Il commercio cinese in Italia. Il caso Aumai

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La recente ordinanza di custodia cautelare emessa dalla procura di Monza nei confronti di cinque persone di nazionalità cinese nell’ambito di un’inchiesta per frode fiscale in cui è coinvolta la catena di supermercati Aumai Shopping, attiva proprio  nel Nord Italia, mi dà lo spunto per riprendere e approfondire quella realtà. Sull’indagine, anche in questo caso bisognerà attendere la fine del percorso giudiziario per evitare  di emettere “sentenze” mediatiche. Credo sia però interessante capire le traiettorie di questa azienda e il suo proprietario, vero apripista del commercio cinese in Italia.

La Cina è da anni una potenza economica e uno dei principali partner commerciali per l’Europa e per l’Italia, in particolare. E questo nonostante le cronache sui prodotti contraffatti vedano a volte protagonisti negozi, rivenditori, distributori o produttori di origine cinese. Nella gara alla convenienza di insegna del no food non vanno mai sottovalutati. Per ora ancora cauti sul nostro mercato. Non ricordo l’anno ma ricordo ancora oggi la faccia dei colleghi  tedeschi, e non solo, quando si presentò un potenziale acquirente del negozio Standa di via Paolo Sarpi a Milano in piena Chinatown. Aveva un sacchetto in plastica di un supermercato concorrente zeppo di contanti. Essendo cresciuto non troppo distante da quella via, mi colpì più la reazione stupita dei colleghi del fatto in sé. In quegli anni la comunità cinese ancora molto chiusa in sé stessa  e guardata con sospetto dal resto della città, non usava ancora banche e computer. Trattava qualsiasi cosa in contanti. Ovviamente non se ne fece nulla.

Solo nel 2013, sfrattata Oviesse che era subentrata a Standa, i due piani furono venduti  a un imprenditore cinese molto noto nel quartiere che ne rivoluzionò la destinazione d’uso. Bisognerà aspettare il 2017 con la famosa offerta  da 7,3 miliardi di euro per l’acquisizione di Esselunga per assistere ad un tentativo in grande stile di ingresso nel nostro mercato. Una proposta importante, quella avanzata dallo Yida Investment Group per acquisire l’azienda  fondata da Bernando Caprotti, che era scomparso da poco, il 30 settembre del 2016.  La cifra messa sul piatto da mister Yida Zhang era del 25% più alta rispetto a quella confezionata l’anno precedente  dai fondi internazionali Blackstone Cvc che avevano valutato Esselunga tra i 4 e i 6 miliardi a seconda dell’inclusione o meno dell’attività immobiliare da rilevare insieme alla gestione operativa. Non se ne fece nulla. 

Oggi, mentre l’immagine pubblica della comunità  cinese resta  in parte caratterizzata ancora dalla loro  separatezza e chiusura, per noi, acquistare beni e servizi dagli esercenti cinesi è divenuta un’abitudine sempre più comune. Molto più accentuata rispetto a quella di acquistare nei negozi etnici. In realtà l’espansione delle attività cinesi permette oggi di trovare, anche nelle nostre città, delle eccellenze made in China. A Milano, Roma, Torino e in tanti altri centri urbani si sono diffuse attività gestite da  cinesi (bar e caffè, edicole, negozi di parrucchiere, ristorantini che offrono specialità locali o una variegata cucina multietnica, piccoli negozi di quartiere che vendono merce di vario genere agli abitanti della zona). Spesso con dipendenti italiani.

Il gruppo AUMAI nasce il 14 Febbraio 2004, con l’ apertura del primo megastore a Brescia. Ad oggi, rappresenta, come si dice in gergo,  il  “mercatone” di proprietà cinese più grande d’Italia. Al suo interno, si trova tutto ciò che non è commestibile. È una sorta di super discount no food. I clienti sono all’80% italiani.  Arrivato in Italia a inizio anni 2000, il 47enne Chen Wenxu (detto Sandro) ha costruito un’impresa che nel giro di poco tempo gli ha permesso di aprire punti vendita non solo al nord (39 in totale), partendo dalla provincia di Brescia  e da quella di Monza, fino ad arrivare a un fatturato di 60 milioni di euro l’anno e 400 dipendenti circa. Nel dicembre 2016 fece notizia l’apertura del primo megastore di prodotti cinesi in Italia ad Agrate Brianza (Monza). Un megastore di 56mila metri quadrati, 400 negozi e 600 posti auto a ridosso della Tangenziale Est.  Si trattava del più grande centro commerciale d’Europa all’ingrosso con l’obiettivo di decongestionare proprio  l’area di via Paolo Sarpi a Milano.

Dietro c’era sempre lui, il 40enne cinese Chen Wenxu, da oltre 20 anni residente a Brescia e proprietario di Aumai, la catena insediata in piazzale Loreto a Milano nella storica sede dell’UPIM dove nel 1927 partì l’esperimento di un grande magazzino con articoli di ogni genere disposti su una scala unica di prezzo compresa tra 1 e 5 Lire, dove oggi campeggia il logo con il panda del marchio cinese. A maggio del 2018 Chen Wenxu si è aggiudicato all’asta un ramo d’azienda della Carnevali  storica azienda bresciana con punti vendita di abbigliamento, fallita l’anno precedente con l’obiettivo di rilanciare un marchio che ha segnato la storia del comparto dell’abbigliamento bresciano.

La guardia di finanza di Monza lo ha  arrestato nelle settimane scorse. Chen Wenxu è indagato per una presunta frode milionaria. Le accuse sono gravissime. Secondo l’inchiesta è stato l’organizzatore di un sistema di false fatturazioni per evadere il fisco, con un guadagno occulto di circa 6 milioni di euro in due anni. Ai domiciliari è finita anche la moglie, manager della società. La guardia di finanza sta operando sequestri preventivi ai fini di confisca su quote societarie e conti correnti, mentre i negozi non saranno oggetto di provvedimenti e continueranno a restare aperti.

Le imprese “filtro”, individuate sulla base dei riscontri eseguiti dalle Fiamme Gialle attraverso perquisizioni ed analisi contabili ed informatiche, “pur mostrandosi apparentemente dotate di una veste operativa e legale, sono risultate di fatto prive di strutture aziendali (unità produttive e locali, magazzini, uffici), lavoratori dipendenti e beni strumentali all’esercizio delle attività imprenditoriali dichiarate ed hanno operato, sotto la regia occulta dei soggetti indagati, con il solo scopo di consentire alle società titolari dei supermercati – 14 imprese che a fronte di un fatturato annuo di circa 60 milioni di euro avrebbero utilizzato fatture per operazioni inesistenti per oltre 20 milioni di euro – di evadere, tra il 2019 ed il 2020, imposte per oltre 6 milioni di euro” spiegano dal comando provinciale della guardia di finanza di Monza.

Sicuramente una vicenda tutta da ricostruire sapendo che in questo come in altri casi non è la nazionalità del titolare a costituire elemento di particolare interesse  quanto le responsabilità individuali che devono essere comunque accertate nelle sedi preposte.  

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