Ho un buon CV ma non mi chiama nessuno. Perché?

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La letteratura specialistica è prodiga di consigli su come scrivere bene un CV o come affrontare in modo brillante un colloquio di lavoro. Esistono manuali, corsi di formazione e trucchi vari per rendersi più credibili agli occhi del più sofisticato selezionatore. Quindi sembrerebbe sufficiente saper scrivere ciò che ci ha visto protagonisti nei nostri percorsi professionali e saperlo raccontare con sufficiente convinzione. Sembra tutto molto semplice. Purtroppo non basta. A volte non si ha neppure la soddisfazione di sapere se il CV è scritto bene perché non arriva nessuna risposta. Così come un colloquio, preparato molto bene e portato a termine in modo pressoché perfetto, non ha alcun seguito. E allora? Nella maggior parte delle selezioni una pur buona impostazione non è sufficiente. Contano le referenze, quindi le relazioni e il feeling che scatta o meno con l’interlocutore che dovrà decidere. Certo anche gli aspetti economici sono importanti perché sul mercato, oggi, si trova di tutto e di più. Però questo è il punto da cui partire. Chi deve assumere sa, generalmente, cosa vuole. Nei CV che legge, nei colloqui, nel brief agli Head Hunter, nel passaparola l’idea delle caratteristiche personali da individuare è chiara e quindi la ricerca è sempre abbastanza precisa. Certo è possibile cambiare idea a fronte di una candidatura particolare e non prevista ma è molto difficile. Possibile ma improbabile. Chi cerca, poi, può “permettersi” di sbagliare nel senso che, al massimo, verrà giudicato sulla qualità di chi ha selezionato non certo su chi non ha neppure preso in considerazione. Chi si offre di tutto ciò non sa nulla. Invia il suo CV, si prepara all’eventuale colloquio ma non conosce nessuna caratteristica personale del candidato ideale già in mente al potenziale selezionatore. Conosce a mala pena capacità e competenze richieste perché le ha lette sulla inserzione o ne ha sentito parlare da terzi. Non sa se in quella determinata azienda, in quel reparto o in quella squadra si cerca un giovane, una persona estroversa o una donna. Oppure se, assolutamente, non si vuole un ingegnere gestionale o una donna sposata o, infine, se, un over 50 in una squadra di trentenni, è meglio evitarlo perché potrebbe non funzionare. E così via. Ed ecco che un buon CV che comprende tutte le competenze e capacità professionali richieste non c’entra improvvisamente nulla con quella ricerca. E allora cosa serve scrivere un ottimo CV e prepararsi all’eventuale colloquio? In questi casi, niente. E così anche in tutti quei casi dove offerta e domanda sono asimmetriche. Ma il punto è proprio questo. Un CV fatto bene e la capacità di superare tutti i colloqui possibili deve sempre fare i conti con la realtà. E la realtà è lì a dimostrare che in questo mercato del lavoro non si gioca mai alla pari. È una gara, certo, però tra diseguali. È come partecipare ad un concorso a quiz dove alcuni conoscono in anticipo le risposte, altri hanno, più o meno inconsapevolmente le caratteristiche per vincere e, infine, c’è anche chi parte da zero sperando nella buona sorte. In teoria possono vincere tutti. La realtà, però, è ben diversa. E allora non serve a nulla prepararsi? No. Occorre farlo, sempre. Ognuno concorre nella propria corsia. Ci sono tante ricette diverse su come fare un CV  in base a esperienze e a professionalità differenti. Occorre prenderle tutte con grande cautela sapendo che sono semplicemente stimoli che vanno adattati alle proprie esigenze. Se non si hanno segnalazioni o informazioni precise occorrerebbe, innanzitutto, capire dove si vorrebbe inviare il CV e perché. Oggi la rete può aiutare. Raccolte tutte le informazioni possibili il CV va indirizzato ad una persona precisa, non genericamente all’azienda. Che sia il titolare, il CEO, il DHR o un manager di linea occorrerebbe scegliere sempre un potenziale interlocutore. Può essere inutile? Certo che sì. Inviare un CV generico ad un’azienda qualsiasi lo è, però, ancora di più. Analizzando in rete l’impresa individuata a volte si possono capire molte cose interessanti. Come si presenta, qual’è il suo mercato chi, tra i suoi manager, si muove con una certa libertà con interviste o altro. Insomma la rete può aiutarci a predisporre un piccolo dossier di riferimento che potrà servire anche in una seconda fase in vista del colloquio. Come scrivere allora il CV? In modo sintetico, comprensibile, scevro da banalità. Chi legge cerca sempre qualcosa che già ha in mente seppur in modo non definito. Sa, ad esempio, cosa preferisce il committente finale in termini di caratteristiche generali magari non esplicitate chiaramente nella ricerca. Più che cercare di presentarsi in modo artefatto è meglio cercare di essere se stessi privilegiando una prosa asciutta, essenziale, diretta. Essere se stessi nel testo scritto come di persona. Personalmente ho sempre preferito questo approccio. E se nessuno risponde? Significa solo che hanno scelto un altro. E allora anziché perdersi d’animo, occorre insistere. Sempre. Mi è capitato in tanti anni di carriera, di essere contattato da Head Hunter per posizioni, di un certo interesse, in una determinata azienda che, per varie ragioni, non si sono concretizzate. Ammetto di aver provato una certa delusione perché ritenevo di essere la persona giusta per quel posto e perché le aziende erano importanti. E, non lo nego, perché avevo bisogno e voglia di cambiare. In alcuni di questi casi e a distanza di un paio di anni, dopo una verifica attenta, mi sono accorto che le persone scelte al mio posto erano già state sostituite da altre. Siccome non credo alla fortuna ho pensato fosse un caso ma da queste esperienze ho tratto una morale. Semplice ed efficace. Se non dovrà funzionare è meglio che non funzioni da subito. Quindi è meglio non essere scelto. In questo modo eviteremo di perdere tempo in due….

