Grande Distribuzione francese. L’altra faccia del totalismo aziendale.

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Solo su LinkedIn ben oltre le 30.000 visualizzazioni. Interventi, domande  e consigli di lettura tra blog, Twitter e lo stesso LinkedIn mi hanno spinto a ritornare sull’argomento GDO italiana vs. estera  già trattato nel pezzo “GDO. Italians do it better?” ( http://bit.ly/2WZmrra ) prendendolo da un’altra angolatura. Da dove possono nascere i guai delle GDO francese in Italia? Le cause possono essere diverse. In questo pezzo  mi concentrerò sulle possibili cause interne.

La definizione di “totalismo aziendale” è del professor Stefano Zamagni che ha studiato a fondo il fenomeno. E’, in parole povere, l’azienda che ritiene di bastare a sé stessa. Produce valori, cultura, procedure e stili di management che nascono e muoiono all’interno delle proprie mura. Tipico dei grandi gruppi multinazionali che, in questo modo, si riconoscono da riti e liturgie specifici che ne identificano l’appartenenza.

Presenta anche degli aspetti forti e positivi quando supera con intelligenza giudizi e pregiudizi verso culture e Paesi, si dota di politiche worldwide e si struttura per condividere innovazioni e idee. Il grande limite è che tende  ad uccidere la specificità, la creatività e la libertà di critica e di pensiero. Chi non si adegua è un pesce fuor d’acqua. In tempi di crescita e di sviluppo è indubbiamente un fattore distintivo di omogeneità. Funziona però solo se l’azienda va bene. Esselunga è il classico esempio di totalismo aziendale performante nella GDO. Appartenere ad Esselunga, distingue, rende unici, diversi, irraggiungibili dalle altre insegne.

In tempi di crisi e di navigazione a vista si trasforma in un limite che rischia di essere  insuperabile. La ragione profonda delle difficoltà di Carrefour e di Auchan non è solo legata ai formati distributivi ma è anche un portato di queste ragioni. La difficoltà a capire la specificità del contesto esterno, le diversità culturali in reti di vendita così diverse e diffuse e, infine, l’incapacità a sapersi mettere in discussione.

E così si omogeneizza limitandosi a continui tagli di costi, quando si  acquistano reti, si punta a omologare tutto e tutti, quando si fallisce nell’impresa si chiudono e cedono punti di vendita. O si licenzia il CEO e si ricomincia da capo. E’ uno sforzo inutile e infinito. La metafora della vite coclea di Archimede. In Italia, più che altrove, il totalismo aziendale, quando le cose vanno male non funziona. Soprattutto nella GDO.

C’è un mondo oltre il ponte levatoio del castello fatto di clienti, fornitori, collaboratori, giovani e anziani che sfugge alle indagini commissionate dai vertici aziendali promosse più per trovare conferme delle loro convinzioni che per capire la realtà che cambia. Acquisizioni sbagliate, avvicendamenti manageriali sbrigativi, interventi forzati e superficiali sulle culture preesistenti, hanno avuto il sopravvento sull’impegno anche di buona fattura prodotti sulla formazione interna e sul middle management.

Occorre poi considerare che il totalismo aziendale amplifica internamente  i successi così come gli insuccessi e quindi non funziona quando il clima peggiora perché i collaboratori non si sentono liberi di parlare chiaro. La GDO francese oggi appare come un boxeur alla 15° ripresa. Gonfiata di botte dal mercato e dalla concorrenza, ancora in piedi per la dimensione economica ma pronta a cedere, in tutto o in parte alla prima occasione propizia. Questa insistenza ad essere sé stessi, sempre e comunque, supera le stesse leadership che si avvicendano alla guida. E questo ne indebolisce la credibilità. Interna e esterna.

Eppure i modelli vincenti, pur diversi tra di loro, non mancano nel nostro Paese. La forza dell’insegna di Esselunga, la capacità di coniugare valori e strategie con una forte capacità di ascolto e quindi di radicamento territoriale di Conad, la sensibilità all’innovazione e alla sperimentazione di Unes, la capacità di vivere il territorio del Gruppo Vegé. E questo solo per citare le insegne che osservo più da vicino anche perché si espongono sul web più di altri correndo tutti i rischi del caso. Il web non perdona le incoerenze. Ma ce ne sono altre, altrettanto performanti e vincenti sia nel food che in altri sottosettori.

Occorrerebbe forse uno stile di management più coinvolgente, che punti anche ad una maggiore valorizzazione dei goal (pochi o tanti) del middle management locale più che una pressione a volte insostenibile sui risultati di fatturato e di gestione delle filiali. Le persone accettano di essere valutate oggettivamente. Altra cosa è il (pre)giudizio definitivo e la   destabilizzazione continua.

Ovviamente ci sono delle differenze tra i due grandi gruppi. Carrefour è più smart. Vista dall’esterno mostra un marcia in più. Fa tutto quello che oggi ci si aspetterebbe da un azienda moderna in termini di formazione interna, politiche di genere, iniziative per i giovani e sostegno a progetti culturali. Ma nonostante tutto resta ben lontana dall’appeal dell’insegna in termini reputazionali come la recente indagine di Reputation Institute (oggi forse lo standard di riferimento per la misurazione della reputazione) con oltre 40.000 interviste individuali  che mettono in evidenza non solo il legame delle aziende con i loro stakeholders, ma anche l’impatto sui clienti nel momento della scelta  di acquisto. Addirittura nel decidere se lavorare o meno per una data azienda.

Auchan se la passa meglio come reputazione, secondo questa  classifica, ma è ben lontana dai migliori della categoria come Esselunga e Conad. E’ un fatto su cui riflettere. Due modi di operare completamente diversi ma entrambi fuori target rispetto al nostro Paese. E intanto sale la preoccupazione per chi ci lavora, ma non solo.

Forse una parte del  problema sta proprio lì. La pressione esasperata sulle persone e sul lavoro  l’ossessione sui costi e sui risultati a breve che generano un loop infinito. Manca la voglia di ricercare nel proprio modello, nella propria cultura e nei propri errori le vere cause della crisi. Si ritorna quindi alle ragioni ai torti del  totalismo aziendale. La trappola dei formati superati dalle abitudini di consumo era troppo evidente per non essere già stata messa in conto da molto tempo nei loro head quarter. Non può essere solo lì il problema.

Occorre partire da una nuova e diversa consapevolezza. Che oggi non c’è ancora. Altrimenti per la concorrenza “nativa” sarà un gioco da ragazzi tenere entrambi i gruppi in un angolo.

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