Come ho già avuto modo di scrivere (leggi qui) la fine del novecento si è consumata, per la GDO italiana, nel confronto tra due modelli diversi. Il primo centrato sulla soddisfazione del “cliente” interpretato magistralmente da Bernardo Caprotti con la “sua” Esselunga. Il secondo centrato sul “socio” il cui massimo interprete è stato Turiddo Campaini con la “sua” Unicoop Firenze. Tutti gli altri, chi più chi meno, hanno girato intorno a questi modelli con modeste variazioni sul tema. Non è un caso che i due si stimassero proprio perché riconoscevano nell’interlocutore un profilo umano e imprenditoriale ben strutturato, lontanissimo dal proprio ma non intercambiabile. Caprotti non avrebbe mai potuto guidare una Coop e Campaini, mai Esselunga.
Il primo modello, interpretava un fenomeno sociale che ha plasmato le società occidentali, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Inarrestabile e vincente. Il secondo, testimoniava una puntuta “diversità” che cercava ostinatamente di dare gambe ad un’idea alternativa economica e sociale. Sugli scaffali i prodotti erano praticamente gli stessi. Cambiava la forma e la cultura imprenditoriale e manageriale richiesta, il rapporto con i fornitori, il coinvolgimento del consumatore e del lavoratore addetto. Questa diversità alimentava una cultura già forte in alcune aree del Paese e, al di là dell’attività stessa, rappresentava orgogliosamente la dimostrazione che un altro modello economico e sociale fosse possibile anche in questa parte del mondo. Il primo modello non poteva certo essere sconfitto. Il consumismo, il boom economico, la voglia di benessere creavano “consumatori” non necessariamente consapevoli. La distopia ha avuto piano piano ragione sull’utopia. Anche perché il cibo, come tutto il resto, era ed è prodotto per essere venduto. Non solo per essere mangiato. Come ha sempre ricordato Carlo Petrini.
Coop però ha retto il colpo. Non è stata spazzata via. Anzi. Ha difeso la sua diversità con orgoglio. Il modello di crescita infinita dell’intera GDO nei diversi territori lasciava margini laschi a modelli gestionali diversi. Addirittura alcune specificità (rapporti con la politica locale, il ruolo del socio e degli stessi sindacati) hanno giocato per anni a favore del modello cooperativo. Poi la macchina si è in parte inceppata. I vantaggi competitivi del resto della GDO che erano sostanzialmente basati su differenziali di efficienza e dunque di costo si sono via via imposti. La fine del secolo e la prima parte del nuovo, hanno poi sostanzialmente accelerato le contraddizioni e il paradigma di riferimento. Presidio del territorio, servizio al cliente, qualità e convenienza hanno cominciato a richiedere declinazioni e interpretazioni più sofisticate e sempre più simili. E temo che lo sarà sempre di più. Diverse insegne, in difficoltà a mantenere volumi e fatturati hanno spostato parte del rischio impresa scaricandolo sul personale, a volte modificando il rapporto di lavoro, anche adottando contratti di dubbia provenienza, o terziarizzando attività. Coop, pur declinando in alcune aree è sempre riuscita a tenervi testa. Quest’anno il movimento cooperativo festeggia 80 anni. Se sommiamo il giro d’affari delle sette cooperative parliamo di 11,6 miliardi nrl 2o23. non certo bruscolini. Coop Alleanza 3.0 è la più importante con 4,11 miliardi, segue Unicoop Firenze con quasi 3 miliardi, Coop Lombardia con poco più di 1 miliardo e Nova Coop lo stesso. Delle 7 società, solo Coop Centro Italia ha chiuso il 2023 in perdita (-24 milioni). Calano i finanziamenti da soci di oltre l’11%. La recente fusione fra Unicoop Tirreno e Coop Centro Italia punta proprio a recuperare efficienza e dimensione organizzativa.
