Grande Distribuzione (e non solo). Il part time involontario è un problema serio..

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Ha ragione Marco Leonardi in una recente intervista al Foglio: “In Italia l’allargamento delle diseguaglianze è dovuto alle ore lavorate e non ai salari orari. In altre parole, la diseguaglianza nei redditi da lavoro dipendente non aumenta tra i lavoratori che hanno carriere continuative e lavori full time ma è aumentata perché nel corso degli ultimi 30 anni sono entrati nella forza lavoro molti dipendenti con contratti precari e soprattutto molti contratti part time“.

Se parliamo di lavoro nel commercio e nella Grande Distribuzione in particolare, le critiche esterne si concentrano essenzialmente sui salari ritenuti troppo bassi. Tutto l’ottimo lavoro fatto per le comunità dove i punti vendita sono insediati, le scelte in materia di sostenibilità, le assunzioni anche in aree non facili, la formazione e le opportunità di crescita interna che le insegne mettono a disposizione dei loro collaboratori rischiano di passare in secondo piano.  Fuori dal comparto sale il tono della polemica.

Al tema delle  retribuzioni, ovviamente proporzionali alle ore lavorate, si aggiunge quello del lavoro festivo e degli orari legati alle fasce di apertura, del ricorso al tempo determinato e infine al mancato rinnovo dei contratti nazionali. E allontana i giovani dal comparto. Abbastanza recente è il siluro sul tema che il Presidente di Confindustria ha tirato al settore del  Commercio per smarcarsi dall’accusa di non voler rinnovare i suoi CCNL.  C’è così il rischio che si faccia di tutta l’erba un fascio.

In realtà il vero problema si cui occorre sviluppare una riflessione è quello legato al cosiddetto part time involontario e alla sua possibile evoluzione. L’Istat considera con questa voce il numero di occupati con orario ridotto che dichiarano di avere accettato un lavoro part-time in assenza di opportunità di lavoro a tempo pieno. Orario ridotto, ma non per scelta, nel 65,2% dei casi. E su questo, secondo le statistiche,  siamo primi in Europa.

In Italia, esistono diversi tipi di contratti part-time. I principali possono essere identificati in tre categorie. Contratto a tempo parziale orizzontale quando prevede una riduzione dell’orario di lavoro rispetto a quello previsto per un dipendente a tempo pieno. Verticale se l’orario pur ridotto, comprende solo alcune ore al giorno, oppure solo in alcuni giorni della settimana. Contratto a tempo parziale stagionale se prevede la prestazione lavorativa solo in alcuni periodi dell’anno, ad esempio durante la stagione turistica o durante le festività natalizie. La concentrazione è maggiore al nord. Almeno secondo i dati ufficiali. Per le imprese il part time è uno strumento organizzativo utile per gestire la flessibilità necessaria in un punto vendita potenzialmente aperto h24X7 collegato al flusso dei clienti, mentre per il dipendente rappresenta una risposta a specifici problemi personali ma anche un vincolo da superare al più presto dal punto di vista  economico.

Oggi come viene affrontato? In alcune insegne è una delle modalità di ingresso in azienda e copre le attività dove non è richiesta una particolare esperienza o titolo di studio. Ha pro e contro evidenti. Consente una verifica dell’impegno del lavoratore nel tempo e delle sue disponibilità ma rende difficile la  fidelizzazione. Consente, lato lavoratore, anche a chi è uscito dal mercato del lavoro per molteplici ragioni  di poterci rientrare indipendentemente dall’età. Per chi lo utilizza vale quanto stabilisce il CCNL di riferimento. Le ore e le modalità di prestazione sono contenute nella lettera di assunzione. Se superate, scatta lo straordinario e, oltre ad una certa soglia di superamento nel tempo, la richiesta di passaggio a full time.

La debolezza negoziale del singolo lavoratore nei confronti del responsabile del punto vendita lo spinge, in molti casi,  ad accettare forzature più o meno transitorie nella speranza di un futuro passaggio a tempo pieno. Il tutto, com’è evidente, rende poco trasparente la situazione. Mettervi mano significa innanzitutto garantire alle imprese e ai lavoratori un trattamento omogeneo. Le strade percorribili sono però differenti. I sindacati chiedono, da sempre, un semplice ritorno nell’alveo classico dello strumento in ciò che prevedono i principali CCNL. Il fatto di chiederlo rischia però di essere un esercizio di stile. In diverse situazioni, non è così. E non lo sarà se i contratti che definiscono la materia non sono esigibili ovunque e se il lavoratore coinvolto non ne chiede il rispetto. Cosa molto difficile in costanza di rapporto di lavoro e altrettanto complessa da individuare.

E allora come se ne esce? Innanzitutto valorizzando l’istituto. Il part time non è lavoro di serie B. Formazione e crescita professionale devono accompagnarlo come per il full time proprio per prepararne il superamento. L’utilizzo andrebbe circoscritto proprio per consentire al singolo lavoratore sia il passaggio a full time che garantirebbe uno stipendio adeguato che la crescita professionale.  Checché ne pensino i sindacati è difficile ipotizzare un passaggio automatico da part time a full time come soluzione del problema. Il part time è necessario alle imprese. Così come  la valutazione da parte delle imprese della comune volontà di proseguire nel rapporto di lavoro è fondamentale. 

In Finlandia LIDL sta testando un progetto interessante in accordo con il sindacato locale.  La quota di lavoratori part-time nella GDO in Finlandia è di circa il 60%. Nel 2021, poco più di un terzo dei dipendenti di LIDL erano a tempo pieno e due terzi part-time, e il 36% dei contratti part-time erano di 30 ore o più a settimana. L’idea è di sperimentare un’assunzione a tempo pieno per il lavoratore riconoscendogli le 37,5 ore con lo stipendio relativo in cambio di una sorta di “disponibilità alla flessibilità”. La differenza per arrivare all’orario pieno  è costituito dalle cosiddette “flexi hours”, utilizzate, ad esempio, per improvvise esigenze lavorative aggiuntive.

Un’ulteriore  modalità prevede di considerare l’ambito territoriale e non il singolo punto vendita. In questo caso il lavoratore viene informato sull’orario del turno e sul punto vendita dove dovrà recarsi in base alle necessità, 24 ore prima dell’inizio del turno. Il progetto pilota è partito nell’autunno del 2022, coinvolge 50 dipendenti. LIDL prevede di ampliarlo a 100  quest’anno. I riscontri, per ora, sono positivi. Il modello non solo fornisce una retribuzione regolare, ma anche sicurezza, stabilità ma anche varietà della prestazione. “Abbiamo ricevuto feedback positivi sia dai supervisori che dai dipendenti”, spiega Satu Ihalainen, responsabile del personale di Lidl.  Il lavoro flessibile a tempo pieno è un modello concordato nel contratto collettivo Kaupa, in cui i dipendenti lavorano meno di 37,5 ore pur ricevendo l’intero stipendio mensile ma sono disponibili a coprire eventuali esigenze aziendali. “In generale, tutte le idee che mirano a offrire più ore di lavoro a coloro che lo desiderano sono incoraggiate”.

L’idea non è male perché tende a rispondere a due esigenze. Quelle di avere l’intero stipendio per il singolo  e, per l’azienda la flessibilità a livello territoriale dove la presenza di un numero significativo di punti vendita la può rendere utile. Il tema è quindi all’ordine del giorno anche in altri Paesi. Andrebbe  affrontato anche da noi. 

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