Sindacati USA e Amazon. Un rapporto complesso…

Il mondo Amazon è stato sempre posto sotto la lente di ingrandimento dei sindacati in ogni Paese. Al di là del fatto acclarato che le multinazionali, spesso per principio, provocano una diffidenza non sempre giustificata, l’azienda di Seattle, per la sua dimensione e per le problematiche che innesca muove interessi e attenzioni particolari. Amazon nel 2024, nel mondo, ha raggiunto 1.521.000 dipendenti tra tempo pieno e part-time. In Europa sfiora i 150.000 e in Italia arriva a 20.000 collaboratori. Anche per questo fa notizia quando in USA in particolare, o in altre parti del mondo emergono, indipendentemente dalla natura del contendere,  problematiche sindacali.

In questi giorni, agli onori della cronaca, arrivano i lavoratori del Philly Whole Foods Market nel centro di Philadelphia, uno dei negozi della catena di proprietà di Amazon, che il 27 gennaio 2025 voteranno  per decidere se aderire alla United Food and Commercial Workers International Union, secondo un avviso pubblicato il 5 dicembre dal National Labour Relations Board. Se i lavoratori scegliessero di aderire  all’UFCW, il punto vendita  di Philadelphia, diventerebbe la prima sede di Whole Foods sindacalizzata negli Stati Uniti. L’UFCW Local 1776 rappresenta i lavoratori dello stato della Pennsylvania per gli United Food and Commercial Workers. La maggior parte dei suoi membri lavora nei supermercati (il numero 1776 si riferisce all’anno in cui la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti fu redatta a Philadelphia).

Nel 2018, a pochi mesi dall’acquisizione da parte di Amazon, un gruppo di lavoratori di Whole Foods aveva inviato un’e-mail a quasi tutti i dipendenti del retailer esortandoli alla sindacalizzazione chiedendo l’istituzione di un comitato “interregionale” per affrontare le lamentele dei lavoratori nei confronti dell’azienda. I membri del personale all’epoca affermavano di non essere soddisfatti dei compensi e benefici, erano preoccupati per i licenziamenti in corso e temevano che questi problemi sarebbero peggiorati sotto la proprietà di Amazon. Non se ne è poi fatto nulla, praticamente  fino ad oggi.

In Amazon, il primo magazzino logistico è stato sindacalizzato nel 2022. Gli impiegati della sede di New York hanno votato a favore  nei 27 anni di storia del gigante dell’e-commerce. Non è stata una vittoria schiacciante, 2.654 voti contro 2.131, ma da quel momento  i circa 8.000 lavoratori del magazzino di Staten Island si sono potuti iscriversi alla prima Amazon Labour Union. Tutto è nato da Chris Smalls, un ex impiegato di Amazon licenziato in tronco a marzo del 2020 per aver organizzato una protesta contro l’assenza di misure anti-Covid nel magazzino di Staten Island. Leggi tutto “Sindacati USA e Amazon. Un rapporto complesso…”

Le difficoltà dei passaggi generazionali nelle aziende (anche) della GDO

Il tema del passaggio generazionale nelle aziende, non solo in quelle delle GDO  riguarda, nel nostro Paese, tre imprese su quattro.  Nei prossimi 20 anni, passeranno di mano, tra generazioni, circa  90 mila miliardi. Un trasferimento di ricchezza che comprenderà non solo patrimoni liquidi ma anche immobili e, soprattutto, partecipazioni in società familiari di diversa struttura e dimensione. Secondo una ricerca del Family Firm Institute nei prossimi 5 anni il ricambio generazionale riguarderà 1 azienda familiare su 5.  Duemilioni di imprese italiane nei prossimi 10 anni. Stiamo quindi parlando di un tema decisamente importante.

Per l’Italia rappresentano un asset strategico decisivo perché siamo il Paese con la più alta concentrazione di imprese familiari a livello europeo. I dati di Aidaf, l’associazione italiana familiy business, ci mostrano anche che le imprese familiari sono tra le più resilienti alla crisi. L’Osservatorio Aub (AIDAF, UniCredit, Bocconi) sostenuto anche da Borsa Italiana, Camera di Commercio di Milano MonzaBrianza Lodi, e Fondazione Angelini)    ha analizzato i dati economici di oltre 11.000 imprese familiari; i dati ne segnalano lo stato di buona salute. Dopo la pandemia sono cresciute in fatturato, redditività e in solidità.  Il tema non evidenzia soltanto un problema economico, di eredità che riguarda solo chi ne è coinvolto, ma anche storico, relazionale, culturale e quindi di legame con i territori di origine.

