Giuseppe De Rita. Cosa resterà degli anni 80….

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“In Italia le persone in gamba lasciano spazio e si mettono a fare volontariato ma vi è un esercito di “eterni” che non sa ripensare alla propria vita senza l’incarico (retribuito) per tutta la vita.”
M. Bentivogli

La carta di identità non è mai stata un indicatore di performance se non in campo sportivo. Standing personale, comportamenti, coerenza e leadership sono caratteristiche individuali. Difficile accreditarli in esclusiva ad una generazione. L’età, è vero, in alcuni aggiunge visibilità, significati ed esperienza. In altri solo distanza dal contesto.

Gli ottuagenari nel nostro Paese sono circa 4 milioni e rappresentano il 7% della popolazione. Estrarne un piccolo campione qualitativo come ha fatto Giuseppe De Rita sul Corriere (https://bit.ly/3Iqt3HM) mettendo sullo stesso piano intellettuali di prim’ordine o chi ha avuto grandi meriti messi generosamente a disposizione della società con chi, alla prova dei fatti,  ne ha solo tratto  benefici personali rischia di essere fuorviante. L’amicizia però gioca brutti scherzi. Personalmente credo che semmai andrebbero celebrati proprio quegli ottantenni e oltre che non compaiono in quell’elenco. Quei volti anonimi che hanno lavorato duro, educato figli e nipoti, dato il loro contributo alla costruzione del Paese. È forse l’ultima generazione che ha capito sulla propria pelle che il successo viene prima del sudore  solo sul vocabolario. Persone umili o grandi imprenditori che hanno dato il meglio di sé lasciando ai loro eredi un’educazione, una casa, un’azienda, un impero, un’idea di futuro tutta da scrivere. Non un peso da sopportare.

Restando alla lista è altrettanto importante valutare come ci si è arrivati a quell’età. La clessidra fa scorrere evidentemente allo stesso modo il tempo per tutti ma il contenuto e il contributo di ciascuno  è molto diverso. C’è chi il meglio di sé lo ha dato in altri momenti della sua vita e chi ha saputo manutenerlo nel tempo proprio per quello spirito di servizio che ne ha forgiato il profilo. I primi hanno vissuto di rendita, dopo qualche acuto in gioventù, preoccupati più di trattenerne i vantaggi che di mettersi a disposizione degli altri. Come quelle band o quei cantanti del panorama musicale che sopravvivono ripetendo all’infinito le proprie note sfruttando la nostalgia dei coetanei.  E c’è pure chi ha distrutto ciò che di buono ha fatto proprio perché il potere quando è assoluto nel proprio  perimetro   produce effetti collaterali e rischia di dare alla testa proprio nel momento in cui ci  si dovrebbe preoccupare di lasciarlo spontaneamente in altre mani.

Nessuno di quei nomi, salvo uno, è rimasto alla guida di una confederazione per così lungo tempo quasi fosse di sua proprietà e non semplicemente un incarico temporale da interpretare con spirito di servizio. Altri, pur rimanendo in posizioni di prestigio, hanno assunto diversi ruoli consapevoli che farsi da parte ad un certo punto è un dovere morale, non un passo indietro o, peggio, una sconfitta personale.

Posso capire la ragione che ha spinto De Rita a inserire Carlo Sangalli in questo “Pantheon” e non altri ottuagenari  ben più meritevoli di attenzione nel campo dello sport, dell’imprenditoria e della cultura. Sangalli è da moltissimi anni un suo interlocutore. Non è un intellettuale né un ascoltato consigliere. Né un padre della repubblica, né un grande benefattore. Resta un personaggio navigato ed esperto nell’intrattenere relazioni. I due hanno condiviso l’intuizione della cosiddetta “Confindustria dei piccoli” (Rete Imprese Italia) nata dopo essersi battuti (si fa per dire) contro un altro ottuagenario presente nella lista: Romano Prodi. Un’intuizione certamente importante ma, proprio le ragioni del suo fallimento successivo, ne hanno certificato semmai la velleità in contesti organizzativi ostili ad accoglierla.

Da lì non è nato più nulla perché nel frattempo il terziario italiano e l’intera società stavano cambiando così in profondità grazie alla tecnologia e ai ritmi imposti dal passaggio nel nuovo secolo da essere fuori portata per chi non poteva né immaginare il futuro né accettarne la sfida. L’obsolescenza di alcuni nasce lì. Dall’incapacità di comprendere il contesto. Non dalla carta di identità. Così come la resistenza a farsi da parte. Guidare una confederazione presuppone la capacità di interpretare i cambiamenti della società  e assecondarli attivando tutte le energie possibili. Non impedendone il dispiegamento per conservare più a lungo possibile la propria poltrona.

Il ricorso all’elemento dell’età comune come identificativo di una sorta di club generazionale rischia così di confermare il proverbio secondo il quale “al buio tutti i gatti sono grigi”. Però sappiamo che non è così. In quell’elenco ci sono fini intellettuali, risorse  della repubblica, personaggi che hanno dato forme e prospettive nuove al concetto di solidarietà. Uno solo di loro, però, si è visto costretto da un giudice a restituire 216.000 euro alla propria assistente a cui aveva provato a riprenderglieli dopo averglieli consegnati davanti ad un notaio mesi prima per chiudere una  brutta vicenda dai contorni tutt’altro che chiariti e che lo accompagnerà nelle aule di tribunale come un’ombra sul suo viale del tramonto.

Non sono tutti uguali. Non tutti poi hanno  sviluppato una malattia senile tipica di chi vive il potere come esclusiva gratificazione personale: il cosiddetto “cumulismo”. L’idea che, inseguire decine di cariche retribuite da aggiungere a quella principale (peraltro anch’essa retribuita) e detenuta senza mai certificarla in una elezione vera e non per “acclamazione”, si possa ritenere un elemento positivo, quasi un tratto caratteristico  e non una degenerazione di un sistema che ha spinto alcuni ottantenni, non solo presenti nella lista, a non farsi mai da parte. A impedire qualsiasi rinnovamento o successione.

Saper tramontare al momento giusto, lasciare di sé un ricordo positivo e non i segni profondi dei propri artigli sulle poltrone ha spinto diversi ottuagenari  a comprendere la necessità di un passo di lato. Non tutti però lo hanno capito e pretendono di restare in campo ben oltre il tempo consentito. D’altra parte la politica per certi versi assomiglia al calcio. Di molte squadre del passato fatichiamo a ricordare chi, pur condividendone l’età, giocava con campioni acclamati. I contemporanei se li ricordano. I posteri, no. Sarà così anche in questo caso. In quella lista c’è indubbiamente chi passerà alla storia del nostro Paese e chi resterà incagliato nelle cronache. È solo questione di tempo.

Fa però una certa tenerezza leggere De Rita quando scrive: “Noi ottantenni usciremo uno alla volta dalla scena, con le diversità delle diverse collocazioni formali; ma lasceremo un’impronta comune, di fiducia in dinamiche culturali tutte orizzontali, mai dando spazio ad una voglia di verticalizzazione del potere”. Un ottimismo forse eccessivo che mi riporta alla mente  Francesco Guccini nel suo bellissimo pezzo il “vecchio e il bambino” quando dice: “i vecchi non sanno, nel loro pensiero, distinguer nei sogni il falso dal vero… e temo, pur con tutto il rispetto nei confronti dell’estensore dell’articolo, sia questo il caso. 

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