Il sistema, pur tenendo ancora sui fondamentali (Solidarietà tra soci e sostegno alla Comunità, responsabilità individuale, equità, sono principi che costituiscono il cuore della mutualità cooperativa) sembra manifestare una difficoltà a tenere la rotta nella sua dichiarata diversità. Il “cliente” è sempre meno socio e più infedele, i giovani clienti ma anche i giovani cooperatori sembrano meno attratti da una diversità che a molti di loro pare astratta. Il modello alimentare evolve verso comportamenti più sobri e sani, la demografia propone nuove sfide, qualità e convenienza diventano centrali, i localismi avanzano, i consumi cambiano. Il lavoro si terziarizza, perde centralità, si svaluta e impoverisce ovunque. La concorrenza è sempre più tignosa. Il modello che prevede tutto sotto lo stesso tetto non ha futuro e va ripensato. Il sistema cooperativo, su molti di questi punti era però arrivato molto prima di altri. Il “socio”, se osservato da un altro punto di vista, rappresenta una declinazione evoluta del cliente. Un modello di fidelizzazione ante litteram. E potrebbe essere ulteriormente coinvolto. La critica al consumismo eccessivo è nel DNA della casa. Il rapporto con i fornitori, un vanto, così come quello con i lavoratori che consentirebbe riflessioni condivise sui differenti modelli organizzativi, di coinvolgimento e di partecipazione delle persone. Eppure proprio nel momento cruciale della sua evoluzione sembra non si fidi più fino in fondo della propria diversità. O forse cresce l’attrazione verso un altro campo da gioco dove la partita sembra la stessa ma le regole sono molto diverse.
Lo provano l’agire e i contrasti di visione tra le diverse cooperative, il linguaggio manageriale spesso poco “cooperativo” dei gruppi dirigenti, i mal di pancia dei sindacati, l’adozione di modelli organizzativi e di business sempre meno distintivi. È rimasta la comunicazione esterna a mantenere le distanze. Lo si percepisce nella pubblicità e nelle campagne che continuano a riproporre e a rivendicare la propria diversità. Ma se il modello economico e sociale caratteristico perde di significato la copia che produce è destinata a perdere nel confronto con l’originale. Ed è per questo, a mio parere, il punto sul quale il modello Coop rischia inevitabilmente di declinare in quanto tale.
Un aneddoto significativo e simpatico. Mi hanno raccontato che, diversi anni fa, proprio Campaini, Presidente di una delle più importanti cooperative si sarebbe posto il problema se pagare o meno una parte del bonus ai suoi dirigenti nonostante i risultati economici fossero stati superiori alle aspettative. Nello stupore generale la sua spiegazione è stata semplice. Un dirigente di cooperativa deve saper fare quello che è giusto per i soci. Non deve solo pensare al profitto. Un ragionamento assolutamente incomprensibile in altri contesti. Oggi reggerebbe ancora una presa di posizione così netta sulla propria diversità? E concludo ponendo alcune domande. Su quali elementi portanti la diversità è rivendicata e, ovviamente, agita oggi? Cosa differenzia, oggi, un socio da un cliente? Quale distintività concreta è percepita da chi lavora in Coop? Quali caratteristiche distintive devono avere i manager della cooperazione rispetto a quelli provenienti da una qualsiasi realtà della GDO? E come vengono valorizzate e riconosciute queste caratteristiche? Qual’è l’essenza del patto che la cooperazione propone oggi ad un giovane che vuole inviare il suo CV?
Quando Bernardo Caprotti e Turiddo Campaini duellavano, rispettandosi, il campo da gioco era chiaro. Era un derby tra due culture diverse entrambe però molto brave a fare quel lavoro che Caprotti definiva un “mestiere umile a cui la GDO aveva dato una certa efficienza ed eleganza”. Chi con i sui clienti e chi con i suoi soci. Gli “inciampi” di Esselunga segnalano il tramonto di quella ricercata e austera distintività,ì. È così anche per Coop? Tutto ciò è inevitabile? È il naturale segno dei tempi che rende inutile armeggiare con lo specchietto retrovisore o sta venendo meno la voglia di puntare entrambi a ciò che li ha fatti diventare quelle che sono? Io credo occorra partire da qui.