. In quelle determinazioni, al massimo, ci sono sono solo le precondizioni economiche, politiche e sociali.

Alitalia può essere ancora ripensata sia in chiave di alleanze continentali win win che di potenziali nuovi business legati al turismo di domani? Ma se così fosse,  i soggetti seduti a quel tavolo sono gli interlocutori autorevoli di cui ci sarebbe bisogno? Credo di no. Il punto sta qui perché solo in questo potrebbe risiedere una possibile scommessa per il suo futuro.

Purtroppo lo stesso piano strategico del turismo (2017-2022) non prevede nulla a riguardo. Quindi non c’è nulla di concreto da mettere sul tavolo del negoziato.

Per questi motivi temo che il destino di questa azienda rischia di essere già scritto: una lunga agonia in attesa di un compratore finale che sappia integrarla semplicemente con il proprio business.

Cosa che non è riuscita ad Ethiad e agli attuali soci. L’importanza della vertenza Alitalia è fuori discussione. Nessuno può permettersi che degeneri socialmente, che fallisca o che venga caricata sulle spalle di un Paese che non può permetterselo. Questo i negoziatori di entrambe le parti lo sanno benissimo. E lo sa anche il Governo.

In passato sarebbe bastato creare un nuovo carrozzone e finanziarlo all’infinito. Salvare cosi capra e cavoli. Oggi quella opzione non è praticabile. Per questo Alitalia è tra tre fuochi. E non si spegneranno da soli..

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Il rischio di scambiare una battaglia di retroguardia per la guerra

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La CGIL ha vinto la sua battaglia sui voucher e ha ritrovato una nuova unità interna propedeutica alla gestione unitaria congressuale e al suo riposizionamento sociale.

Come ho sempre sostenuto, chi ha parlato di leadership debole di Susanna Camusso, era fuori strada. Aveva ereditato una CGIL isolata politicamente e sindacalmente, scavalcata a sinistra dalla FIOM e a destra da altre importanti categorie e con un gruppo dirigente a fine corsa. È indubbio che la situazione, oggi, sia profondamente cambiata.

Adesso può legittimamente rilanciare la sua iniziativa provando ad uscire definitivamente dall’angolo dove la fine della stagione dei rapporti di forza favorevoli sul campo e degli accordi separati l’avevano in qualche modo confinata. Cisl e Uil confederali stanno accusando il colpo nel senso che non sembrano in grado di reagire propositivamente.

Tutto questo, però, porta con sé delle conseguenze. Essere corteggiati quasi esclusivamente dalla sinistra interna del PD e dagli scissionisti non può certo bastare alla CGIL anche perché oggi l’opposizione politica e sociale, quella vera, è ormai dislocata politicamente altrove e lo sarà a lungo e, nella quasi totalità delle aziende, tra i lavoratori occupati, c’è un indebolimento complessivo del messaggio sindacale generale.

Il rischio di essere ritornati al centro, si, ma del “nulla” è molto forte.

Confindustria è in difficoltà per diverse ragioni e questo ha lasciato il campo all’iniziativa delle federazioni nei singoli comparti economici. Federalimentare ha già segnalato la volontà di giocare le sue carte. Federmeccanica, dal canto suo, ha tirato fin dall’inizio la sua volata rendendo residuale il ruolo della casa madre sul cosiddetto “patto di fabbrica” trovando in FIM, FIOM e UILM solidi interlocutori. I differenti contratti nazionali hanno proposto strade diverse. Tutte andate a buon fine.

L’impressione è che il “rinnovamento” contrattuale si possa diffondere, pur in differenti modalità, in tutte le categorie più importanti seppure in modo differenziato.

Sul versante del terziario il contratto firmato da Confcommercio si presta, per come è stato concepito, a ulteriori adattamenti. La stessa neutralizzazione dell’ultima tranche in pagamento per oltre tre milioni di lavoratori, come misura concordata tra le parti, rappresenta una dimostrazione evidente di capacità di adattamento all’evolversi della realtà.

I contratti che mancano all’appello in questo comparto sono il frutto più di inesperienza negoziale delle controparti datoriali che da distanze ideologiche con i sindacati di categoria quindi, prima o poi, sono destinati a trovare una loro conclusione.

Per questo la vicenda mal gestita da tutti sui voucher, il cui epilogo è stato determinato più dal dibattito interno al PD che dal problema in sé, può innescare delle conseguenze che, se non gestite, rischiano di paralizzare l’iniziativa sindacale e quindi il sistema delle relazioni industriali nei prossimi mesi.

La CGIL faticherà a proporsi, da una parte, con un atteggiamento moderato nei differenti comparti economici nella contrattazione aziendale e di categoria e, dall’altra rivendicare una forte intransigenza sulla sua “carta dei diritti” incalzando le altre organizzazioni confederali proprio dove sono oggettivamente più deboli. Il rischio è che le contraddizioni esplodano riportando il sistema alla stagione della competizione e degli accordi separati anche in considerazione del possibile mutamento del quadro politico prossimo venturo.

Inoltre questo atteggiamento difficilmente potrà essere accettato dalle imprese. Alle aziende, il contesto e i vincoli che si creano a livello generale, pesano tanto (se non di più) di quanto siano soggettivamente disposte a concedere in termini di “rinnovamento” e di partecipazione. Qui sta il punto.

Cisl e Uil, sempre a livello confederale, non sembrano in grado di sottrarsi da questa morsa. Il “balbettio” sui voucher è lì a dimostrarlo.E posizionarsi come alternativa sociale al grillismo, da parte della CGIL, di questi tempi avrebbe l’unica conseguenza di tirar loro la volata.

Il Paese è indubbiamente stanco di narrazioni mirabolanti. Questo è vero. È però preoccupato per un futuro incerto, e si sente sempre più schiacciato economicamente verso il basso. Nelle imprese stesse si sta diffondendo la convinzione che il 2017 non migliorerà nulla nei fondamentali economici e che il Governo poco farà di positivo.

Ma a questa deriva non si risponde accompagnandola quasi fosse ineluttabile. A mio parere c’è solo una strada possibile. Se il sindacato, tutto il sindacato, non vuole essere risucchiato in un contesto che rischia di essere sempre più ingestibile deve rilanciare l’iniziativa sul “patto per il Paese”. Non c’è alcuno spazio fuori da questa opzione.

Per chi è nel mondo del lavoro, oggi, la priorità è restarci. Per i giovani è, al contrario, entrarci. Per gli altri è, quanto meno, di disporre di un reddito comunque costruito e della possibilità di rientrare in gioco prima possibile.

Le risposte a questi problemi, però, non si trovano ritornando ciascuno sui propri passi. Si trovano solo facendosi carico, con grande generosità, di un futuro da condividere e nel quale sapersi anche disegnare un nuovo ruolo. Ovviamente molto dipenderà anche dalle organizzazioni datoriali e dalla loro capacità di proposta. Ma molto dipenderà anche da chi, in tutto il sindacato confederale, è chiamato ad individuare una rotta alternativa. CGIL compresa.

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