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Mi piace osservare la realtà partendo dalle persone. Non mi interessano titoli o incarichi. Manager ad ogni livello, sindacalisti, professionisti,  uomini di associazione, in fondo sono loro i protagonisti di  frenate e accelerazioni nel contesto in cui operano. Piccolo o grande che sia. Lo interpretano e lo modellano con le loro capacità e le loro intuizioni. Mi piace vederli in azione. Proporli dal mio criticabilissimo punto di vista. Marco Bentivogli oggi fa politica e coordina Base Italia, un tentativo di stimolare trasversalmente la politica. L’analisi che propone del contesto è condivisibile: “La crisi che il nostro paese sta attraversando non è solo economica: è anche civile, sociale e morale. La stagnazione della produttività, che le statistiche ben documentano, va di pari passo con un declino più generale del Paese, che vediamo nella demografia, nel capitale umano e sociale, nella qualità delle classi dirigenti. La risposta a questa tendenza al regresso deve nascere nella società e dall’opinione pubblica attraverso un lavoro culturale, nel senso più alto e ampio del termine”. Difficile non concordare.

Marco è anche un esperto di politiche di innovazione e lavoro. È stato Segretario Generale della Federazione Italiana Metalmeccanici Cisl dal 2014 al 2020. Dal 2019 è componente della Commissione sull’intelligenza artificiale presso il Ministero dello Sviluppo e del Gruppo di Lavoro sull’intelligenza artificiale della Pontificia Accademia per la Vita presso la Santa Sede. Nel 2020 si è attivato per la costruzione di InnovAction, rete di innovazione  tecnologica stile Fraunhofer tra Cefriel, FBK, Deti e Links. Collabora con numerosi quotidiani e riviste specializzate, tra cui Il Foglio e La Repubblica. Nel 2023 ha pubblicato “Licenziate i Padroni” uno stimolo a riflettere sulla supposta modernità di una certa pseudo cultura aziendale che di moderno ha solo l’etichetta. Ma non è questa la storia che voglio raccontare. Oggi, per chi è interessato alle vicende sindacali, salgo per qualche minuto sulla macchina del tempo…

Considero Marco una persona per bene e un amico  pur di un’altra generazione. La mia è più in sintonia  con quella di suo padre: Franco Bentivogli. Un dirigente sindacale  che ha guidato i metalmeccanici della CISL per molti anni. I Bentivogli stavano al sindacato e alla CISL come i Maldini stavano al calcio e al Milan. Più fortunato il padre perché è stato un protagonista  di primo piano quando il sindacato cresceva, creava amicizie vere e disinteressate anche nei gruppi dirigenti e portava risultati tangibili all’insieme dei lavoratori, per quell’epoca. Insomma un contesto difficile ma un clima interno splendido per chi ha avuto la fortuna di viverlo in prima persona. Quel sindacato, che ha avuto in Pierre Carniti il suo massimo  esponente, aveva prodotto, fin da subito, due varianti.

Una, praticamente contemporanea  alla sua leadership, movimentista e radicale. Interpretata da Piergiorgio Tiboni e dalla FIM CISL di Milano, era riuscita a creare intorno a sé un vero hub di elaborazione sociale e culturale  alternativa in città, attraendo verso di sé, associazioni di base della diocesi,  intellettuali e artisti, avvocati del lavoro, parte della stessa Curia milanese fino a Radio Popolare anche attraverso tre riviste, Lavoro 80, Azimut e Reset che, insieme alle numerose iniziative, contribuivano ad  animare il dibattito sindacale. Di fatto, sempre più minoranza, in perenne polemica   con  il modello che si stava affermando nella CISL e nella stessa FIM. Esperienza conclusa nel 1991 quando la Fim CISL nazionale decise di normalizzare la struttura  e Tiboni e i suoi furono  licenziati. Da lì nacque la CUB un’organizzazione destinata a lasciare un segno nella galassia del sindacalismo di base alternativo a quello  confederale, proprio per le sue origini. Senza più riuscire, però,  a riproporsi come hub sociale riconosciuto. Quel vuoto poi non è riuscito a colmarlo nessuna organizzazione  segnalando l’inizio di una deriva, consolidatasi negli anni successivi, che ha visto l’intero sindacato confederale  perdere i rapporti con gli intellettuali, i movimenti e l’intera società civile. 

L’altra variante del “carnitismo” fu quella orgogliosamente riformista. Fiera avversaria,  di quella movimentista. Due facce, però, della stessa medaglia. Molti sindacalisti dell’epoca  interpretarono egregiamente questa seconda anima maggioritaria  provando a valorizzare a loro volta il pensiero del leader che aveva lasciato la CISL nel 1985. Le categorie industriali ne furono depositarie per lunghi anni traducendo nella contrattazione nazionale e aziendale i contenuti più innovativi. Oggi quell’area sociale e culturale ha esaurito in gran parte la sua influenza sulla Cisl. Ha recentemente dato vita alla Fondazione Pierre Carniti con alla presidenza Roberto Benaglia, un amico e  un altro ex sindacalista con una lunga storia nella CISL e nella FIM insieme a numerosi ex dirigenti sindacali  dell’epoca carnitiana.  Resta il fatto che, sul piano della leadership sindacale,  quel patrimonio umano e organizzativo pur alimentato e rivendicato da molti, non venne, di fatto, ereditato da nessuno. Almeno fino all’entrata in campo del giovane Marco Bentivogli.

