Evitiamo il braccio di ferro tra politica e sociale di Raffaele Morese

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Man mano che, faticosamente, il lavoro conquista la prima fila nel dibattito politico, ritorna di attualità il conflitto tra primato della politica e primato del sociale. Era dai tempi della scala mobile, dell’inflazione a due cifre, della stagflation che non si assisteva ad una avvisaglia di contrapposizione tra politica e sociale, come quella che si profila. Ma non è un replay di quella fase. Neanche una sua brutta copia. Non ci sono più né un Berlinguer che non accetta di essere scavalcato da un’intesa tra un Governo – specie se a guida Craxi – e i sindacati, né un Carniti e Benvenuto che in nome dell’autonomia, interrompono l’unità con Lama. Non c’è più né il tentativo di realizzare una politica dei redditi concertata, né la scelta di dare un’alternativa al contrattualismo conflittuale, che aveva contrassegnato gli anni 70 e 80 e che tuttora aleggia nelle dinamiche tra le parti sociali.

Oggi, il conflitto che si delinea riguarda soggetti che – ciascuno per il ruolo e la rappresentanza che esprimono – non hanno né la baldanza, né la visione, né il vigore dimostrati trenta anni fa. Il sistema dei partiti e i Governi che si sono succeduti in questo primo scorcio di secolo hanno dimostrato una debolezza propositiva sempre più accentuata, che si è tradotta in decisioni quasi sempre non definitive, spesso tendenti al rinvio, praticamente elusive dell’esigenza di un vero riformismo. A loro volta, le rappresentanze sociali – a partire da quelle degli imprenditori e dei lavoratori e passando da quelle dei consumatori o dei senza casa, da quelle delle donne o degli immigrati – hanno marciato prevalentemente in ordine sparso, hanno privilegiato l’identità d’organizzazione rispetto alla qualità delle rivendicazioni, sono state sopraffatte dalla pesantezza e lunghezza della crisi economica e sociale.

Di conseguenza, si fronteggiano due debolezze storiche e strategiche. La politica, appesantita dall’emergenza, non riesce ad offrire prospettive di medio e lungo periodo; il sociale fa una fatica bestiale ad arginare lo scivolamento verso la tutela del proprio specifico, il lavoro dipendente standard. La globalizzazione fa il resto; marginalizza l’autonomia dei poteri istituzionali e politici e spunta le armi della rappresentanza sociale, dato che il capitale è global e il lavoro è local. E’ in questo contesto che si miscelano esigenze, aspettative, delusioni e soddisfazioni, senza seguire gli itinerari canonici. Renzi parla di imprese e lavoratori, ma pensa a Farinetti e a Cipputi non alle loro rappresentanze e da più peso alle parole dei primi che ai proclami delle seconde. E non è una contraddizione se tra il Presidente del Consiglio e il capo della Fiom sembra esserci dialogo, mentre non ce n’è molto con Camusso e Bonanni. Attiene più alla tattica politica che alle scelte strategiche.

Queste ultime non ancora si vedono e quindi è più facile, meno impegnativa la sintonia con chi è fondamentalmente un “opinionista”, rispetto a chi si presenta in chiave “neocorporativa”. Ma anche l’opinionismo non può concedere al Governo più di quanto il contrattualismo è in grado di offrire. Basta leggere su Repubblica la lettera aperta di Landini del 9/4/2014. Le richieste possono essere più o meno condivisibili, ma è un chiedere senza alcun cenno a dare. Esattamente come Camusso. E così la politica prova a riprendere il primato, finanche in modo arrogante (dice Renzi: ”se il sindacato non ci sta, ce ne faremo una ragione”). Ma, in questo modo, anche se avesse più argomenti a proprio favore, la politica non renderebbe un servizio al Paese. Sia perché cercare la forzatura non è mai salutare, sia perché la costruzione del consenso non è poca cosa rispetto alla bontà, ma anche alla complessità, delle soluzioni che si andranno a proporre.