Imprese presenti in ogni settore, che sono state capaci di crescere grazie ad abilità distintive, flessibilità decisionale, cultura del lavoro, coinvolgimento dei collaboratori, leadership dell’imprenditore, con performance di crescita assolutamente straordinarie. Se analizziamo la personalità degli imprenditori della GDO di successo partiti dalla seconda metà del novecento in quasi tutti troviamo una leadership naturale molto forte, una capacità di osservare e focalizzarsi sui   dettagli, una rapidità decisionale, una predisposizione al rischio, una capacità comunicativa e di coinvolgimento, interna e esterna, un’etica calvinista del lavoro. Ovviamente caratteristiche presenti con pesi diversi nei soggetti presi ad esempio, a seconda del contesto economico e sociale di riferimento. Crescere e lavorare in Lombardia, in Campania o in Sicilia, non è la stessa cosa.

Caratteristiche individuali che non sono facilmente trasmissibili in un passaggio generazionale né spesso funzionali nell’educazione dei figli destinati a subentrare nel business. Delle imprese familiari coinvolte ogni anno in un passaggio generazionale, mediamente solo il 30% circa di esse sopravvive con la seconda generazione, solo il 12% con la terza, ed un esiguo 3% continua ad operare oltre la quarta generazione. Il 66% delle aziende familiari italiane ha un management composto da componenti della famiglia, contro poco più del 30% della media degli altri paesi europei. I top manager sono pochi e difficilmente godono dell’autonomia necessaria. Leggi tutto “Le difficoltà dei passaggi generazionali nelle aziende (anche) della GDO”

Chiusure festive dei Centri Commerciali. Adesso ci riprova la Politica…

Prima o poi doveva succedere che la politica puntasse a riaprire il vaso di Pandora delle aperture festive nel commercio. Un argomento carsico che riemerge di tanto in tanto vuoi dai sindacati vuoi dai territori. Nonostante il tempo trascorso, le liberalizzazioni montiane non sono ancora state digerite. Prima erano i piccoli commercianti a lamentarsi, poi i sindacati di settore, infine alcune associazioni di categoria in cerca di consenso. Il buon senso ha spinto tutti a fare di necessità virtù e l’argomento è stato messo da parte.

Riemerge quando si avvicinano le festività nazionali, religiose o a fine aprile quando l’anniversario della Liberazione  e la Festa del lavoro incombono costringendo a prendere parte al dibattito che poi ritorna puntualmente in “fanteria”. La proposta pre natalizia questa volta arriva da Silvio Giovine deputato di Bassano del Grappa di Fratelli d’Italia. Chiudere categoricamente i Centri Commerciali durante le principali festività (Natale, Santo Stefano, Capodanno, Pasqua, Primo Maggio e Ferragosto). La ratio spiegata a ItaliaOggi “è incidere soprattutto sulla qualità della vita dei lavoratori, migliaia di impiegati che hanno tutto il diritto di poter trascorrere queste giornate di festa con le proprie famiglie”, aggiunge il parlamentare. Ovviamente lanciato il sasso, com’è d’abitudine, per sondare l’umore generale, il deputato aggiunge che si tratta solo di una proposta depositata il 17 dicembre, non  definitiva e dunque che può essere modificata: “Abbiamo già iniziato gli incontri con le associazioni di categoria e l’obiettivo è trovare una sintesi”.

Ad ogni stagione politica qualcuno ci prova a mettere mano al decreto Monti del 2012. Come ho già scritto l’unica festività nazionale esclusa ora (of course) dal parlamentare di Fratelli d’Italia è il 25 aprile. Non credo sia un caso. Personalmente credo che Natale, Capodanno e Primo Maggio rientrino nelle possibilità che anche molti in GDO prenderebbero in considerazione. Già oggi c’è chi lo fa e non succede nulla di sconvolgente. Per questo credo che la posizione interlocutoria di Federdistribuzione e di ANCC COOP che non escludono un possibile confronto sul tema, sia sostanzialmente, apprezzabile. Rifiutare il confronto non è mai una buona scelta. Il rischio che qualcuno ne approfitti per mettere in discussione l’intero impianto delle aperture festive consiglia prudenza.

