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Gli ostacoli che le donne incontrano nel mondo del lavoro sono ancora numerosi. Lo confermano i risultati dello studio «Italy’s Best Employers for Women 2026», realizzato da Statista per il Corriere della Sera. Per quanto alcune realtà della GDO si impegnino seriamente a valorizzare e a riconoscere il lavoro femminile, nelle classifiche generali, il comparto resta sempre indietro. La ragione è relativamente semplice ed è sottolineata da Valentina  Iorio sul Corriere Economia: “I contratti a termine e i part-time, per lo più involontari, sono più frequenti tra le donne. I redditi quindi sono più bassi e ci sono meno opportunità di carriera rispetto agli uomini”. Per la GDO, il tema resta una corsa ad ostacoli.

Sono quindi due gli aspetti ineliminabili e centrali nei modelli organizzativi della Grande Distribuzione che influiscono sul giudizio negativo. Da un lato il part time o contratto a tempo parziale che per alcuni dovrebbe essere semplicemente una risposta a problemi individuali soprattutto transitori mentre per la GDO è una importante modalità organizzativa tarata sull’afflusso dei clienti. Da qui l’ indispensabilità dello strumento. Dall’altro l’aspetto retributivo ovviamente  proporzionato alle ore lavorate che abbassa le medie generali sulle retribuzioni.

In Italia, nel 2023/2024, a livello generale, la quota di occupati part-time è del 18% circa (dato Istat), con una forte disparità di genere: 31,4% delle donne e 7,4% degli uomini. Il part time non rappresenta di per sé una condizione di vulnerabilità lavorativa quando è scelto con consapevolezza. Diverso è quando rappresenta una condizione imposta. Il part time si definisce involontario quando è svolto in assenza di possibilità di svolgere un’occupazione a tempo pieno. L’incidenza del part time ha ormai raggiunto una quota di oltre il 30% sul totale delle assunzioni. E, negli ultimi vent’anni, abbiamo assistito a una crescita di impieghi a tempo parziale (dal 12,4% nel 2004 al 17,6% nel 2023) e a un maggiore aumento, tra questi, del numero di part time involontari, che passano dal 33% nel 2004 al 53,2% nel 2023. Il  part-time involontario, un fenomeno che tocca il 53,2% delle persone che lavorano in part time (dati ISTAT 2023), riguarda soprattutto le donne e caratterizza l’Italia in negativo rispetto ad altri paesi europei.

Sul tema è nato nel 2024 un Rapporto presentato in Senato dal titolo “Da conciliazione a costrizione: il part-time in Italia non è una scelta. Proposte per l’equità di genere e la qualità del lavoro”, elaborato da un gruppo di lavoro collettivo. Il Rapporto ha mostrato che soprattutto le donne vengono impoverite sia nella condizione di vita presente (scarsa paga/orari flessibili/non bilanciamento vita privata-lavoro) sia dal punto di vista futuro (situazione contributiva, pensioni povere). Risulta poi che il 12% delle imprese usa il part-time in modo strutturale (oltre il 70% dei dipendenti) e che queste imprese sono meno attente alla qualità del lavoro di questa popolazione. Il Rapporto si concludeva quindi con alcune proposte volte al rafforzamento della contrattazione, a disincentivare le forme involontarie di part-time e all’aumento dei controlli.

La partecipazione delle donne al mercato del lavoro continua a rappresentare una delle maggiori sfide per l’Italia. Lo è ancora di più per un comparto caratterizzato da una forte presenza femminile. Nella prossima tornata contrattuale il tema sarà all’ordine del giorno. Personalmente credo che occorra lavorare su tre piani. In premessa occorre  ribadire la natura strutturale dello strumento per l’organizzazione aziendale in GDO. Le formule adottate di part time orizzontale e verticale non sono negoziabili in sé. 

È però possibile intervenire sul piano gestionale aumentando la quota minima di ore  oggi prevista dal CCNL, garantendo al lavoratore una programmazione dei turni sufficiente a consentirgli altre attività E una sorta di  priorità negli eventuali passaggi a tempo pieno. Infine andrebbero consolidate il maggior numero di ore in caso di superamenti continui (da definire nella durata) dell’orario definito. Quindi c’è materia di confronto e di maggiore definizione del fenomeno. Soprattutto di definire una volta per tutte che il lavoro cosiddetto “povero” non è eliminabile ma è strutturale in diversi settori. Non serve esorcizzarlo. Serve comprenderlo e individuare comunque una sua  valorizzazione in termini di coinvolgimento, sistemi premianti collettivi, formazione  e possibilità di carriera. Non serve negarne l’esistenza nascondendo i problemi che ne derivano in termini di recruiting e di retention.

Ritornando all’ indagine di Statista, emerge comunque che c’è ancora molta strada da fare. Solo il 54% delle donne si dichiara soddisfatta del sostegno fornito dall’azienda ai dipendenti con figli. Differenze tra uomini e donne che emergono anche per quanto riguarda la soddisfazione legata all’avanzamento di carriera e alla retribuzione prima e dopo la maternità: il 58% delle donne si ritiene soddisfatta, a fronte del 70% degli uomini. Una percezione che conferma l’esistenza della penalizzazione salariale-occupazionale che colpisce maggiormente le donne. Un danno confermato da numerosi studi che varia a seconda dell’età, del numero di figli, del settore e della regione in cui lavora.

Dallo studio di Statista emerge che le aziende «best employers» sono quelle che, sulla base delle valutazioni delle lavoratrici, si impegnano di più nel valorizzare il contributo delle donne, in termini di opportunità di crescita professionale e riconoscimento sul posto di lavoro, rappresentanza ai livelli dirigenziali più alti, ma anche parità salariale e supporto ai dipendenti con figli in termini di flessibilità di orario, possibilità di accedere allo smart working e mantenimento della stessa posizione e dello stesso livello retributivo nel post maternità. Interessante la metodologia innovativa che ha visto il coinvolgimento di  20.000 dipendenti intervistati in aziende con almeno 250 dipendenti per identificare i migliori datori di lavoro in Italia. (per chi vuole approfondire  Italy’s Best Employers 2025). 

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