Carrefour. Come presidiare un mercato difficile come quello italiano…

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Purtroppo c’è sempre il rischio di guardare il dito anziché la luna quando si parla di multinazionali o di grandi imprese. Soprattutto nella GDO dove le nuove sfide indotte dalla concorrenza planetaria dei giganti della rete e della logistica spingono sempre più alle concentrazioni necessarie per liberare risorse importanti per competere.

Sotto questo punto di vista ci sono diversi modi per giudicare un’insegna della GDO. Si può partire dal punto vendita, dai prodotti, dalle promozioni o dalla qualità del servizio. Le famose tre C (contenuto, convenienza, comunicazione). Dalla sua capacità di attrarre o di perdere clienti. Spesso i manager o gli osservatori di cultura commerciale si fermano lì.

La fase della crescita continua nei diversi territori ha prodotto una cultura sostanzialmente con queste caratteristiche unita dalla capacità  di mettere insieme una o più insegne in una centrale sfruttando la massa critica nei confronti dei fornitori. Nel contesto competitivo di oggi così ci si gioca qualche punto percentuale in più o in meno. Obiettivo di per sé interessante  per aziende che competono in un mercato locale. Importante ma non  sufficiente per chi ha un diverso scenario di riferimento.

Se guardiamo al futuro sarà sempre più  la capacità di crescere e di generare le risorse necessarie per competere la chiave del successo di un’impresa. Su Carrefour bisogna quindi alzare lo sguardo. Il problema vero sta in Francia, nel quartier generale,  il resto segue. In un mercato della grande distribuzione sempre più competitivo, dove in Francia Leclerc è leader, Alexandre Bompard, CEO di Carrefour, da poco riconfermato, ha una missione ben più sfidante  che riuscire a rimettere in linea i conti della multinazionale a livello globale.

Realizzata l’uscita di Bernard Arnault che lo aveva ingaggiato, tra l’altro, proprio per consentirgli la ritirata  da un investimento che non c’entrava nulla con le sue strategie globali, la missione era ed è quella di trovare una partnership importante che consenta a Carrefour di crescere per competere a livello globale sui terreni vecchi e nuovi.

La canadese Couche Tard era l’interlocutore ideale per mettere il turbo. L’intervento a gamba tesa   del Governo francese ha bloccato, per il momento, l’operazione ma ha portato allo scoperto una esigenza imprescindibile. Le concentrazioni saranno sempre più fondamentali per affrontare la concorrenza dei giganti della rete. Se togliamo Walmart (basta vedere come si sta muovendo) e pochi altri nessuno è in grado di affrontare nei prossimi decenni, e con i propri mezzi, gli ecosistemi planetari che dal presidio della rete globale e della logistica operano trasversalmente nei settori definendo nuove regole del gioco inducendo nuovi comportamenti nei consumatori. Non è un caso che si parli anche di possibile fusione per le due ALDI in Germania. E siamo solo alla inizio.

Le sfide che attendono il retail non consentono di guardare il mercato con lo specchietto retrovisore. Ovviamente queste operazioni non sono alla portata di tutti. E non è nemmeno obbligatorio costruirle o parteciparvi se il proprio mercato di riferimento non è tarato sulla competizione mondiale o almeno nazionale. E comunque se l’orizzonte temporale  di riferimento sono i prossimi 3/5 anni dove, convegni a parte, non credo succederà granché in Italia. È il mio non è pessimismo perché basta osservare le nuove aperture della GDO e i progetti in fase avanzata di realizzazione.

Alexandre Bompard punta in direzione del cambiamento perché pensa che Carrefour può e deve competere a quei livelli. Per questo, anche se i due brand sono stati in silenzio dopo le notizie uscite sulla stampa francese, la sola idea di una possibile fusione con Auchan ha causato un  contraccolpo  in borsa per Carrefour. E un rilevante  passaggio di azioni.

L’azienda transalpina credo non abbia tempo per attardarsi in una riorganizzazione in Francia e nel mondo costosa e dagli esiti imprevedibili soprattutto di questi tempi a ridosso delle elezioni politiche francesi. Ha però ben compreso gli impedimenti alla crescita dovuti alla guerra sui prezzi e sulle promozioni tra insegne in Francia che divorano i margini. È il cane che si morde la coda.

Se leggiamo l’approccio e la cultura manageriale di Bompard e della sua squadra e l’applichiamo all’Italia comprendiamo bene le preoccupazioni di Carrefour e le traiettorie del CEO Italia Cristophe Rabatel dovute all’impossibilità di giocare un ruolo da leader in un mercato dominato, ancora di più che in Francia, da un frazionamento eccessivo di insegne. Ciascuna in grado di tenere testa localmente a chiunque.

L’Italia non è un mercato adatto alle multinazionali della GDO che scelgono di attenersi alle regole del gioco. Gestione del lavoro e suo costo, ridondanza delle sedi, scarsa flessibilità organizzativa, eccesso di burocrazia, rapporti complessi con i fornitori locali e nazionali hanno portato diverse realtà continentali prima alla “fuga” dal sud e poi dal Paese.

Hanno tenuto e sono cresciuti  i discount perché la GDO tradizionale non ha mai creduto fino in fondo al loro potenziale espansivo se non quando era ormai troppo tardi. E poi perché  le regole del business sono diverse e, di fatto, consentono di aggirare buona parte dei problemi che la GDO tradizionale fatica a aggirare.

Il ricorso a forme estreme di flessibilità, i contratti cosiddetti  “pirata” di grande attualità,  la pressione sui fornitori specialmente quelli più deboli e mille altri segnali evidenziano come le organizzazioni territoriali siano molto più aggressive e performanti sul piano dei costi.

L’Italia pur essendo importante non è più strategica da tempo per Carrefour. Non è un’azienda abituata a non giocare per le prime posizioni. Né a bypassare le regole. La scelta del franchising e della riduzione dei costi di sede, può piacere o meno, è però un’alternativa al ritiro dal Paese. È il tentativo di interrompere un avvitamento sempre più pericoloso. L’abbandono in stile Auchan non è, per ora, all’ordine del giorno per diverse ragioni. Carrefour è una multinazionale non solo una grande azienda che si è sviluppata nel mondo per l’intuizione del suo proprietario e le condizioni favorevoli del secolo che abbiamo alle spalle.

Potrebbe però non essere sufficiente. Cristophe Rabatel sa benissimo che la realtà aziendale  che sta costruendo è lontana dalla  immagine tradizionale  di una multinazionale classica che detta le regole del business ed è  ben diversa da quella che si aspettano i sindacati. Sa però che è l’unica possibile.

Dalla Francia arrivano incoraggiamenti e sollecitazioni ma non le risorse economiche necessarie per invertire la tendenza. L’Italia non può essere più un peso vista dal quartier generale. Ricostruire una presenza puntando sui propri punti forti, ridimensionare la sede  e appaltare a terzi tutto ciò che non è ritenuto core business, pur (spero) perfettamente consci che il franchising, se si trasforma da mezzo in fine, può diventare un boomerang pericoloso.

Ultimo ma non ultimo Cristophe  Rabatel sa   che questa missione è decisiva e cruciale per la sua carriera. Uno dei manager con cui ho lavorato in Rewe Italia ha costruito parte della sua iniziale carriera internazionale proprio condividendo, insieme ad altri,  un progetto legato al franchising in Italia.

Progetto che ha contribuito a rimettere i conti in sicurezza per un paio di anni. Un successo effimero che però  non è stato sufficiente. Ovviamente mi auguro che non sia così per Carrefour. 

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