Quali sono le preoccupazioni dei contrari? Innanzitutto la ovvia concorrenza dell’online. Incentivare gli acquisti dal divano di casa quando i centri commerciali soffrono già una crisi di presenze non è una grande trovata. Chi conosce la funzione sociale dei cosiddetti “non luoghi” sa che oltre ai consumatori attraggono in quei giorni particolari chi è solo, chi non può spendere, chi non sa dove andare. Addirittura chi, in agosto, soffre il caldo. Sarà un’esagerazione, ma tant’è. La loro stessa evoluzione li sta trasformando in centri polivalenti chr puntano all’intrattenimento e ai servizi alla persona con un’offerta molto più varia che in passato. Da qui la posizione netta del Presidente del Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, Roberto Zoia. “L’industria dei centri commerciali genera un impatto, in termini di occupazione, di quasi 750 mila addetti, tra personale diretto e indiretto, che vanno assolutamente tutelati garantendo il lavoro, non diminuendolo. Senza contare che è proprio nei giorni festivi che registriamo il flusso più elevato di presenze, che contribuisce in modo determinante alla sostenibilità economica degli operatori”. Leggi tutto “Chiusure festive dei Centri Commerciali. Adesso ci riprova la Politica…”

Mi sa che è poco “FICO” anche il Gran Tour….

Se non si vuole fare di tutta l’erba un fascio occorre, in premessa,  fare qualche distinguo. L’obiettivo della trasmissione  Report era Oscar Farinetti e, l’humus politico nel quale il personaggio  è cresciuto e che lui stesso ha alimentato. La sua spregiudicatezza imprenditoriale, le sue relazioni, l’indubbia capacità di raccontare e di affascinare, la distanza siderale tra le sue intuizioni  e la loro necessaria messa a terra. Eataly è una di queste geniali intuizioni che nel frattempo, fortunatamente,  ha preso la sua strada. Oggi fa capo a Investindustrial, uno dei principali gruppi di investimento indipendenti in Europa, gestito da un solido gruppo dirigente che ha le idee chiare sul ruolo e sullo sviluppo possibile in diverse parti del mondo.

Un secondo distinguo va fatto sull’operazione FICO, la cosiddetta “Disneyland del cibo” voluta da Farinetti in quel di Bologna con la sua coda attuale “Gran Tour Italia a sua volta collegata  o meno al futuro immobiliare delle aree a nord del cosiddetto Pilastro (una zona periferica della città che si estende a nord est della città) attorno al CAAB – Centro Agro Alimentare di Bologna, su cui dalla fine degli anni Sessanta, e fino si giorni nostri,  si sono concentrate molte ipotesi di sviluppo urbanistico. Investindustrial, il fondo di investimento guidato da Andrea Bonomi, è l’azionista di maggioranza di Eataly, con una partecipazione del 52% nel capitale del gruppo fondato da Oscar Farinetti con l’obiettivo di supportarne la crescita a livello internazionale.  Questo progetto prevede il mantenimento della società in Italia, dove Eataly è nata e una forte crescita in mercati esteri. Ho recentemente visitato lo store di Milano dove il cambiamento è già percepibile e mi riprometto di ritornarci più avanti soprattutto per valutare i progetti e la loro implementazione. Eataly resta una grande intuizione di Farinetti che aveva però bisogno di un vero progetto di sviluppo industriale che, finalmente, sembra esserci.

Detto questo torniamo a Report. Quando Oscar Farinetti ha dichiarato sorridendo all’intervistatore: “6 milioni di visitatori a FICO è stata una sparata. Io le ho sempre sparate grosse” non solo il sindaco di Bologna e i vertici di Coop Alleanza 3.0 con tutti quelli che ci hanno creduto hanno trasecolato. E parliamo di  Cna, Camera di Commercio, Fondazione Carisbo, Ascom-Confcommercio, ecc. Mica la “compagnia dell’ orfanotrofio dei celestini”.  Eppure era chiaro fin dall’inizio FICO non poteva funzionare a Bologna. O, al contrario  ha sottolineato Alberto Forchielli, un imprenditore bolognese appassionato di affari internazionali nonché fondatore di una società di private equity, solo “una città come Bologna, sede della più antica università del mondo, collettivamente prende e celebra una delle decisioni più cretine del mondo”. FICO, è stato un flop come ha ammesso lo stesso Farinetti a Repubblica: “Non conosco nessun imprenditore in Italia che non abbia sbagliato almeno una volta. Lo ammetto, questa è stata una cazzata, gli errori sono stati tutti miei e me ne assumo la responsabilità”. Nonostante goda di ottima stampa grazie al suo circuito amicale che ne esalta le gesta, Oscar Farinetti suscita più antipatie che simpatie.

L’articolo che gli ho dedicato  a suo tempo ha fatto un numero impressionante  di letture sul blog. Ormai parlare male di lui è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Ha questa immagine del “furbacchione” che grazie alle sue amicizie con una parte politica fa l’imprenditore “con i soldi degli altri”. Resta però un aspetto indiscutibile. La sua capacità di guardare lontano. Certo non è sufficiente e il fatto che in ogni sua avventura, prima o poi, deve passare la mano è la dimostrazione plastica dei suoi limiti imprenditoriali. Non ci voleva certo la puntata di Report per raccontare che Fico era, per dirla con Forchielli: “un’operazione che ha portato molti a celebrarne l’apertura senza fare un minimo di analisi elementare del poi”. In altri termini sempre Forchielli, parafrasando Paolo Villaggio, l’ha definita “una cagata pazzesca”.

