Part time per 200.000 giovani di Raffaele Morese e Gabriele Olini

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Non è la prima volta che, nel nostro paese, emerge la questione dell’occupazione giovanile. Questa volta, però, è veramente angosciante e inquietante. Dire che c’è il rischio di “perdere” una generazione, non è pura drammatizzazione. Infatti, in gioco c’è la giusta aspettativa di chi ha terminato il ciclo formativo ed ora si sta guardando intorno per iniziare a lavorare. Ma c’è un di più che si accumula con il passare del “tempo di non lavoro”; è la crescente sensazione di esclusione, di inutilità, di indignazione che – anche se non sempre assume la dimensione della protesta – alimenta atteggiamenti e convincimenti di sfiducia verso sé stessi e verso il resto della società.

Non vi è da mettere in dubbio che siano in tanti a chiedersi responsabilmente cosa si possa fare per non “perdere” la nostra gioventù, a partire da chi ha il potere di decidere la politica economica. Ma finora non c’è stata una idea forza che facesse da catalizzatrice delle aspettative. Anzi, grosse decisioni – come l’allungamento repentino dell’età pensionabile, la regola costituzionale del pareggio di bilancio, le pesanti ristrutturazioni di importanti aziende del Paese ma anche di molte medie e piccole imprese, incerte riforme come quella del mercato del lavoro – si sono frapposte ruvidamente alla visibilità di misure favorevoli soprattutto all’occupazione giovanile. C’è sempre all’ordine del giorno della politica un qualcosa di più urgente, di più impellente, di più scottante che occupa le prime pagine dei mass media, del dibattito politico, dell’interesse dell’opinione pubblica.

Invece c’è la necessità di mantenere agganciati al mercato del lavoro coloro che sono in cerca di occupazione e che rischiano, diversamente, di entrare nella disoccupazione di lungo periodo. Sia che si tratti di persone in cerca di primo impiego, dopo il periodo formativo; o di coloro che avevano un lavoro, magari precario, che la crisi ha cancellato; o anche di coloro che ora cercano un lavoro per fare fronte ad una situazione familiare che la crisi ha messo a rischio.

Non si può guardare a ciò che si è fatto in passato in Italia. Si pensi soltanto per un momento all’esperienza dei lavori socialmente utili; su di essa si possono avere le più svariate opinioni (e la nostra è che, nonostante errori di inesperienza e grossolanità che si fecero, fu la più consistente politica attiva del lavoro realizzata in Italia), ma ora non esistono le condizioni per ripeterla. Non ci sono né i bacini di attività che allora si presentarono come spugna di assorbimento dei progetti finanziati, né le ragioni che facevano da sfondo a quell’intervento, prima fra tutte una crisi più congiunturale che strutturale.

Non si può dimenticare la perdita di valore aggiunto che abbiamo accumulato dall’esplosione della crisi globale. Bisogna partire dalla certezza che ci troviamo di fronte ad una modifica strutturale del nostro sistema di produzione e consumo di beni e servizi. Sia in fatto di qualità del prodotto che di organizzazione produttiva. Sia in termini di innovazione tecnologica che di accrescimento della produttività. Il risultato di questo micidiale – ma inevitabile – mix, è che il recupero di quote significative di occupazione sarà più lungo e accidentato di quello che servirà per vedere, come dice Monti, la “luce” in fondo al tunnel della crisi. La produzione potrebbe anche riprendere, ma l’occupazione continuerà a languire. Non c’è niente da fare; se si vuole dare seriamente una mano all’occupazione giovanile, bisogna ripartire il lavoro che c’è. E la misura che meno compromette gli assetti contrattuali in essere o la struttura degli schemi produttivi è quella dell’incentivazione del part-time.

Bisogna fare in modo che l’occupazione aggiuntiva che si può creare, sia ripartita almeno per un congruo periodo di tempo. D’altra parte, nel nostro Paese, il ricorso al part-time non è mai stato diffusissimo; la sua incentivazione appare oggi plausibile e non divaricata rispetto agli obiettivi del sistema d’impresa. Ciò sarebbe tanto più efficace se fosse rivolto ai giovani (diciamo 30 anni?), per un tempo più lungo per quelli del Mezzogiorno ed esteso a tutti i settori. L’operazione ha valore e credibilità se si pone un obiettivo occupazionale significativo: diciamo 200.000 giovani con contratto a tempo indeterminato part-time (le modalità vanno lasciate alla contrattazione) da sostenere per almeno 3 anni nel Centro – Nord e 5 anni nel Mezzogiorno e con una retribuzione lorda mensile di 1000 euro. Sulla base di questi presupposti, abbiamo calcolato sia quante risorse pubbliche sono necessarie per finanziare questo progetto, sia quale reddito aggiuntivo si renderebbe disponibile per sostenere la domanda di beni e servizi.

L’agevolazione tramite fiscalizzazione degli oneri sociali a carico dei datori di lavoro per 200 mila dipendenti determinerebbe un reddito disponibile aggiuntivo per poco più di 2 miliardi di €, con i benefici collegati in termini di domanda complessiva. Infatti, come si vede dalla tabella allegata, il reddito mensile, al netto dei contributi e delle imposte a carico del lavoratore, sarebbe intorno a 820 €. A fronte della retribuzione lorda di 1.000 €, l’orario da praticare, dal classico mezzo tempo a un part time “lungo”, sarebbe collegato alla professionalità per la quale verrebbe assunto il part timer, secondo quanto già stabilito dagli inquadramenti del contratto collettivo nazionale. Naturalmente non si sta pensando soltanto ad un rapporto di lavoro con un orario settimanale più breve rispetto allo standard, ma anche a part time verticali, con periodi di maggiore o minore impegno, che si compensano nell’anno. Questo favorirebbe l’assunzione per le attività stagionali o per settori ciclici, in cui si succedono periodi di picchi o di contrazione dell’attività. In questi casi, l’ulteriore vantaggio sarebbe probabilmente quello di contribuire alla stabilizzazione di una parte del lavoro a tempo determinato.

Il datore di lavoro, assumendo un giovane a tempo parziale, si avvantaggerebbe di una fiscalizzazione degli oneri contributivi di 320 €, con uno sgravio annuo che supererebbe i 4.000 euro. Naturalmente il beneficio sarebbe riservato ai posti di lavoro aggiuntivi, escludendo i rapporti a tempo parziale già in essere.

Come si vede nella tavola, lo sgravio complessivo per i datori di lavoro sarebbe di 830 milioni di euro. Se questo può anche essere definito l’impatto contabile per le finanze pubbliche, in termini effettivi gli oneri per il bilancio dello Stato sono minori. Bisogna infatti considerare che questi 200 mila contratti aggiuntivi darebbero luogo, essi stessi, ad un gettito fiscale di 234 milioni di € sulle retribuzioni pagate ai lavoratori part time. I contributi a carico dei dipendenti, inoltre, porterebbero ad un gettito di poco più di 220 milioni di €. Anche limitandosi a scomputare le sole imposte a carico dei dipendenti, l’aggravio netto per il bilancio pubblico sarebbe così di 600 milioni di € (pari a 834 – 234). Senza aggiungere il minor costo dell’indennità di disoccupazione per coloro che saranno assu8nti sulla base di questo programma.

Certamente la somma da mettere a disposizione resta importante, ma non impossibile per recuperare almeno un quinto della perdita di occupazione avutasi dal 2008 ad oggi nella fascia di età più giovane. Ma come al solito, ci vuole volontà politica.

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