Una sentenza inquietante

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Bisogna ritornare a parlare di Fiat. Questa volta riguarda un’ iniziativa del Tribunale del lavoro di Roma che, accogliendo il ricorso di alcuni lavoratori iscritti alla Fiom nello stabilimento di Pomigliano – ora chiamato FIP (Fabbrica Italia Pomigliano) – obbliga l’azienda all’ assunzione di 145 iscritti a quel sindacato. Né uno di più, né uno di meno. Per ora. Infatti, quel numero, secondo il giudice, dovrà crescere, destinando l’8,75% (percentuale definita attraverso un calcolo che è dettagliato in sentenza, allegata a questo articolo ) delle nuove assunzioni che verranno, alla Fiom. Che, ovviamente, gongola.

In questa sede, non ci interessa indagare se la sentenza è giuridicamente corretta o meno, giusta o ingiusta. Ci lavoreranno a lungo i giuristi, data la sua assoluta novità. Né ci interessa come reagiranno la Fiat, gli altri sindacati firmatari dell’accordo di scissione di quella nuova società dallo schema di riferimento del contratto collettivo nazionale dell’industria metalmeccanica privata e men che meno le forze politiche e parlamentari. Di certo, è una sentenza sindacalmente inquietante.

A  uscirne con le ossa rotte, sono le relazioni sindacali nel nostro Paese. La loro forza è sempre stata la legittimazione delle parti contraenti. Nessun contratto è fattibile per legge. Esso esiste, se le parti sono d’accordo ed esse sono tanto più credibili quanto più sono contitolari di intese liberamente sottoscritte. La lunga storia delle relazioni sindacali italiane testimonia proprio questo progressivo accumulo di reciproco riconoscimento di ruolo tra le parti. Certo, ci sono voluti duri e prolungati “braccio di ferro”, ma alla fine è prevalsa sempre la volontà di rafforzare e non demolire le reciproche rappresentanze.

L’intervento del giudice – spesso sui casi singoli, raro su quelli collettivi (soprattutto nel settore privato) – è proceduto nel tempo come un ammortizzatore delle fughe in avanti, delle intemperanze padronali, del clima di conflittualità continua, riproponendo comunque la centralità della negoziazione tra le parti. Anche quando in discussione erano questioni di principio e di diritti costituzionalmente protetti, la magistratura del lavoro ha svolto il proprio ruolo di garante delle leggi e di sussidiarietà rispetto alla contrattazione. Non a caso, quest’ultima, anche in tempi di crisi, quando il sindacato è obiettivamente più debole, non ha cessato di essere praticata e diffusa. C’è stata una cultura sindacale che ha consentito questo risultato: capacità di lettura delle dinamiche economiche ed aziendali e sostanziale diffidenza a delegare ad altri (parlamento o magistratura) il proprio mestiere.

Questa cultura sembra venire meno, soprattutto nelle zone dove il pluralismo sindacale non trova le condizioni per gestire assieme le vicende dei lavoratori. Il contrattualismo viene depotenziato a vantaggio della supplenza legislativa o giurisprudenziale che, come si è già verificato proprio nell’ attuale vicenda Fiat, sulla stessa materia (nel caso specifico riguardava la validazione di intese fatte senza la firma della Fiom) ha sentenziato in modo difforme. I vecchi sindacalisti di tutte le sigle si ripetevano tra loro: un contratto può anche essere una mediazione al ribasso, ma una sentenza è sicuramente un terno al lotto.

La sentenza del Tribunale di Roma può anche danneggiare la Fiat – che se lo merita, se probabilmente perseguiva l’obiettivo di ritardare il più possibile l’assunzione di iscritti alla Fiom e forse aveva messo nel conto di poterne fare a meno, visto l’andamento del mercato della nuova Panda – ma quello che produce alla contrattazione e specie a quella parte del sindacato che l’ha più perseguita, è sicuramente più incidente. E’ una sentenza che non rilancia il ruolo delle parti sociali, non favorisce il peso negoziale del sindacato, ma si sostituisce ad esso, punto e basta. La Fiom non si rafforza; anche se molti suoi iscritti potranno rientrare in azienda, il loro sindacato resterà ancora lì, fuori dai cancelli. Ma gli altri sindacati non se la passano meglio, schiacciati tra una gestione poco trasparente del contratto sottoscritto con essi da parte della Fiat e un giudice che, invece di costringere le parti a definire criteri stringenti per la riassunzione, spiega a tutti che basta il suo intervento per aggiustare le cose.

La delegittimazione  delle organizzazioni di rappresentanza è sempre un rischio, ma lo è di più nelle fasi di gravi difficoltà economiche. Anche perché i vuoti non esistono se non per breve tempo. Prima o poi, vengono sempre riempiti  e senza essere sicuri che ciò avvenga al meglio. E’ questione che se la deve porre, innanzitutto, chi è interessato a che non si consolidi questa deriva. Quindi, sarebbe ragionevole non sottovalutare i significati di più marcato profilo che assume la sentenza Fiat, al di là degli effetti immediati. Come sarebbe più rassicurante se questa consapevolezza non si trasformasse subito in richieste di legiferazione, ma fosse orientata a rendere più protagoniste la contrattazione e l’unità tra i sindacati. Sono due facce di una stessa medaglia, quella della migliore tutela dei lavoratori.
Raffaele Morese

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