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La Grande Distribuzione nel 2025. Cosa c’è dietro l’angolo…

All’inizio del nuovo anno, oltre agli oroscopi, si guardano con un certo interesse sondaggi e previsioni sulle aspettative delle persone. Per ciò che riguarda le materie di mio interesse ne sottolineo due perché registrano il sentiment del Paese sui consumi. Innanzitutto  il tradizionale sondaggio globale di fine anno condotto in 37 Paesi da Gallup International, con BVA Doxa come partner per l’Italia (1.104 interviste personali a un campione rappresentativo della popolazione adulta) che mostra un contrasto evidente tra noi, dove il clima è più prudente, e il resto del mondo dove prevale un maggiore ottimismo. Solo il 17% degli italiani pensa che il 2025 sarà migliore (il dato sale al 23% tra gli under 35). Il 24% prevede un peggioramento, mentre il 57% ritiene che sarà simile al 2024. Sulle prospettive economiche solo il 10% degli italiani si aspetta prosperità economica (15% al Sud). Il 35% teme un anno di difficoltà economiche. Il 52% non prevede cambiamenti significativi rispetto al 2024.

L’Ipsos Predictions Survey 2025 sottolinea come il 79% degli italiani  ritiene che i prezzi aumenteranno più rapidamente dei redditi e il 64% prevede un’inflazione più alta nel 2025. Questo al di là della condivisione o meno  delle previsioni  significa attenzione e cautela nella spesa quotidiana. È però la prima volta nell’ultimo quinquennio che non vediamo prevalere, più o meno nettamente, l’ottimismo nel medio periodo. Quello che ci attende sarà dunque un anno opaco o brillante per la GDO? A mio parere non dobbiamo farci distrarre.  Il 2025 dipenderà dalla capacità e dalla visione degli  interpreti più che dal contesto stesso. Quest’ultimo vale per tutti. I problemi strutturali, i rischi geopolitici e tensioni  c’erano prima e ci saranno anche nel 2025.

Personalmente mi aspetto alcune novità. L’anno si aprirà con Amazon che chiude l’operazione Cortilia? Credo proprio di si e ci ritorneremo, con calma,  a tempo debito. Conad,  è stata chiara. Nel 2025 scoppierà la pace tra le  5 cooperative, e se matureranno le condizioni, chiuderanno alcune operazioni importanti ma minori (rispetto ad Auchan). Sembra prendano più coraggio su Milano.  Ci sono però ancora troppe differenze tra i punti vendita pur con evidenti segnali di miglioramento su piazza. Vedremo.

Mi aspetto qualcosa di più convincente da parte di Esselunga dopo i problemi del 2024. Stiamo parlando di un’azienda importante che non può accontentarsi di mantenere la rotta. Anche perché, la persistenza di alcune incertezze nella gestione della squadra, continuano  a sollevare perplessità. Per Carrefour  Italia, il 2025 sarà un anno chiave.  Nel 2026 scade Alexandre Bompard alla guida della realtà francese in contemporanea con il piano “Carrefour 2026” che, sulla carta, dovrebbe  consentire al Gruppo di aumentare le vendite e di risparmiare 4 miliardi di euro sui quattro anni. In questi anni il Gruppo ha tenuto il “braccino corto” con l’Italia che se l’è dovuta cavare da sola. Sarà importante capire l’orientamento degli azionisti sul nostro Paese dopo il  grande lavoro di riorganizzazione di Cristophe Rabatel.
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REWE in Germania prova a mettere il supermercato in tasca…

PAYBACK, è un Programma fedeltà multipartner  nato in Germania nel 2000, acquisito nel 2011 dal Gruppo American Express che ne ha accelerato il percorso di internazionalizzazione. Oggi è presente in Germania, Italia, Polonia, India, Messico ed è in fase di lancio in molti altri paesi. Il programma è stato lanciato in Italia a gennaio 2014 e dopo 1 anno conta già più di 7 milioni di clienti attivi. È anche un’efficace piattaforma di marketing che offre alle aziende che ne fanno parte la possibilità di raggiungere la propria base clienti e quella degli altri partner con offerte personalizzate sia online che attraverso i canali tradizionali.