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Ritrovare il lavoro perduto. Difficile ma non impossibile…

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In questi anni (marzo 2010 – febbraio 2015) 762 dirigenti su 1037 partecipanti sono stati ricollocati grazie ad un progetto chiamato “Managerattivo” promosso da Manageritalia e Confcommercio. È una esperienza unica in Italia. Poco conosciuta ma, secondo me, molto importante e degna di nota.
50 edizioni tra Milano e Roma svolte presso il CFMT accompagnate da una variazione interessante chiamata “Managerinmpresa” che ha permesso ad oltre 30 piccole imprese di “ingaggiare” un manager scelto tra quelli presenti nel database di “Managerattivo” per realizzare specifici progetti pilota. Manager che hanno potuto utilizzare parte del loro tempo arricchendo il proprio CV con una esperienza a stretto contatto con imprenditori desiderosi di “tirare fuori dal cassetto” sogni o idee alle quali non potevano dedicare tempo o energie interne. Il merito va a chi ha creduto nel progetto, lo ha pensato e lo ha gestito: Giuseppe Truglia, Luigi Iagulli e Roberta Corradini insieme a qualificati partner esterni. Ne cito due su tutti: Anna Calvenzi di Acoté e Anna Graglia di Standler. Professionisti che, con ruoli e punti di osservazione diversi, hanno intuito, compreso, studiato e proposto una modalità innovativa di gestione di una fase delicatissima nella carriera di un manager. A prima vista potrebbe sembrare la “solita” variazione sul tema dell’outplacement. Non è così. L’outplacement in Italia, purtroppo, non è mai decollato sul serio. Non amato particolarmente dai sindacati confederali, utilizzato con parsimonia dalle imprese e vissuto come poco utile da molti lavoratori ha prodotto piccoli numeri in rapporto alle necessità e alle potenzialità. Tra i dirigenti c’è stata sicuramente una maggiore consapevolezza ma i numeri non sono, neanche in questo caso, particolarmente incoraggianti. La stessa opzione pur prevista dal CCNL è utilizzata pochissimo. Sicuramente Manageritalia, l’associazione sindacale dei dirigenti del terziario, ha lavorato per far crescere questa consapevolezza tra i propri associati. Questo progetto ne è la dimostrazione. Innanzitutto i numeri e la durata dimostrano che esistono concretamente le possibilità di arricchire e rendere più efficaci e rapidi i processi di transizione. Il percorso proposto prevedeva, innanzitutto, un colloquio di orientamento. Questo ha rappresentato il primo approccio con il futuro percorso formativo ed è un’occasione per riflettere sulla propria storia professionale, mettere a fuoco le competenze acquisite e motivare le scelte future. A questo seguiva un assessment di una giornata che aveva lo scopo di valutare le competenze in un’ottica di potenziale lavorando sulla carriera e sul piano di sviluppo individuale. Il profilo veniva poi restituito con un colloquio a distanza di 15 giorni dell’assessment e rappresentava la base per il lavoro con il coach personale chiamato “guida”. Questo è, dal mio punto di vista, il vero valore aggiunto del percorso proposto unito alla possibilità di essere parte di un gruppo che viveva lo stesso problema e quindi si motivava partecipando ad un’esperienza comune. Altri moduli completavano il programma e prevedevano, a seconda delle scelte individuali, come affinare strategie e strumenti per rientrare in azienda o come affrontare il passaggio dalla managerialità all’imprenditorialità nel caso si optasse per proporsi come startupper. Ecco, la differenza, rispetto ad altre esperienze, è forse rappresentata dalla passione, dall’impegno e dal coinvolgimento sia di Manageritalia che di chi, nel CFMT, ha messo a disposizione la propria professionalità e il proprio impegno personale, determinando il successo dell’iniziativa. Una recente survey lo ha evidenziato in modo netto.
Adesso questa progetto, pur concluso, ha lasciato a tutti importanti spunti di riflessione su ciò che può essere attivato e proposto in futuro. Soprattutto come reimpostare un percorso utile che lasci ai professionisti dell’outplacement il loro ruolo ma che consenta al CFMT di mettere a disposizione del dirigente il supporto necessario per riflettere per tempo sul proprio percorso e utilizzare la leva formativa in modo adeguato. Interessante, infine, è l’idea partita da alcuni colleghi che sono passati da questa esperienza che vorrebbero lanciare la proposta di creare una community per promuovere iniziative e costruire una rete di relazione efficace nel tempo.
È da progetti come questi che possono nascere nuove proposte in grado di allinearci alle migliori esperienze europee di politiche attive utili per predisporre in futuro strumenti innovativi che possano aiutare a prevenire, evitare o ad attutire al massimo, il trauma personale conseguente alla interruzione forzata del rapporto di lavoro non solo dei manager.

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I collaboratori, come i capi, non sono tutti uguali…