Politica e sociale si ricompongono in un unico, comune sentire, non giocando a braccio di ferro, ma cercando una visione e un percorso condiviso. E una politica pro labour può affermarsi soltanto se il sindacato si propone come interlocutore credibile dell’aumento della produttività aziendale, che non riguarda né l’intensità del lavoro individuale né le alchimie sulle regole del mercato del lavoro, ma il governo di quel complesso intreccio tra qualità del prodotto, organizzazione per ottenerlo e soddisfazione personale di chi lo realizza. Uno scambio di alto profilo tra destinazione di tutte le risorse pubbliche disponibili ai redditi delle persone e delle famiglie meno abbienti e all’occupazione giovanile e miglioramento delle condizioni di competitività delle aziende, intervenendo sui fattori di freno sia esterni che interni all’azienda; esso rappresenterebbe un grande contributo all’inversione della tendenza deindustrializzante della società italiana.

Si tratta di uno sforzo mai tentato compiutamente nel nostro Paese, mentre in altri è quasi pane quotidiano. Ma mai dire mai. La politica non ha bisogno di affermare una sua egemonia formale. “Sento tutti e decido da solo” non è messaggio rassicurante e forse neanche accattivante. Il sociale, a sua volta, non si fidi dell’ebbrezza del rivendicazionismo. Questo è tempo di progettualità da realizzare e comporta un massiccio impegno per la comprensibilità di quel messaggio “visionario”. Tanto la politica, quanto il sociale devono dare il meglio di sé stessi per favorire un avanzamento a questi tempi così turbolenti ma anche così avvincenti.

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È l’offerta che crea la domanda di Raffaele Morese

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Per ammissione collettiva e consolidata, si fa poco per dare una prospettiva ai giovani, non potendo dare alla maggior parte di essi, un lavoro dignitoso. C’è un senso di arrendevolezza, di fronte allo spessore della questione, che coinvolge tutti, ma soprattutto le istituzioni. C’è chi si attacca a quello 0,1% di crescita del Pil dell’ultimo trimestre del 2013, più per darsi coraggio che per profondere convinzioni ottimistiche sull’immediato futuro. La perdita di ricchezza di questi ultimi anni è irrecuperabile nel breve periodo e anche se il recupero si dovesse materializzare in una tendenza positiva della produzione di beni e servizi, gli effetti in termini di nuovi posti di lavoro sarebbero ancor più spinti in là, nel tempo.

L’arrendevolezza, però, non può mettere con le spalle al muro un Paese. La sua vitalità – che eppure è diffusa e spessa – oggi vaga nelle nebbie dell’impotenza per deficit di iniziativa delle pubbliche autorità, non per eccesso di prudenza dei singoli individui o delle singole aziende. Certo, questi non sono né ingenui, né sventati. Si guardano intorno e vedono soltanto i segni dell’immobilismo, del rinvio, del rattoppo ma vorrebbero mettere in mostra la loro capacità di agire, di compromettersi, di azzardare finanche. Invece, la fa da protagonista un silenzio ambiguo su cui cercano di speculare politicamente leaders spregiudicati, adagiati sulle loro comode argomentazioni disfattiste e senza costrutto.

Non ce lo possiamo permettere. E se un segnale va dato, deve riguardare i giovani, quelli da riguadagnare alla fiducia per il futuro, alla certezza che il merito paga, alla convinzione che è meglio darsi da fare che bighellonare, alla voglia di progettare e realizzare. Le strade per realizzare questa vera e propria riconversione delle coscienze, per lo più sono impervie e per di più spostate temporalmente troppo in là. Ovviamente, quelle vie devono essere non dico intraprese ma almeno tracciate perché questo è il tempo della semina, senza il quale non si potrà pretendere raccolto. Ed è il tempo giusto per agganciare la ripresa economica internazionale, senza della quale nessuna possibilità di crescita ci sarà data.

Ma anche in questo tormentato momento di affanno, tra le opportunità che si aprono e le resistenze al cambiamento che fanno opposizione, c’è uno strumento che va utilizzato per dialogare con i giovani: il Servizio Civile Nazionale. Il suo periodo d’avviamento è passato. Finalità “patriottiche” e senso educativo sono state collaudate positivamente. La macchina in qualche modo funziona. Ma il tutto va a scartamento ridotto. I giovani coinvolti sono francamente troppo pochi. Con il rischio che l’esperienza non fa tendenza, che una proposta dalle carature solidaristiche resti emarginata, che buona parte dei giovani non sono invogliati a misurarsi con la “res publica”, con il senso concreto del vivere in pace.