La decisione di Rewe di separarsi da Payback e di lanciare il proprio programma di fidelizzazione nel 2025 nasce da qui. Affidandosi a un fornitore esterno come Payback, si rischia di perdere un vantaggio strategico fondamentale: il controllo sulle informazioni dei propri consumatori. In un’epoca in cui i dati guidano il processo decisionale, ciò potrebbe ostacolare la capacità di personalizzare le offerte, ottimizzare il marketing e approfondire le relazioni dirette con i clienti. La mossa di Rewe riflette quindi una tendenza più ampia del settore, in cui numerose  aziende danno la priorità alla proprietà dei propri dati per ottenere un vantaggio competitivo.

Perdere Rewe come partner è un duro colpo per Payback. Secondo “Lebensmittel Zeitung”, Rewe e Penny hanno emesso insieme 17 milioni delle circa 31 milioni di carte Payback in Germania. In Germania, Payback ha raggiunto una penetrazione di circa il 50 percento. Payback è e resta  la più grande piattaforma di fidelizzazione della Germania con 30 milioni di utenti. Rewe collaborava con Payback nel settore dei supermercati dal 2014 e il discount Penny, che appartiene al gruppo Rewe, si è unito a loro nel 2018. Era chiaro già da tempo come Rewe si stesse preparando a questo cambiamento. Ognuno di noi ha in media 7 carte fedeltà nel portafoglio, il che significa che il portafoglio è già strapieno. È quindi estremamente difficile per le aziende le cui carte fedeltà non sono ancora nei portafogli dei loro clienti depositare lì le proprie. Tuttavia, la digitalizzazione crea spazio e consente alle aziende l’opportunità di offrire il proprio programma fedeltà attraverso altri canali.

È indubbio che, la Germania in generale e il Gruppo Rewe in particolare, sono all’avanguardia in Europa sulla digitalizzazione e sull’intelligenza artificiale. Il Gruppo di Colonia ha capito che le innovazioni digitali rappresentano  la chiave per reagire ai cambiamenti del mercato. L’obiettivo è quello di offrire soluzioni personalizzate costruite sulle esigenze individuali dei clienti come ha ribadito Lionel Souque CEO di Rewe: “I clienti non acquistano più solo prodotti, ma si aspettano soluzioni che riflettano il loro stile di vita individuale. Il loro comportamento è in continua evoluzione e le loro esigenze diventano sempre più specifiche. In questo contesto, in futuro saranno a favore solo i programmi di benefit che fanno offerte veramente su misura. E con i quali è possibile ottenere risparmi visibili e percepibili, come con i nostri programmi”.

Questa mossa garantisce la piena proprietà dei dati dei clienti e consente a Rewe di sviluppare un sistema tarato sulle loro esigenze. Nei prossimi mesi l’app diventerà probabilmente il fulcro centrale di tutte le misure che possono essere utilizzate per attirare e fidelizzare i clienti. “Rewe Bonus” si inserisce perfettamente in questa strategia. Non è chiaro se, dopo aver creato il proprio ecosistema di app, Rewe proporrà o meno  a medio termine anche in un abbonamento a pagamento, che potrebbe essere collegato a ulteriori vantaggi per gli abbonati. “Secondo l’analisi degli scontrini le app dei rivenditori sono ancora poco utilizzate”, titola il “Lebensmittel Zeitung”, e probabilmente ciò è dovuto soprattutto “a vantaggi troppo poco attraenti”, spiega il responsabile dell’app comparatore di prezzi. Presso Rewe, ad esempio, i clienti utilizzerebbero l’app alla cassa solo per il 19,5% dei loro acquisti. È vero però che da tempo Rewe promuove massicciamente i vantaggi della sua app su tutti i canali disponibili e ne ha fatto il fulcro di tutte le attività pubblicitarie. Da un lato ciò è dovuto al fatto che, dopo la dismissione del volantino cartaceo l’app, per Rewe, svolge un ruolo centrale nel far conoscere ai clienti le offerte settimanali. Allo stesso tempo Rewe propone settimanalmente coupon digitali con i quali è possibile acquistare a prezzi più convenienti singoli articoli di marca o intere linee di marca propria.

Il Gruppo REWE ha realizzato nel 2023 un fatturato totale di oltre 92 miliardi di euro e impiega circa 390.000 persone in 21 paesi europei. Oltre a REWE e Nahkauf, il gruppo REWE comprende anche altri marchi forti, come la catena di negozi di ferramenta toom, il discount Penny e le aziende turistiche DERTOUR, ITS e Meier’s Weltreisen.