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Di questi tempi, in azienda, non è facile gestire seriamente i propri collaboratori. Aggiungo che non sono moltissime le aziende dove è presente e in uso un sistema strutturato di valutazione e sviluppo delle risorse. Questa situazione impedisce ai capi meno esperti di crescere nella capacità di ingaggiare, valutare e gestire singoli e team e quindi di far crescere i propri collaboratori. È questo crea situazioni di disagio. Apprendere specificità, diversità, metodologie e quindi dosare il proprio impegno nel coinvolgere i propri collaboratori è altrettanto importante che avere le competenze richieste per coprire una posizione manageriale. E quando ci si trova in difficoltà si mettono in crisi rapporti personali e si rischia di non ottenere quel contributo di passione, di impegno e di idee dalle proprie risorse spesso compromettendo il raggiungimento degli obiettivi di business. E, se così è, si viene messi in discussione. Un buon Capo sa capire e gestire le differenze, sa aiutare i collaboratori a crescere ed è soddisfatto quando alcuni di loro, in azienda, o fuori, si affermano professionalmente dimostrando, in questo modo, la propria capacità nell’averli cercati, selezionati, gestiti e aiutati a crescere quando erano più giovani.
I collaboratori, però, non sono tutti uguali. C’è chi cresce prima e chi dopo. E c’è anche chi non cresce mai. Occorre, però, sempre ricordare che, in azienda, esistono tre punti di osservazione. Il proprio, quello di chi ci sta di fronte e quello dell’azienda che potrebbe non coincidere né con il nostro né con quello del nostro interlocutore. Quindi è necessario avere sempre presente che i pregiudizi, la superficialità, i luoghi comuni, oggi non funzionano. O, meglio, non fanno crescere né il capo né il collaboratore. Il “Si è sempre fatto così”, “se non ti va te ne puoi anche andare”, “si fa così e basta”, “il capo sono io” rappresentano una cultura in via di estinzione o comunque priva di prospettive. I collaboratori vanno capiti e guidati, per fare questo, vanno ascoltati e gestiti. Per questo può essere interessate provare a ragionare sulle caratteristiche e sulle principali differenze oggettive tra soggetti appartenenti a categorie diverse. A questo andranno poi aggiunte, ovviamente, tutte quelle considerazioni soggettive e specifiche, indispensabili per una corretta valutazione. È una semplificazione che però può aiutare a riflettere. Nulla di più.
1) Il collaboratore brillante ma giovane
Appartiene alla generazione Y e va fino alla generazione Z. La sua idea di lavoro è profondamente diversa da chi lo ha preceduto. Non vive per l’azienda né vorrebbe trascorrervi un tempo infinito. Chi appartiene ad altre generazioni spesso pretende troppo da sé stesso e dagli altri. La quantità di tempo da investire in azienda è altra cosa rispetto alla qualità della prestazione. Il giovane, in genere, è portato a cercare un equilibrio continuo tra impegno professionale e contesto personale, spesso frequenta i social e pretende un senso in tutto ciò che fa. Nel lavoro occorre saperlo coinvolgere su diversi progetti non solo per misurarlo professionalmente ma anche per evitargli la routine. A volte sa andare ben oltre il ruolo assegnato e cerca sempre di portare un contributo positivo e costruttivo. Il capo deve lasciarlo esprimere il più liberamente possibile, aiutandolo, al massimo, a contestualizzare e a inquadrare gli aspetti che a lui sfuggono per mancanza di esperienza. Infine deve cercare di abituarlo a saper prendere la giusta distanza dai problemi insegnandogli a non reagire mai a caldo, a non dare giudizi sugli altri senza aver esaminato i differenti aspetti di un problema.
2) Collaboratore con figli o con problemi familiari
Contrariamente a quanto si crede chi ha problemi extralavorativi (soprattutto le donne) sono i più coinvolti e impegnati nel lavoro. Sono generalmente persone affidabili e produttive. Per aiutarli a sviluppare il loro potenziale il capo deve, innanzitutto, sapersi mettere nei loro panni. Ad esempio evitando di programmare riunioni tardi la sera o tollerando assenze impreviste. Agendo in questo modo e non colpevolizzando nessuno a causa di impegni improvvisi gli stessi saranno compensati da un importante investimento sul lavoro del collaboratore. Donne e uomini divorziati, famiglie con problemi e impegni extralavorativi richiedono una diversa tolleranza e un diverso approccio rispetto al passato in tema di impegno qualitativo e quantitativo sul lavoro.
3) Il futuro pensionato
Il prolungamento della vita lavorativa porta con sé la necessità di imparare a gestire collaboratori alla fine del loro percorso professionale. In genere sono arrabbiati con la Fornero, ipersensibili alle critiche e diffidenti verso capi più giovani di loro. Il rischio è di spingere, chi è in queste condizioni, a pensare di non aver più nulla da dimostrare e quindi a chiudersi in atteggiamenti passivi fino alla pensione. Al contrario occorre saper gestire queste persone con grande cautela facendo leva sull’importanza che l’azienda intende assegnare alla loro esperienza come ricchezza da valorizzare. A questo collaboratore potrebbe essere utile assegnare un ruolo di trasmissione di competenze che comunque non andrebbe mai sottovalutato. Per questo un capo dovrebbe incentivare i collaboratori più giovani a porre domande a loro, a far tesoro della loro esperienza, a far sentire il collaboratore anziano ancora utile all’azienda.
4) Lo stagiaire
L’errore più comune è non considerarli proprio. Quasi fossero fantasmi di passaggio. Al contrario con i costi di selezione e di ricerca avere la possibilità di valutare e impiegare in azienda giovani che poi potrebbero restare a lungo è un fattore importante. Un buon capo sa assegnare allo stagiaire un tutor di riferimento, obiettivi realizzabili e lo aiuta a crescere proponendogli momenti di confronto per coinvolgerlo. Quindi gli assegnerà dei lavori anche parziali e modesti ma dove lui stesso potrà apprezzarne i risultati. Questo non solo sarà utile per la sua crescita ma lascerà a lui una buona immagine dell’azienda e del Capo che porterà con sé anche altrove. Con l’utilizzo esagerato che si è fatto nelle imprese di questa figura pochi hanno considerato come la reputazione stessa dell’azienda risenta di ciò che chi vi ha lavorato anche per pochi mesi trasmette all’esterno.
5) Il lavoratore a tempo parziale
Spesso si pensa che chi lavora a metà tempo va gestito come un collaboratore di passaggio. O a metà. Niente di più sbagliato. Soprattutto non bisognerebbe mai assegnargli ciò che gli altri non vogliono fare. Il capo deve accettare l’idea che il collaboratore deve essere impegnato per il tempo equivalente e non caricato oltre il suo orario se non strettamente necessario. Colpevolizzare il collaboratore con orario ridotto (per scelta sua o spesso per scelta aziendale) non serve a nulla se non a frustrarne motivazione e impegno.
Il collaboratore da promuovere
Per prima cosa occorre accertarsi che la promozione che si vorrebbe assegnare sia il vero obiettivo del collaboratore. Non sempre lo è. Soprattutto per chi pensa di avere ancora delle possibili aree in cui è necessario crescere. Essere un ottimo specialista non significa saper gestire le persone e saper gestire le persone non sempre è accompagnato dalla capacità di mantenere alto il proprio livello di specializzazione. Spesso chi viene promosso è chiamato a gestire collaboratori che fino al giorno prima erano colleghi e questo può generare grosse difficoltà. Al Capo spetta accompagnarlo in questa nuova situazione perché intervenire dopo è spesso troppo tardi. Accompagnarlo nei primi mesi significa fornire tutti gli strumenti utili e i punti di riferimento necessari al suo nuovo incarico ed essere sempre disponibili a supportarlo. Potrebbe anche essere utile un coaching di supporto con esperti esterni propedeutici della promozione.
6) Il futuro ex
L’approssimarsi della fine di un contratto a tempo determinato, le dimissioni o un licenziamento spingono questa tipologia di collaboratore a considerarsi in uscita e quindi con scarsa motivazione e poco propenso a essere coinvolto. Se lascia l’azienda dopo pochi giorni il problema non sussiste ma, spesso, l’azienda ci mette del suo pretendendo la presenza sul posto di lavoro fino all’ultimo giorno del preavviso ma sottovalutandone la gestione interna. E quindi? In genere questo collaboratore viene pagato ma scarsamente utilizzato: una sciocchezza per l’azienda che lo paga inutilmente e per il collaboratore che si trova stipendiato senza fare nulla. In questo caso sarebbe molto meglio coinvolgerlo sui progetti che conosce e che ha seguito fino a quel momento fornendo a lui obiettivi o attività stimolanti anche se non strategici o di lungo periodo.
7) Il numero 2
È quello che aspira al posto del capo. Difficile da gestire perché in genere si muove coperto. L’unica arma con lui è il dialogo. Se il Capo merita quel posto non deve avere nessuna preoccupazione nella sua gestione.
Occorre ricordare sempre al numero 2 qual’è la sua posizione, fargli i complimenti per il suo spirito di iniziativa e per i suoi successi ricordandogli però sempre qual’è il suo posto nel suo interesse e nell’interesse dell’azienda. Occorre saperne sfruttarne l’energia positiva e spingerlo alla collaborazione continua accettando però l’idea che l’ambizione personale e la voglia di crescere rappresentano un valore positivo in una impresa.
8) Il nuovo arrivato
Chi è appena arrivato in azienda vuol fare una buona impressione con tutti. E questo provoca stress anche per paura di sbagliare. In poco tempo il nuovo arrivato deve apprendere un linguaggio nuovo, una cultura spesso diversa da quella di provenienza, interagire con colleghi e con strumenti differenti. Quindi si muove in modo spesso impacciato. Il capo si deve mostrare indulgente a fronte di inevitabili errori spiegando dove e perché ha sbagliato e rassicurando il nuovo collaboratore. Nelle prime settimane occorre prevedere degli incontri specifici sul contesto di lavoro, le difficoltà incontrate, l’adattamento, i colleghi, ecc. finalizzate ad abbassare lo stress e a finalizzare l’impegno.
A queste tipologie se ne potrebbero aggiungerne altre. Il collega polemico, quello con problemi personali, il millantatore, il sindacalista o quello che lancia il sasso e nasconde sempre la mano. Infine quello che da sempre la colpa agli altri. L’azienda è un contenitore ricco di umanità varia. Gestire diversità, tensione, competizione, atteggiamenti infantili o prepotenti fa parte dei compiti di chiunque ha a che fare con risorse e carriere. Per questo fare il capo non è facile. Come tutti i mestieri si può però apprendere come farlo al meglio. Questo deve essere l’obiettivo.