Da fuori mi ha dato subito l’impressione di una novità significativa in un’area sindacale decisamente povero di figure di spicco. Nella CISL si erano nel frattempo affermate altre culture più vicine all’origine di quel sindacato con caratteristiche più gestionali, rassegnate più ad una convivenza forzata sul piano dell’unità sindacale che ad un suo rilancio. Anche per questo, fuori dai metalmeccanici, era tutto un “si però…” nei suoi confronti. Un fastidio per un protagonismo militante che pretendeva coerenza, impegno, studio, visibilità e quindi una dose di rischio personale poco rassicurante. Insomma, agli avversari, si stavano sommando gli indifferenti e i pavidi. Una miscela esplosiva in ogni contesto. L’ho capito al primo invito ad un convegno, quando sindacalisti molto meno dotati, si sono messi di traverso. Non volevano rubasse loro la scena. Non era difficile intuire che altre dinamiche negative interne stavano crescendo e si stavano consolidando. Cosa difficile da accettare per un sindacalista intransigente e con un carattere non facile come quello dell’allora  giovane Marco. 

Pur non frequentandolo, essendo di un comparto industriale,  ho cercato di coglierne  la particolarità umana e professionale. Nel suo modo di gestire il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici di allora  con Federmeccanica, presieduta dal vulcanico e innovativo imprenditore reggiano  Fabio Storchi. Dal rapporto  umano, più che politico, con Maurizio Landini (FIOM CGIL) e Rocco Palombella (UILM). Dall’aver inteso e praticato l’opportunità di un dialogo di prospettiva con Sergio Marchionne sul futuro dell’auto e dall’aver capito che l’unità sindacale avrebbe dovuto essere una competizione sulla qualità delle proposte reciproche  non sulle furbizie tattiche di un fatuo  posizionamento politico. E ultimo, ma non meno importante, che il sindacato confederale solo unitariamente avrebbe potuto avere un ruolo in una società sempre più polarizzata e in grande cambiamento. Mi ha ricordato quel profilo di sindacalisti che avevo incontrato e stimato da giovanissimo e che avevano più di altri compreso il contesto economico e sociale come Manghi, Antoniazzi, Bentivogli padre, Tiboni, Torri, Tridente, per citare i più noti, a chi è dell’ambiente.

Dalla fine di  questa vicenda ho tratto un’amara conclusione. Come in tutte le organizzazioni, purtroppo,  il “talento” se non si afferma definitivamente si trasforma in un handicap. I mediocri lo osteggiano, i burocrati si vaccinano per evitare  la contaminazione, gli errori compiuti vengono amplificati ad arte. Le organizzazioni di rappresentanza, per loro natura, non sono scalabili e quindi tendono a riprodursi in fotocopia. E le fotocopie difficilmente escono migliori dell’originale. Non è solo un problema di leadership. È l’intero corpaccione che si mette sulla difensiva. Anche chi pensa in buona fede al cambiamento si ritrae preoccupato dalle conseguenze. Vince l’immobilismo. Questo non significa che all’interno delle organizzazioni di rappresentanza  non vi sia qualità e impegno. Anzi. Significa però che i migliori  si costringono a giocare solo nel proprio ruolo, lontano dai riflettori. In questo modo chi tira le fila ha buon gioco. E vince sempre. E così ci perdono un po’  tutti. In questo caso, innanzitutto la CISL che per ottenere la sua vittoria di Pirro ha sacrificato un ottimo dirigente.

Personalmente lo avrei visto bene al posto di Furlan o di Sbarra in questa fase di cambiamento del lavoro pur non avendo assolutamente nulla da dire su Fumarola che non conosco personalmente e che magari farà benissimo. Ma tant’è. L’ho già scritto in tempi non sospetti. Per l’intero sindacato perdere dirigenti come Vincenzo Colla per la CGIL o Marco Bentivogli per la CISL, per citare i più noti, sono errori da matita blu. Richiamarli con tante scuse sarebbe prova di intelligenza e di lungimiranza politica. Ovviamente non lo credo possibile. Nel caso di Bentivogli  c’è però un “dopo” che non mi convince. Quando un top manager lascia l’azienda con un accordo, tutto finisce lì. Con tutto il rispetto che si deve alla persona  mi vien da dire che se Sbarra può fare legittimamente il sottosegretario, mi immagino che Bentivogli in questi anni avrebbe potuto fare anche altro. Però non l’ha fatto. 

A me dà l’impressione che nei suoi confronti sia stata predisposta  una sorta di  conventio ad excludendum per impedirgli di rientrare in gioco al livello che merita. Se fosse veramente così costituirebbe, a mio parere, la cifra del valore delle persone che hanno concepito e messo a terra una tale scorrettezza personale ma anche un danno collaterale inutile. 

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