Con REWE Bonus, i clienti del Gruppo possono ora raccogliere crediti in euro nei negozi REWE, nel negozio online REWE e su Nahkauf  (un mercato di quartiere che sta godendo di una crescente popolarità  nelle periferie delle città e nelle aree rurali) che poi possono riscattare nei loro prossimi acquisti – un meccanismo di raccolta unico nel commercio alimentare tedesco. Questo nuovo meccanismo di raccolta, senza conversione in punti, è finora unico nel settore tedesco del commercio al dettaglio di generi alimentari. Il credito può essere riscattato parzialmente o completamente semplicemente scansionandolo alla cassa. Inoltre, restano a disposizione di tutti i clienti più di 300 offerte settimanali. In sintesi il cliente partecipa facendo  acquisti, risparmia euro riceve proposte su misura che soddisfano le sue esigenze negli oltre 3.800 negozi REWE a livello nazionale e nel negozio online REWE. Attraverso diverse componenti del programma, il credito bonus raccolto aumenta direttamente in euro invece che in punti.

Anche la rivale Lidl ha recentemente sperimentato ulteriori sconti istantanei per i membri del suo programma fedeltà Lidl Plus, in cui si stanno testando anche dei cambiamenti: in Svizzera, i clienti Lidl Plus possono già da tempo accumulare punti, che possono essere convertiti in sconti o articoli gratuiti. Sullo stesso principio si basa un programma digitale che Aldi Nord sta testando nei Paesi Bassi. Nel frattempo sarà interessante vedere quanto queste ripartenze presso i retailer di tutta la gamma possano effettivamente incidere sullo sviluppo delle vendite: alcuni tra gli affezionati fan di Payback hanno annunciato online di voler spostare in futuro i loro acquisti da Rewe a Edeka. Se ciò avverrà in misura significativa o meno lo vedremo. In ogni caso, toccherà  a Rewe dimostrare che la decisione di implementare un programma di fidelizzazione dei clienti completamente integrato è stata quella giusta.

Mercadona. Alle radici del suo successo…

Ogni Paese ha la sua cultura. Difficile esportarla. È più facile esportare un modello commerciale adattandolo alla nuova realtà. È stato così per gli ipermercati, per i supermercati e per i discount. Alcune aziende multinazionali esportano metodologie, strumenti, modelli organizzativi conditi dai valori propri della casa madre. Il prof. Zamagni l’ha chiamato “totalismo aziendale”. È in poche parole, l’azienda che basta a sé stessa. Che si propone al contesto nella sua specificità.  E che al proprio interno si muove seguendo un canovaccio simile ovunque nel mondo. Il suo prodotto migliore è l’azienda “glocal”. Quella che riesce a pensare globalmente ma sa anche agire localmente.

Nella GDO, le multinazionali, pur con qualche limite dovuto più alla scelta dei top manager che alle aziende in sé, funzionano così. Non tutte le aziende che vanno all’estero sono multinazionali. Alcune di “accontentano” di presidiare mercati vicini. Soprattutto quelle che non esportano solo prodotti o servizi ma hanno la necessità di esportare la cultura che ne rappresenta la chiave del successo. Mercadona è una di queste. Purtroppo da noi ci si limita a guardare i numeri o l’approccio commerciale mettendo in secondo piano tutto il resto. Il punto è che è il “resto” a renderla un’azienda unica nel suo genere. Proverò a spiegarne le ragioni.

Nel 2023, Mercadona ha aumentato le sue vendite consolidate del 15%, a 35.527 milioni di euro. Di questo totale, 34.124 milioni corrispondevano alle attività in Spagna e i restanti 1.403 milioni a quelle del Portogallo, dove Mercadona conta 49 negozi sui 1.681 totali che compongono la rete di supermercati dell’azienda alla fine del 2023. I risultati  sotto tutti i punti di vista, sono stati ottimi. A dicembre 2023 era stato firmato con i sindacati il contratto aziendale che prevedeva un aumento dello stipendio base legato al CPI, fino al 2,5%, e, se superiore, tale aumento sarà completato fino a un massimo del 6%, legato agli obiettivi di profitto dell’azienda con scadenza nel 2028. L’obiettivo era l’adeguamento dei salari legato all’inflazione. La strategia salariale di Mercadona è quella di collegare la remunerazione alle prestazioni e al contesto economico. L’azienda, pioniera nel settore, continua a portare avanti le proprie politiche di applicazione del riposo settimanale, estendendo ora il riposo per almeno 8 fine settimana all’anno ai lavoratori della logistica.