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Dal discorso di Papa Francesco al Sinodo della famiglia

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“Puoi aver difetti, essere ansioso e vivere qualche volta irritato, ma non dimenticare che la tua vita è la più grande azienda al mondo.
Solo tu puoi impedirle che vada in declino.
In molti ti apprezzano, ti ammirano e ti amano.
Mi piacerebbe che ricordassi che essere felice, non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.
Essere felici è trovare forza nel perdono, speranza nelle battaglie, sicurezza sul palcoscenico della paura, amore nei disaccordi.
Essere felici non è solo apprezzare il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza.
Non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti.
Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell’anonimato.
Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi.
Essere felici non è una fatalità del destino, ma una conquista per coloro che sono in grado viaggiare dentro il proprio essere.
Essere felici è smettere di sentirsi vittima dei problemi e diventare attore della propria storia.
È attraversare deserti fuori di sé, ma essere in grado di trovare un’oasi nei recessi della nostra anima.
È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita.
Essere felici non è avere paura dei propri sentimenti.
È saper parlare di sé.
È aver coraggio per ascoltare un “No”.
È sentirsi sicuri nel ricevere una critica, anche se ingiusta.
È baciare i figli, coccolare i genitori, vivere momenti poetici con gli amici, anche se ci feriscono.
Essere felici è lasciar vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.
È aver la maturità per poter dire: “Mi sono sbagliato”.
È avere il coraggio di dire: “Perdonami”.
È avere la sensibilità per esprimere: “Ho bisogno di te”.
È avere la capacità di dire: “Ti amo”.
Che la tua vita diventi un giardino di opportunità per essere felice …
Che nelle tue primavere sii amante della gioia.
Che nei tuoi inverni sii amico della saggezza.
E che quando sbagli strada, inizi tutto daccapo.
Poiché così sarai più appassionato per la vita.
E scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta.
Ma usare le lacrime per irrigare la tolleranza.
Utilizzare le perdite per affinare la pazienza.
Utilizzare gli errori per scolpire la serenità.
Utilizzare il dolore per lapidare il piacere.
Utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell’intelligenza.
Non mollare mai ….
Non rinunciare mai alle persone che ami.
Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!”
Inviato da iPhone

