È necessario unirsi, non per stare uniti, ma per fare qualcosa insieme. (Goethe)

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Nel comizio del primo maggio a Bologna, Maurizio Landini,  il dirigente sindacale proveniente dalla federazione più ortodossa e meno unitaria del comparto industriale italiano ha rilanciato sul tema sostenendo che non ci sono più le ragioni politiche e quindi organizzative che rendevano improponibile l’unità sindacale.

Ha addebitato forse un po’ frettolosamente tutte le responsabilità alle vecchie culture novecentesche, oggi in crisi di identità ma ha omesso, però,  per ragioni del tutto comprensibili, che la deriva identitaria, percorsa consapevolmente da tutte e tre le organizzazioni confederali, ha avuto e continua ad avere anche robuste ragioni interne che alimentano le ragioni delle divisioni.

Savino Pezzotta, pur ritenendo importante la ripresa del dibattito sul tema,  sottolinea dove sta il problema dell’unità sindacale :”Il tema centrale che oggi si pone in modo nuovo e quello di una radicalizzazione del concetto di autonomia che va ripensata come capacità di espressione di una politicità culturale, valoriale, etica e sociale e non solo come distanza e separazione dalle forze politiche.”

Lo stesso Marco Bentivogli, sollecitato recentemente sul tema non si è certo sottratto: ”Immagino un sindacato che vada oltre l’ideologia che sappia tenere insieme alla protesta la proposta, l’emergenza ma soprattutto la prospettiva, un sindacato che guardi all’innovazione non come un nemico da combattere ma come una terreno di sfida su cui costruire nuovi diritti, capace di immaginare l’esercizio della rappresentanza anche attraverso gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione. Prima dell’unità dobbiamo riconquistare una buona reputazione per candidarci ad essere un soggetto di rappresentanza vera, costruire una forma organizzativa in grado di raccogliere le persone di oggi, non limitarci a una banale riedizione di forme organizzative del passato, che magari funzionavano bene quarant’anni fa ma non più oggi.”

Qui, credo, sta il punto vero. L’unità sindacale non si può certo fare né con lo specchietto retrovisore né limitandosi ad  una sommatoria delle attuali strutture organizzative rimandando, a data da destinarsi, il confronto sul merito. Questo trascinerebbe all’interno di tutto il sindacato confederale la confusione strategica che oggi è presente nella sinistra politica.

Giuseppe Sabella in un suo recente e interessante contributo sul tema ( http://bit.ly/2Vi45VH ) conclude con una vena di eccessivo  ottimismo ma con una certezza su cui riflettere: “Premesso che per il sindacato l’unità è fondamentale per la sua sopravvivenza – un sindacato litigioso rischierebbe oggi di sparire del tutto – questa va concretata in un grande progetto di riforma: se c’è questa disponibilità da parte di Cgil, Cisl e Uil a lavorare insieme, è molto possibile che emergeranno le idee migliori che vi sono dentro le tre organizzazioni. E non ci sono dubbi che vi siano idee in grado di incidere realmente sulla vita delle persone. Ma ora o mai più, il rischio è di passare dalla stagione dell’irrilevanza a quella della dissoluzione.”

Personalmente credo che la strada sia ancora lunga. E soprattutto che vincerà solo chi saprà interpretare il cambiamento in atto. Oggi questo sforzo non emerge ancora nel sindacato confederale. O meglio è presente in alcune categorie ma è ben lontano da essere assunto come priorità dalle tre Confederazioni.

La stessa “conventio ad excludendum” che si percepisce nei confronti di Marco Bentivogli in CISL ne è la dimostrazione plastica. L’apprezzamento di cui gode dentro e fuori i confini della FIM CISL sembra quasi infastidire i gruppi dirigenti della sua Confederazione così come lo stesso Maurizio Landini sa benissimo che la sua immagine pubblica, forte tra gli iscritti alla CGIL, nasconde sotto il tappeto limiti e contraddizioni sulla strategia complessiva e sui suoi rapporti con parte del gruppo dirigente della CGIL. Lo stesso problema, seppure in misura minore, c’è nella UIL.

E’ chiaro che le ragioni strategiche delle divisioni sono alle spalle. Ma è proprio per questo che un gruppo dirigente espressione di quelle divisioni non sembra essere, sulla carta, il più convincente a trascinare dietro di sé iscritti, militanti e dirigenti locali. Non bastano alcune prove muscolari di unità in piazza.

Se togliamo i settori protetti, i pensionati e gli apparati la capacità di rinnovare i contratti, di essere interlocutori seri nelle imprese e di mobilitare l’insieme dei lavoratori su proposte e idee innovative è decisamente carente. Le avance di Confindustria, dal “patto di fabbrica” in avanti sono rimaste sulla carta. Così come la volontà di costruire un vero “patto per il lavoro” che consentirebbe, quello sì, di uscire in campo aperto. La stessa vicenda del salario minimo rischia di essere sottratta alle parti sociali innescando un ulteriore processo di disintermediazione. E questo senza parlare della certificazione della rappresentanza e della rappresentatività che rischiano, in questa legislatura, di restare in un cassetto.

Quello che fatico a  comprendere è proprio questa distanza tra una volontà comunque positiva (il desiderio di ritornare a parlare di unità sindacale) e i comportamenti concreti nella vita delle rispettive organizzazioni sempre poco disponibili ad aprire un grande confronto interno e sempre più ripiegati su se stessi ciascuno in casa propria.

Quello che manca, e non è poca cosa, è come interpretare il cambiamento in atto, rilanciare l’iniziativa sull’innovazione e sulle nuove tutele necessarie in un lavoro che modifica luoghi, tempi e contenuti, ma, soprattutto, come rapportarsi con la politica e con le imprese,  con quali nuovi strumenti e con quali obiettivi comuni.

E tutto questo non si ottiene con dichiarazioni nei comizi o con un eccesso di volontarismo ma con scelte precise che coinvolgono la qualità dei gruppi dirigenti, i loro valori, le loro determinazioni e la loro reputazione. Per questo, pur con tutta la cautela necessaria condivido il potenziale positivo della sfida lanciata da Maurizio Landini se non altro perché come diceva lo scrittore Alejandro Jodorowsky: “Il primo passo non ti porta dove vuoi, ti toglie da dove sei”.  

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