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BUONE FESTE A TUTTI I LETTORI DEL BLOG….‍

 

Non cerco chi la pensa come me ma chi, come me, pensa

 

Alla fine di quest’anno  il blog www.mariosassi.it compie 10 anni. 1125 articoli pubblicati sul lavoro, la Grande Distribuzione e le Organizzazioni di Rappresentanza. È arrivato il momento di rinfrescarne la forma. Nel 2025 avrà un veste nuova. La sostanza non cambierà. Continuerò a proporre il mio punto di vista o ciò che reputo interessante  per il piacere di scrivere e per restituire una piccola parte delle soddisfazioni  che ho avuto sul piano professionale. Le mie sono semplici opinioni ricavate da ciò che osservo o ciò che leggo in giro per il mondo. Spesso ricavate da confronti con persone che stimo e che ho incontrato nel mio lungo percorso professionale. Alcune di queste persone le ho viste crescere e raggiungere traguardi professionali importanti.

Ho assunto centinaia  di giovani, gestito complicate relazioni sindacali e ristrutturazioni aziendali con centinaia di esuberi. Ho avuto l’opportunità di partecipare alla negoziazione e alla stesura di un CCNL dell’industria alimentare e aver gestito in prima persona un CCNL del terziario e uno dei dirigenti, sempre del terziario. Se in dieci anni di presenza sui social nessuno mi ha mai attaccato sul piano personale per come ho lavorato vuole dire che, nonostante gli errori che sicuramente avrò compiuto, non ero poi così male come professionista delle risorse umane.

Alla base del’idea del blog c’è la constatazione maturata in tanti anni che i manager in GDO, da CEO in giù, leggono poco. La maggioranza di loro  vive l’azienda con un rapporto totalizzante, quasi ossessivo e questo li porta a concentrarsi su ciò che li riguarda e fare, oltretutto, poca formazione manageriale. Basta osservare i dati. Al CFMT (Centro Formazione Manager del Terziario)  dove ho passato qualche anno come Direttore Generale ho potuto constatare che nella GDO i manager fanno molta meno formazione rispetto ad altri comparti. Filtrano tutto ciò che vedono o ascoltano attraverso la loro esperienza e con il loro punto di vista. Leggono le riviste di settore soprattutto se parlano bene di loro. E, come i calciatori il lunedì, vogliono vedere solo pagelle con i voti alti. Molti sono veramente bravi. A me piace indagare e proporre persone, idee e progetti. Accendere i riflettori su fatti più o meno noti offrendo un punto di vista, spero, originale.

“Persone oltre alle Aziende” mi verrebbe da dire. Ecco. Il blog l’ho piazzato lì. Progetti, idee, cose buone dal mondo per chi è interessato e ha poco tempo o poca voglia di cercare “cose buone dal mondo”. L’imprenditore con l’occhio sveglio, il figlio che non ne può più del padre asfissiante, il giovane manager entusiasta del suo lavoro, donne e uomini in giro per il pianeta che propongono qualcosa che vale la pena condividere. Insomma gente che è stufa del novecento, dei riti, dei soliti personaggi e dei vecchi miti  che hanno forgiato il comparto e che vuole provare a guardare avanti. Leggi tutto “BUONE FESTE A TUTTI I LETTORI DEL BLOG….‍”

Conad al calcio preferisce il ciclismo. Adesso però le cooperative devono pedalare insieme…

Il 2024 si chiude con un sostanziale pareggio. Selex si ferma a 21,1 miliardi E Conad pareggia il dato. Dal 2025 spero si cambi finalmente pallottoliere. Anche perché c’è in corsa un’altra centrale (Végé) che “minaccia” di raggiungere  i 20 mdi, però  fino al 2030 dovremmo stare tranquilli. Altri osservatori hanno addirittura estromesso dal podio sia Selex che la stessa Conad. Il rischio è che, la ricerca della purezza estrema del profilo aziendale da considerare, interessi solo chi ama “ingessare le gambe alle formiche”. A chi fa la spesa, fortunatamente, interessa il giusto.

Devo dire che Francesco Avanzini, Direttore Generale Conad, ha cercato di spiegare bene la loro specificità. A mio parere c’è riuscito. Conad è, di fatto, l’azienda leader della GDO. Lo è per la sua diffusione sul territorio nazionale, per l’insegna, per la notorietà del brand, per come è percepita dal Sistema politico e istituzionale.  Il consorzio ha oltre 3300 negozi ed è composto da cinque gruppi cooperativi: Conad Centro Nord,  Conad Nord Ovest, Commercianti Indipendenti Associati, Conad Adriatico e Pac2000A. Complessivamente le cooperative associano 2.167 dettaglianti. A queste occorre aggiungere la cooperativa DAO (Dettaglianti Alimentari Organizzati) che è la cooperativa trentina associata a CIA che opera con l’insegna Conad in tutto il Trentino Alto-Adige e nelle province di Verona, Vicenza, Belluno e Brescia e che vanta 130 soci. Il 2024 per il consorzio si chiuderà con un aumento del 4,5% sull’anno precedente e con una quota di mercato al 15% sul totale Italia.