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Trentenni fra trent’anni

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Ai bambini in futuro forse non dovremo più chiedere: «Cosa ti piacerebbe fare da grande?». Piuttosto dovremmo dire: «Preparati ad essere in grado di fare tante cose». Secondo Rohit Talwar chi oggi ha 11 anni, probabilmente vivrà fino a 120 anni e rischia di lavorare fino a cento.
Incredibile? Forse è presto per dirlo. In Inghilterra, l’aspettativa di vita media oggi è oltre gli 80 anni e cresce ogni anno. A questi ritmi, un bambino di oggi vivrà almeno fino a 120 anni. E questa è una stima prudente. Contemporaneamente vediamo crescere i livelli di automazione nella vita quotidiana. Stanno nascendo nuove forme di smart software che rimpiazzeranno sempre più lavori. Questo porterà alla scomparsa di molti mestieri attuali, calcolati tra il 30 e l’80%. Da qui a 50 anni, saranno poche le persone che lavoreranno full-time. Molti non lavoreranno proprio. Sarà meglio o peggio? E chi li manterrà? Chi può dirlo?
Il sistema pensionistico e il welfare al quale siamo stati abituati si modificheranno profondamente nel prossimo futuro, perché è impossibile mantenerli con persone che vivranno fino a 120 anni. Quindi dovremo lavorare diversamente e molto più di oggi per essere sicuri di poterci mantenere fino a quelle età.
E questo solo per dire come è difficile immaginare come sarà la vita tra 20/30 anni.
Se trent’anni fa avessero proposto la legge Fornero o il Jobs act sarebbe scoppiata la rivoluzione. Negli anni 90 si poteva accedere tranquillamente alla pensione a 47 anni attraverso un mix costituito da CIGS, mobilità ed eventuali integrazioni aziendali consentendo di fatto un numero significativo di prepensionamenti. Il comparto industriale si è anche ristrutturato così. Altri tempi, dunque. Nessuno, allora, si è preoccupato delle conseguenze sul lungo periodo. Chi ha trent’anni oggi è nato allora. Nessuno  ha chiesto loro di condividere o meno quelle scelte. Allora quel sistema andava bene a tutti: sindacati, imprese e lavoratori. Molti dei beneficiati sono, oggi, i genitori di questi ragazzi. Qualcuno avrebbe dovuto preoccuparsi del conto lasciato alle future generazioni? Non credo. Non dimentichiamo che dopo la prima guerra mondiale il sistema pensionistico era a capitalizzazione. Quindi assolutamente autosufficiente. Poi c’è stata la seconda guerra mondiale che ha bruciato praticamente tutte le risorse accumulate. Il dilemma, allora, fu se ricostruire il sistema precedente o andare sostanzialmente a debito tra generazioni. Scelta questa seconda strada si è scelto un sistema a ripartizione sapendo che, probabilmente, avrebbe retto per alcuni decenni. E così è stato. Cosa succederà tra trent’anni alle pensioni dei trentenni diventa oggi uno degli argomenti di una grande discussione spesso ansiogena. Noi possiamo solo limitarci ad aggiustamenti progressivi tra il vecchio sistema retributivo e quello contributivo. Non esiste “la soluzione definitiva”. Chi la propina è in mala fede. Parliamoci chiaro, nessuno può fare previsioni serie e attendibili su cosa succederà. Ci si può cimentare, ovviamente, però il rischio che si consideri solo la situazione attuale proiettandola in un futuro remoto è molto forte. Però solo con le variabili oggi a disposizione cioè al netto della tecnologia, delle innovazioni organizzative e sociali, delle crisi cicliche e della globalizzazione del lavoro. Nessuna riflessione sulla possibile evoluzione del contesto socio economico, nessuna sui flussi migratori reali; nessuna sul nuovo welfare necessario a generazioni che lavoreranno diversamente e più a lungo e con modalità completamente diverse. Per questo le ipotesi vanno prese con grande cautela. La drammatizzazione non serve. Tra trent’anni i trentenni non so se staranno meglio o peggio so solo, per certo, che loro ci saranno di sicuro e nel frattempo, a tutti noi, cittadini di oggi, viene richiesto di aiutarli a progettare un nuovo contesto economico, sociale e culturale diverso e funzionale a quello nel quale loro dovranno vivere. A noi il dovere di evitare di alimentare conflitti generazionali basati su ipotesi tutt’altro che scontate.

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Si fa presto a dire: “sei un Quadro”…

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Secondo i dati diffusi da Manageritalia sulla base dei report elaborati dall’Inps, in Italia ci sono oltre quattrocentocinquantamila “quadri”. Età media 47 anni (45,6 per le donne) e prevalentemente di sesso maschile, sebbene le donne che ricoprono questo ruolo siano aumentate del 24% dal 2008 al 2012, diventando più numerose delle dirigenti di sesso femminile.
Quasi centomila i professionisti presenti solo nel terziario del nostro Paese. Una via di mezzo tra la figura del Dirigente, oggi anch’essa in crisi di identità, e altre figure tipiche dei tradizionali inquadramenti contrattuali.
Una categoria in crescita, relativamente giovane e in cerca, forse, di un riconoscimento definitivo.
Il nome, certo, non aiuta: Quadro.
Oggi da più parti soppiantato dal più familiare termine inglese “manager” accompagnato da “qualcosa d’altro” che ne completa o ne contorna il significato.
La prima volta che il termine “quadro” è stato utilizzato per indicare quella specifica declaratoria del personale di un’azienda, prevista dal Codice Civile, è stato nel 1931 ma, già nel 1752, secondo il Dizionario Storico della lingua francese, il termine (“inquadrare” per indicare un insieme di ufficiali e sottufficiali che comandano dei soldati di un reggimento oppure degli individui: i quadri di un battaglione, ecc.) venne usato per la prima volta nel gergo militare da cui derivano buona parte dei termini utilizzati dalla cultura tayloristica industriale.
All’estero, soprattutto in Francia, il termine “Cadre” si è affermato con maggiore forza e ha una sua dignità specifica. Da noi, no.
È un termine polisemico. Ha una sola etimologia (quadro deriva da quadrus, quadrato in latino).
In altri Paesi esiste un contratto nazionale specifico che ne definisce perimetro e confini. E ne stabilisce varietà, ruolo e responsabilità. Da noi, no.
Da noi essere “quadro” non conferisce alcun status sociale. Al mare, al vicino di ombrellone, la moglie non può dire:”Mio marito è un Quadro”.
Meglio un generico:” Mio marito è un Manager”.
Suona meglio. Il termine quadro non identifica professionalmente. Inquadra, appunto. Per questo è venuto in soccorso l’inglese. Che spesso viene usato a sproposito.
Quadro è una termine che identifica solo una declaratoria contrattuale e il conseguente livello retributivo. Su questo aspetto, credo, dovrebbe essere fatto uno sforzo maggiore di analisi e di identificazione di nuovi percorsi professionali possibili e di riconoscimento soprattutto in contesti organizzativi profondamente diversi dal passato.
In Italia, In termini di benefit aziendali, la vera differenza con la figura del dirigente la fa il welfare a disposizione. Sanità e previdenza, innanzitutto. E questi sono, per un quadro, contrattualmente insufficienti. Ormai l’auto, il cellulare e il p.c. li hanno quasi tutti. E quindi non distinguono ma, semmai omologano. Tra l’altro questi strumenti hanno perso la loro funzione di benefit “esclusivi” trasformandosi in normali strumenti di lavoro. Spesso invasivi. Non avendo un orario di lavoro definito il professionista rischia di essere solo sempre disponibile e rintracciabile. Il Quadro può ancora contare sull’art. 18 a differenza di altre figure apicali. Almeno per chi è oggi in azienda con un contratto a tempo indeterminato. Va da sé che è molto difficile pensare di restare in una posizione di responsabilità, pur tutelato dalla legge, in un’azienda che ha deciso di non credere nella possibilità di continuare il rapporto di lavoro. Quindi occorre mantenere nel tempi competenze specifiche, capacità, responsabilità e autonomia. Ma anche competenze trasversali. Per continuare ad essere competitivi sul mercato. Da qui l’esigenza di percorsi di formazione e sviluppo continui ed efficaci. Ma tutto questo confluisce in un termine giuslavoristico ormai insufficiente, “Quadro”, appunto. Difficile da affrontare contrattualmente perché è un termine che piace ancora ai sindacati perché fa tanto “categoria”: I “Quadri”. Blanditi, vezzeggiati e ascoltati quando fanno una scelta di campo sindacale. Meno quando vorrebbero avere voce sulle proprie specificità nei contratti nazionali e aziendali. Nelle imprese occupano ruoli di grande responsabilità, partecipano a team anche internazionali o, addirittura, sono l’alter ego dell’imprenditore. Fuori dall’azienda sono una categoria apicale di un contratto nazionale zeppo di figure professionali massificate. È questo che, forse, li rende disinteressati ad una omologazione dentro un contesto tradizionale. La fine del “Taylorismo” culturale e contrattuale forse li rilancerà e gli restituirà un perimetro e un ruolo maggiormente definiti. I temi di interesse vanno da un maggiore riconoscimento del loro contributo al successo dell’azienda alla creazione di un’area professionale meglio definita e diversificata. Infine è forte la richiesta di un welfare più importante, aziendale o contrattuale, che tenga conto di vecchie e nuove esigenze di una popolazione che spesso “vive” in azienda. Le giovani generazioni, le nuove tecnologie e un contesto più globalizzato e interdipendente costringeranno contratti e codice civile a fare un deciso passo in avanti. E questo, anche se difficile, è certamente auspicabile.

