Il vicolo cieco in cui si è infilata la Grande Distribuzione Italiana

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Purtroppo anche quest’anno il film si ripete. Il sindacato del commercio guadagna le prime pagine dei giornali con una dichiarazione di sciopero che non sortirà nessun particolare effetto pratico.

Come il 25 aprile anche il primo maggio i punti vendita della GDO saranno chiusi solo laddove i gestori riterranno di non aprire. Il confronto sul tema purtroppo non fa nessun passo in avanti. Confcommercio ha provato, senza successo,  ad individuare un punto di possibile accordo che mettesse insieme le diverse esigenze ma non c’è stato verso.

I contrari alle aperture si accontentano della testimonianza e di fare sentire la loro voce a corrente alternata. I favorevoli sanno che devono solo scavallare l’effetto mediatico che precede l’apertura contestata. Fino alla prossima scadenza.

Dopo tanti anni di lavoro nella GDO non ho perso l’abitudine di frequentare i punti vendita nei giorni festivi dove capita. In passato lo dedicavo a visitare la concorrenza per “carpirne” i segreti. Per il sottoscritto, che lavorava nelle Risorse Umane, ovviamente l’obiettivo era osservare l’organizzazione dei reparti, il clima tra i dipendenti e il servizio al cliente. Magari qualche potenziale candidato da assumere.

Pochi giorni fa, il 25 aprile, per curiosità sono andato a Corsico un comune dell’hinterland milanese. Ikea, Decathlon, Leroy Merlin erano strapieni di gente. Difficile spiegarlo ai contrari per principio alle aperture. Così come è difficile spiegare che non è la stessa cosa parlare di negozio sotto casa o di outlet che vive, come qualsiasi centro commerciale di flussi importanti altrimenti chiude. Di differenze tra food e non food, tra luoghi turistici, quartieri abitati da anziani e situazioni dove l’acquisto può essere fatto in altra giornata.

Dunque nonostante queste resistenze dai 12 ai 15 milioni di italiani frequentano la Grande Distribuzione nei festivi così come oltre un milione di persone bar, alberghi e ristoranti. I contrari, se escludiamo i problemi di principio sul lavoro festivo,  puntano sostanzialmente su due argomenti fasulli e su un problema vero.

Le vendite nei festivi non hanno portato ad un aumento di fatturato e nel resto d’Europa la maggioranza dei Paesi tiene i negozi chiusi in quei giorni.  Il primo è un argomento che si smonta da solo. In alcuni comparti della GDO le vendite nel fine settimana non sono compensabili con quelle degli altri giorni. Ci arriva anche un bambino.

Sull’alimentare si dovrebbero distinguere le aperture nelle località turistiche, nei luoghi di forte passaggio, nei centri commerciali rispetto ad altri dove gli acquisti sono effettuabili in altri giorni. Sulle aperture nel resto dell’Europa  non è così. Ci sono differenti approcci determinati dalla storia commerciale e dalle abitudini dei consumatori  di ciascun Paese.

Il problema vero, sollevato dai sindacati di categoria è rappresentato sia dal riconoscimento economico ai lavoratori non sempre equo, sia dalla necessaria distribuzione del peso del lavoro festivo su un numero più ampio di lavoratori. Ma tutto questo sarebbe materia di discussione se la realtà ormai non fosse un’altra.

La GDO è sotto tiro dai giganti del web praticamente senza difesa. Soprattutto in Italia dove le multinazionali qui insediate aspettano ordini dal quartier generale e le aziende nostrane sono troppo piccole per essere in grado di reagire. Mentre da noi si discetta sull’utilità delle festività altre grandi realtà economiche lavorano h24/365 giorni all’anno con regimi fiscali particolarmente favorevoli.

La GDO, grazie alla tradizionale riottosità che la contraddistingue si affida a ben 4 associazioni (Confcommercio, Confesercenti, Coop e Federdistribuzione) ovviamente in competizione tra di loro sulla rappresentanza del comparto, con due di loro che non applicano alcun contratto nazionale in vigore creando una situazione di dumping di fatto con le aziende che applicano il CCNL firmato da Confcommercio. In una situazione di tensione con le organizzazioni sindacali sia per questo motivo che per le chiusure o le riorganizzazioni indotte dalla crisi.

In questa situazione si trovano inevitabilmente tra due fuochi e senza poter sviluppare alcuna alleanza autorevole tra di loro. Sono finite in un vicolo cieco da cui non sarà facile uscire.

La crisi dei consumi le ha indebolite, la decisione di non applicare alcun contratto nazionale in attesa di un percorso autonomo si è rivelata un successo nel breve (forti risparmi sul costo del lavoro) ma nel lungo rischia di provocare conseguenze pesanti (sanzioni amministrative, tensioni sindacali e  battaglie legali).

Infine credo che nessuna azienda possa pensare che battersi per un mercato con le stesse regole per tutti i contendenti o per evitare l’aumento dell’IVA prossimo venturo possa essere possibile in un clima di divisione e di voglia di distinzione che, a mio parere, ha fatto il suo tempo.

Forse è arrivato il momento di riflettere e di guardare avanti. Una fase si è chiusa e un’altra può aprirsi. La condizione è la disponibilità a discutere di tutto ciò che oggi interessa imprese e sindacati del comparto in difesa del business in difficoltà in un’ottica di pluralismo distributivo, di regole che devono valere per tutti ma anche di rispetto per chi rappresenta il lavoro. 

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