“Conad si conferma la più grande impresa del commercio italiano, la sola presente con un’unica insegna in tutte le regioni d’Italia, con tutti i principali indicatori economici in crescita rispetto all’esercizio 2023” ha dichiarato Mauro Lusetti, Presidente di Conad. “Il nostro ruolo nell’economia reale è fondamentale: difendiamo il potere d’acquisto dei clienti e delle famiglie, motore della società e delle Comunità sul territorio”.

Il 2024 ha visto anche l’ulteriore crescita della MDD (Marca del Distributore) Conad, con un fatturato a 6,3 miliardi di euro (+4,7% a valore) e una quota sul totale delle vendite al 33,7% (+0,5 punti) nel canale ‘supermercati’. Gli investimenti sulla marca commerciale si sono concentrati sui prodotti di base, sulla valorizzazione delle marche premium e sul rilancio di Piacersi Conad. “Da qui al 2030 prevediamo una crescita contenuta del mercato GDO, unita a una forte pressione sui margini, dovuta alla riduzione del potere d’acquisto e alla crescita del discount. L’arena competitiva rimarrà affollata, con la crescita degli specialisti di valore e di convenienza, canali nei quali Conad dovrà incrementare la propria presenza” ha commentato Francesco Avanzini. “Per questo, avranno un ruolo ancora più fondamentale gli investimenti in digitalizzazione e sostenibilità, così come lo sviluppo di nuove linee di business nei servizi ai clienti, che compenseranno la minore crescita attesa dei canali tradizionali”. Leggi tutto “Conad al calcio preferisce il ciclismo. Adesso però le cooperative devono pedalare insieme…”

A Cesare, ciò che è di Cesare. Lo spot di Esselunga e Banco Alimentare

Nel 2024, il numero di famiglie in povertà assoluta è aumentato rispetto agli anni precedenti, raggiungendo circa 2,2 milioni, che corrispondono a circa 6,2 milioni di individui, pari al 10,3% della popolazione. Questi dati mostrano come la povertà assoluta sia in crescita. Le differenze geografiche sono sempre più accentuate. Al Nord Italia, la povertà assoluta incide sul 7,8% delle famiglie, mentre nel Sud e nelle Isole raggiunge il 13,8%, segno di una disparità economica ancora marcata tra le regioni del Paese. La povertà relativa, che misura le famiglie con un reddito inferiore alla media nazionale, ha raggiunto il 13% delle famiglie italiane. C’è quindi un merito, da sottolineare a prescindere, nei confronti di  tutte quelle  iniziative che consentono, come  lo spot di Esselunga  di portare il tema all’attenzione del grande pubblico.

Tutto nasce nel 1989 grazie all’incontro tra Danilo Fossati, fondatore della Star, e Monsignor Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione. L’idea del Banco Alimentare nel sogno di Don Giussani era che “potesse nascere un grande gesto educativo alla carità per milioni di italiani, qualcosa che potesse costituire una sorta di “fondo comune degli italiani”, in favore dei più bisognosi”. Eppure all’epoca, nel Banco, erano coinvolte cinque o sei persone, e una vera e propria attività organizzata non era ancora nata. Una decina di anni dopo, di fronte all’imponenza della mobilitazione popolare e delle donazioni alimentari ricevute grazie alla Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, Giussani dirà che finalmente è nato “il fondo comune degli italiani”».

La Colletta è il modo con cui la Fondazione aderisce alla Giornata Mondiale dei Poveri istituita da Papa Francesco. Il senso è “ricordare a noi stessi, ai volontari che si adoperano per renderla possibile, e quindi a tutti i nostri concittadini, che solo la gratuità, la solidarietà e il dono rendono realmente umana la convivenza civile e vincono l’indifferenza, causa vera di tante ingiustizie». E sono proprio le tradizionali “dieci righe” che si leggono prima del turno al supermercato: «I poveri acquistano speranza vera quando riconoscono nel nostro sacrificio un atto di amore gratuito […] Certo, i poveri si avvicinano a noi anche perché stiamo distribuendo loro il cibo, ma ciò di cui hanno veramente bisogno va oltre il piatto caldo o il panino che offriamo. I poveri hanno bisogno delle nostre mani per essere risollevati, dei nostri cuori per sentire di nuovo il calore dell’affetto, della nostra presenza per superare la solitudine. Hanno bisogno di amore, semplicemente. […] i poveri non sono numeri a cui appellarsi per vantare opere e progetti. I poveri sono persone a cui andare incontro». Perciò andiamo incontro a chi è più povero impegnandoci per «rafforzare in tanti la volontà di collaborare fattivamente affinché nessuno si senta privo della vicinanza e della solidarietà».

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