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Eravamo in centomila allo stadio quel dì…

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È di oggi la notizia che il codacons pretenderà il rimborso del prezzo del biglietto di Expo a causa delle enormi file che rendono impraticabile una visita minimamente decente dell’esposizione. Sono sincero. Ho provato tenerezza per gli avvocati che hanno suggerito questa mossa. Roba da altri tempi.
Chiunque sia stato in Expo dopo agosto ha ben compreso la trasformazione che stava maturando sia nella composizione che nella numerosità dei partecipanti. Ormai tutti ben oltre l’Expo. Non era solo un problema di appartenere o meno alla schiera dei ritardatari che non volevano perdersi l’esposizione. Ci saranno stati anche questi. Ma restano una minoranza. Expo si è, via via, trasformato in una specie di Woodstock dove esserci è diventato più importante che vedere. Certo i padiglioni sono interessanti, gli odori o i profumi sono un po’ una via di mezzo tra un festival dell’unità e il mercante in fiera, le costruzioni sono affascinanti, ardite e particolari, ma la calca, la folla, il desiderio di essere in questo posto, qui e ora, ha superato ogni altra necessità o fatica. Follia collettiva? Non so. Io vedo centinaia di migliaia di persone contente. Un sabato mattina mi seduto in un bar all’entrata Triulza ad osservare le ondate di amici, scolaresche, coppie, single che alle dieci del mattino si accalcavano all’entrata e poi alla sera li ho osservati all’uscita. Stanchi ma felici. Avranno avuto, si e no, la possibilità di visitare due o tre padiglioni. Molti, tra di loro, chiacchieravano progettando di tornarci appena possibile. Le discussioni erano più che altro sulla lunghezza delle code a cui avevano partecipato. In realtà non avevano visto quasi niente ma erano stati lì. In mezzo a coetanei sorridenti e disciplinati. Ecco. A parte qualche incazzatura per i furbi esperti della “non coda” o in grado di infilarsi nelle cosiddette fast track le persone, sembravano serene e disciplinate. Si aspettavano questo e questo hanno trovato. Un grande luogo di incontro, di struscio collettivo di presenza. Ci sono alcuni avvenimenti che restano in ciascuno di noi, per sempre. Al di là di chi li ha organizzati. Si depositano in fondo ai nostri ricordi ed emergono quando ci si trova, la sera, con gli amici. Alcuni sono molto personali altri sono solo una testimonianza del tipo: io c’ero. Tutto qui. L’Expo per molti è uno di questi momenti. Adriano Celentano cantava nel ’67 un improbabile: “..Signorina se non sbaglio lei ha visto l’inter milan con me. Ma come fa lei a non ricordare. Noi eravamo in centomila allo stadio quel di’. Io dell’ in Inter Lei del mi Milan…” Potenza dei riti collettivi….

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Contratto dirigenti terziario: Un “rinnovamento” assolutamente necessario più che un semplice rinnovo.

