La cassa Covid. Ovvero il rischio che un mezzo si trasformi in un fine.

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Come ci suggerisce un vecchio proverbio cinese “Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a mietere quello che abbiamo piantato”. Questo è quello che ci aspetta a partire dalla cosiddetta fase 2 e in quelle successive del post covid-19.

Tutto ciò che abbiamo messo in campo nelle fasi concitate della pandemia si trascinerà per lunghi mesi incidendo profondamente il nostro tessuto sociale ed economico. Trovo molto strano che non se ne parli abbastanza. Quasi non esistesse il problema. Tutti sembrano concentrati sulla ripartenza delle attività. Pochi sugli strascichi drammatici  sull’occupazione che ne deriverà inevitabilmente.

Dario di Vico lancia  il tema (https://bit.ly/2XnZFuG) che presto, a mio parere,  diventerà centrale nella sua evidente crudezza. Solo ad Aprile l’INPS ha autorizzato 835 milioni di ore tra cassa integrazione ordinaria, in deroga e fondi di solidarietà. Per capirci, un anno fa le ore erano 7,7 milioni.

Nel 2009, anno della grande crisi economica e finanziaria, furono autorizzate 916 milioni di ore. Per la cassa in deroga tra i comparti che hanno avuto più ore autorizzate ci sono il commercio, gli alberghi e i ristoranti.

Contemporaneamente a Marcianise, in provincia di Caserta, una multinazionale americana, forza il divieto di  licenziamento per giustificato motivo oggettivo prevista dal Decreto di marzo e licenzia 190 operai.  La prima di quella che rischia di essere una lunga serie non appena il vincolo sarà rimosso. Pensare di mantenere il blocco per lungo tempo potrebbe comportare però delle conseguenze altrettanto gravi.

Probabilmente chi ha pensato alla moratoria si è dovuto concentrare sul problema in sé e sull’unico strumento a disposizione pur con tutti i limiti derivati sia alla fase della concessione che della gestione. Pensare alle conseguenze era probabilmente impossibile. L’urgenza non permetteva altro.

Il punto è che la fine del lockdown rischia di non coincidere affatto con un ritorno alla situazione precedente. Soprattutto per quei settori (commercio, alberghi, ristoranti, ecc.) che devono sottostare sia a regole che impattano pesantemente sulla qualità e sull’organizzazione delle attività che alla crisi della domanda. In queste come in altre attività la ripresa, se e quando avverrà, non porterà con sé i livelli di occupazione precedente. Un massa notevole di persone assistite economicamente che, uscite dal lockdown, non hanno alcun sbocco lavorativo certo.

Ha senso dunque limitarsi a contarli rassegnandosi ad una gigantesca operazione di marca assistenziale? I rischi sono evidenti. Alcuni già sperimentati con il reddito di cittadinanza. Obbligare le imprese a mantenere i costi precedenti imponendo loro vincoli temporali pesanti potrebbe provocare conseguenze altrettanto pesanti. Molte realtà non riaprono o lo fanno a ritmi ridotti. Le misure imposte dal cosiddetto distanziamento sociale  impattano sui costi e sulla produttività in modo evidente.

Una strategia che si ponga l’obiettivo di ridurre le inevitabili conseguenze  occupazionali dovrebbe agire su diversi piani. Così come si è pensato utile mettere in atto una moratoria sui licenziamenti, la stessa operazione andrebbe fatta sui contratti nazionali consentendo deroghe sugli orari e sui salari. Nella Grande Distribuzione, ad esempio,  le nuove aperture sono sorrette da meccanismi analoghi proprio per consentire il tempo necessario ai nuovi punti vendita di raggiungere l’equilibrio economico. In questa situazione andrebbero concepite misure analoghe.

Partendo dalla cassa integrazione, salario e orario potrebbero così riallinearsi in un tempo ragionevole da definire in sede di deroga con i sindacati di categoria. Lo stesso dovrebbe valere per gli altri costi sul versante degli affitti. L’obiettivo dovrebbe essere quello di garantire occupazione e impatti sui prezzi.

La formazione dovrebbe decollare subito e coinvolgere i potenziali disoccupati attingendo risorse pubbliche ma anche dagli stessi sistemi bilaterali e dai fondi interprofessionali. Una partita, questa, che dovrebbe vedere protagonisti sia le parti sociali che le istituzioni a livello decentrato.

Alle persone in CIG-Covid dovrebbero essere consentiti forme di distacco anche a tempo determinato con integrazione salariale all’ammortizzatore da parte di chi li ingaggia. Infine dovrebbero essere previsti formule di impiego di chi usufruisce della CIGD su attività di interesse pubblico.

È necessario mettere in moto un meccanismo di ripartenza efficiente e collaborativo che riconsegni alla CIG il suo ruolo originario e non la trasformi in un reddito permanente di marca assistenziale. Ma che soprattutto allinei le esigenze delle imprese, il mercato del lavoro e le competenze delle persone. Magari utilizzando questa fase per una grande operazione di riqualificazione delle stesse.

Chiudere le attività economiche per impedire il contagio ha fatto emergere una realtà economica e sociale complessa. Dobbiamo assolutamente evitare che questa situazione sfugga di mano o che vengano adottate misure demagogiche destinate a provocare maggiori contraddizioni di quelle che si intenderebbero evitare. Purtroppo non serve mettere la testa sotto la sabbia. 

 

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