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Ogni contratto nazionale è figlio della storia e del contesto che lo hanno prodotto. Non fa eccezione il contratto nazionale dei dirigenti del terziario. Chi, negli anni, lo ha costruito e negoziato (da entrambe le parti) ha avuto la lungimiranza di pensare a lungo termine. Cioè di capire che sarebbe stato necessario pensare non solo ai dirigenti nel momento della loro massima forza professionale individuale ma concentrandosi su quando questa capacità negoziale individuale sarebbe venuta meno.
Da lì un importante welfare previdenziale e sanitario di carattere marcatamente solidaristico e, in un secondo tempo, anche formativo, attraverso il Cfmt.
Intuizioni non da poco in una categoria, per sua natura, dominata da un forte individualismo.
Quindi l’anima, il cuore di questo contratto nazionale, la sua specificità e la sua ragion d’essere non sono mai state né la parte economica né il sistema di tutele peraltro presente anche in altri contratti. Ovviamente un welfare così decisivo e importante deve essere mantenuto efficace nel tempo, per rispondere alle esigenze dei dirigenti, ma anche efficiente e quindi in equilibrio economico per non pesare sulle imprese.
Questo è ottenibile solo se si rafforza un sistema di governance moderno e trasparente in un contesto effettivamente bilaterale. Quindi rispettoso del peso e del ruolo di entrambi.
Ed è chiaro che questo rappresenta e rappresenterà un tema ineludibile che deve essere affrontato. Non è materia di merito del CCNL ma precede o accompagna il suo percorso di rinnovo. Così come rappresenta un tema ineludibile, per le imprese, la necessità di mettere mano al sistema delle tutele o dei vincoli quando questi ormai rappresentano solo un costo eccessivo o hanno le loro radici in un passato che forse non ha più ragion d’essere.
Il CCNL dei dirigenti del terziario viene applicato da aziende di settori molto differenti. Il commercio ne rappresenta una minoranza. Alcune di queste aziende non hanno problemi di costo per questa specifica categoria, altre, e sono la maggioranza, sono, al contrario, estremamente sensibili. Inoltre per la Confcommercio c’è un problema di coerenza e di equilibrio in rapporto agli altri contratti firmati. E di questo occorre tenerne ben conto. Tutto ciò pone un secondo punto di riflessione.
Il termine “rinnovo contrattuale” nell’immaginario collettivo è sempre stato collegato alla necessità di migliorare le condizioni di una sola parte. Sia essa rappresentata da dirigenti, come in questo caso, o da altre categorie di lavoratori dipendenti.
È sempre stato così ma non è scritto nella pietra e, proprio per questo motivo, negli anni, questa certezza ha lasciato spazio alla constatazione che un rinnovo di contratto nazionale rappresenta un momento di confronto e verifica su ciò che dovranno essere le regole, vecchie o nuove, da confermare, aggiornare o abrogare per l’intera durata dello stesso. E siccome nulla è statico, tutto è modificabile. Ovviamente con l’accordo tra le parti. Quindi ha più senso parlare di rinnovamento concordato e necessario degli istituti contrattuali più che di rinnovo automatico.
I negoziatori meno esperti potrebbero pensare che, a certe condizioni, sia meglio non rinnovare alcun contratto come se il rifiuto di affrontare uno o più temi li possa di per sé esorcizzare.
È un errore che spesso compiono i neofiti della contrattazione o i sindacati ideologici. Il risultato è semplice: un sindacato che non firma contratti è destinato a non contare più nulla. I temi sul tavolo non vanno sottaciuti o sottovalutati. Vanno affrontati e risolti con autorevolezza e lungimiranza. Il punto centrale resta la qualità dello scambio. Ciò che si lascia in rapporto a ciò che si ottiene. È questo non in astratto ma in un determinato contesto economico del Paese.
E se da un lato, al sindacato dei dirigenti preme allargare la propria platea di riferimento, rafforzare il sistema formativo o sostenere i colleghi nei casi di transizione tra differenti opportunità di lavoro, alle imprese interessa muoversi in un contesto di riduzione di ambiguità interpretative, e che gli eventuali costi se mai dovessero esserci siano comunque compensati da contropartite certe e misurabili. Oggi siamo qui, ancora fermi al palo. Riprendere il confronto con l’idea di arrivare ad una conclusione vuol dire comprendere fino in fondo la necessità di lavorare per ottenere questo riequilibrio. Personalmente non vedo altre vie praticabili.

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GDO. Essere di nuovo protagonisti o rischiare di essere irrilevanti: forse è arrivato il momento di riflettere

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Da osservatore esterno ho maturato una personalissima convinzione: la grande distribuzione avrebbe sicuramente bisogno di farsi sentire, oggi più di ieri. La necessità di continuare a contribuire al processo di ammodernamento del sistema distributivo italiano, il rapporto con l’agricoltura nazionale e con l’industria di trasformazione; la riorganizzazione e rinnovamento dei formati e quindi il rapporto con le pubbliche amministrazioni; la necessità di mettere mano a un modello efficace di contrattazione nazionale e aziendale, i nuovi modelli organizzativi, la qualificazione, la formazione e il welfare del personale presuppongono la presenza di una forte spinta associativa che sappia guardare oltre le specifiche esigenze di concorrenza e di equilibrio tra insegne. Questa ultima necessità credo sia ormai superata così come si è conclusa la fase dove ad alcune insegne è riuscito il disegno di rafforzarsi definitivamente a spese di altre. Adesso occorrerebbe decisamente andare oltre. Non nei convegni o sulla stampa dove la professionalità di ottimi specialisti può fare la differenza ma dove si trovano le soluzioni, dove si incide sul serio e dove si determinano le decisioni a proprio o altrui favore. E non è più, sia chiaro, un problema tra grande e piccola distribuzione. È un problema di strategia. Che oggi sembra non esserci o non essere incisiva come dovrebbe essere necessario. Il perché è evidente. La GDO ha sempre condizionato la contrattazione nazionale di categoria pur non gestendola mai in prima persona. Lo ha fatto per oltre trent’anni. In altri termini con poco più di duecentomila addetti ha sempre dettato le condizioni di un contratto che copre oggi oltre tre milioni di persone. E ne ha tratto benefici indiscutibili. Purtroppo negli anni, anziché capitalizzare queste opportunità, ha preferito cedere a richieste assurde dei sindacati a livello aziendale costruendo accordi con vincoli organizzativi e costi relativi che dovrebbero essere contestati e trattenuti dalla pensione dei Direttori del personale e dei board che si sono succeduti in quegli anni. L’impasse di oggi è anche figlia di quel passato. E questa impasse porterà inevitabilmente con sé le tradizionali liturgie natalizie, le vertenze legali con i relativi costi e consoliderà ancora di più l’impressione, nel Paese, che nella grande distribuzione il lavoro è povero, mal pagato e di scarso interesse per chi vuole crescere e investire su se stesso. E, nei dipendenti, l’idea che le loro aziende non sono disponibili a concedere ciò che altre aziende dello stesso settore sono state disponibili a dare. Reazioni inevitabili quando si tira troppo la corda. E confondere, come si sta facendo, i limiti, i ruoli e le potenzialità di livelli contrattuali differenti porta ancora di più a non essere compresi. Così come sulle aperture e sulla pianificazione degli orari dove la GDO ha contribuito a costruire, a suo tempo in Confcommercio, una posizione forte mediana ma condivisa e inattaccabile sia sul versante sindacale che nelle diverse regioni. Anzi ha avuto il merito di condizionare non poco la posizione della più grande confederazione del terziario, favorendo un importante dibattito interno positivo e costruttivo ben diverso rispetto ad altre organizzazioni, come ad esempio Confesercenti, che si sono messe, anche per questo, alla testa di posizioni abolizioniste tra le più intransigenti. Oggi è chiaro che la posizione di Federdistribuzione non trova grandi ascolti e, probabilmente, rischia di essere accantonata rimettendo inevitabilmente in discussione abitudini e comportamenti di consumo ormai consolidati. Risultato, questo, che non giova a nessuno. E anche su questo tema, la difficoltà a costruire alleanze propositive, è evidente e sotto gli occhi di tutti. Infine il rapporto con l’agricoltura nazionale. C’è in atto da sempre una guerra tra industria alimentare e agricoltura che passa quasi sotto traccia sulla stampa mentre continua la polemica esplicita sulla presunta “voracità” della GDO e sulla sua evidente volontà di “affamare” l’agricoltura nazionale magari a vantaggio di altri Paesi esteri. È certamente scandaloso e inaccettabile. Ma perché accade tutto ciò? Non certo per mancanza di volontà o di impegno di Federdistribuzione. È un problema di massa critica, di alleanze, di capacità o meno di finalizzare iniziative di sostegno che, quando il vento soffia contro, diventano più impegnative e complesse da realizzare. Per questo occorrerebbe tornare ad essere protagonisti costruendo le convergenze necessarie con chi ci sta. Occorre però avere la volontà e saper rimettere in fila i problemi valutando i percorsi possibili. Soprattutto quelli che non si sono sufficientemente valutati perché si è stati troppo occupati a cercare scorciatoie impraticabili. A volte qualche passo indietro aiuta a osservare meglio lo scenario che si ha di fronte. Personalmente vedo tre priorità: trovare un punto di incontro con le organizzazioni maggiormente rappresentative sulle aperture che non penalizzi fortemente le imprese della GDO e che sappia trovare un equilibrio praticabile così come ritrovare con loro e con le organizzazioni sindacali un percorso serio e costruttivo sulla contrattazione nazionale che sappia andare oltre le disfide giudiziarie che, per loro natura, non portano da nessuna parte e i desideri impossibili della prima ora e, infine, riprendere un iniziativa che riporti un equilibrio sostanziale nella filiera dalla produzione al consumo. Per fare questo occorre crederci, lavorare con ostinazione ma anche con lungimiranza dando per scontato che non c’è alcuna soluzione a portata di mano ma che occorre comunque provarci verificando chi ci sta e a quali condizioni. E se queste condizioni, pur diverse dai propri desideri, incontrano le esigenze delle imprese. Le aziende oggi, hanno bisogno di punti di riferimento. Il compito di una federazione è di aiutarle ad individuarli.

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Condividere, collaborare, partecipare. Una sfida non facile per il Paese

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passare dalla cultura del conflitto a quella della partecipazione non è facile. Soprattutto quando resta l’ideologia del conflitto ma non più la possibilità di farlo. Restano i rancori, le accuse reciproche, la paralisi. È chiaro che non si partecipa né per forza né perché non ci sono altre alternative. In questi casi si subisce solo l’iniziativa altrui.  Purtroppo in Italia siamo fermi qui. Io credo che occorrerebbe procedere per gradi. Innanzitutto sul piano macro. È vero o no che i corpi intermedi sono in discussione? Quindi occorre partire da lì trovando un terreno comune tra sindacati, imprese e associazioni rappresentative sull’identificazione di alcune semplici regole del gioco condivise. E occorrerebbe farlo in fretta. Riconoscimento reciproco, accordo sulla rappresentanza, salvaguardia della contrattazione nazionale, tutele minime per chi non ha un contratto nazionale di riferimento, consolidamento del welfare contrattuale. Ovviamente questo non basta. Occorre andare avanti. Cosa serve oggi al Paese per consolidare la ripresa e attrarre nuovi investimenti? Serve meno burocrazia, rapidità nella giustizia civile e regole semplici sul lavoro che consentano alle  nuove imprese di decollare rapidamente. Cosa serve ai lavoratori? Riduzione del cuneo fiscale, politiche attive, tutele minime, incrementi salariali legati all’andamento aziendale, flessibilità nel lavoro e tra lavori. Beh! Un sindacato in grado di collaborare con le imprese, che sostiene la ripresa e  la accompagna, che condivide con gli imprenditori gli elementi fondamentali di una rinnovata politica economica utile all’ammodernamento del Paese ricrea le condizioni per una ripresa vera di un ruolo propositivo che è altro rispetto alla vecchia concertazione. L’asimmetria di oggi condanna all’irrilevanza tutto il sindacato e aspettare con pazienza sulla riva del fiume che cambi qualcosa non è mai una buona politica. Quindi una strategia di collaborazione basata su elementi concreti, misurabili e condivisibili. Nel frattempo occorre continuare un processo di confronto unitario che abbandoni decisamente le ormai superate derive identitarie che si sono impadronite del confronto tra sindacati confederali. E, infine, un grande appuntamento nazionale condiviso che sappia coinvolgere il Paese con un linguaggio chiaro e diretto e che prospetti un percorso riformista, partecipativo e unitario. Ciascuno nel proprio ruolo e nelle proprie prerogative dovrebbe capire che il momento necessità di una svolta e di una leadership visionaria che sappia guardare al futuro. Il 900 è alle nostre spalle. Inutile voltarsi. Oggi, ci ricorda in una bellissima poesia Antonio Machado, non c’è un sentiero segnato da percorrere, la via si fa camminando ma, soprattutto, nessuno può più ritornare sui propri passi.

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