Questo è il classico settore dove è l’offerta che forma la domanda. Più c’è proposta, più c’è interesse ad “andare a vedere”. Non vale il contrario. Molti giovani neanche sanno di che si parla. Non c’è ressa per accedere ai bandi. Ma la responsabilità non è dei giovani. E’ l’offerta che è magra e quindi non raggiunge masse consistenti di aventi diritto (si stima che riguardi più di 2 milioni di giovani non occupati). Nel 2010 ci sono state 87.157 domande e 20.701 posti messi a bando. Lo stesso rapporto di 1 a 4 è registrato per il 2011 dall’Ufficio centrale del Servizio Civile. Ora che sotto il profilo qualitativo l’offerta si è posizionata su livelli da tutti ritenuti soddisfacenti, anche se non si hanno monitoraggi particolareggiati, resta aperto il profilo quantitativo.

Per mantenere un’adesione volontaria al Servizio e una partecipazione decisamente più ampia c’è una sola strada: quella di aumentare le risorse disponibili e renderle strutturali. A partire da quest’anno. Il modo per incrementare la disponibilità definita per il 2014 (104 mil di euro) c’è ed è anche prevista dal programma Garanzia Giovani. Il Servizio civile è indicato tra le aree su cui questo piano può intervenire. Se il Governo ritenesse che la scelta di potenziare il Servizio sia prioritaria, potrebbe concordare con le Regioni che una quota consistente dell’ 1,5 miliardo di euro di cui dispone per un biennio il programma Garanzia Giovani vada in quella direzione, come finanziamento aggiuntivo. In questo modo, l’offerta si dilaterebbe e già nel 2014 si potrebbero avere 100.000 volontari in tutt’Italia in attività di solidarietà e di utilità sociale.

Al di là di tante parole, una scelta di questo genere sarebbe un messaggio forte verso i giovani. Non è la promessa di un impegno per la vita, ma è la proposta di una adesione ad un progetto da realizzare. Non si tratterebbe di mera assistenza, ma di un coinvolgimento in ambienti e situazioni che, senza la loro presenza, farebbero più fatica a rientrare nei parametri della coesione sociale. La lacerazione del tessuto sociale del nostro Paese non è ricucibile con la bacchetta magica; ma la realizzazione di tante micro iniziative di solidarietà consentirebbe di affrontare questo gravoso problema con una spirito positivo e innovativo.

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Dal disincanto all’unione politica europea di Giorgio Napolitano

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1. Le prove più dure nella storia dell’Unione europea

Torno in quest’aula a sette anni di distanza dall’omaggio che volli rendere al Parlamento europeo poco dopo la mia elezione a Presidente della Repubblica italiana. E colgo oggi l’opportunità che mi è stata offerta dal vostro Presidente di rinnovare quell’omaggio, fondandolo su riflessioni scaturite dall’esperienza più recente vissuta da noi tutti.

Nei sette anni trascorsi, la costruzione europea ha dovuto fronteggiare le prove più dure della sua storia.

Si è spesso osservato che fin dagli inizi l’Europa comunitaria si sviluppò attraverso crisi via via insorte e poi superate : ma si trattò essenzialmente di crisi politiche nei rapporti tra Stati membri della Comunità. Mai – come a partire dal 2008 – di crisi strutturali, nella capacità di crescita economica e sociale, nel funzionamento delle istituzioni, nelle basi di consenso tra i cittadini. Mai era stata, di conseguenza, messa in questione, e radicalmente in questione, la prosecuzione del cammino intrapreso. Questo è invece il contesto nel quale ci si avvia alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Ritengo che perciò si debba considerare la situazione che si è venuta a creare, anche se in misura e in forme diverse da paese a paese come un momento della verità, da affrontare fino in fondo e in tutte le sue implicazioni.

E’ del tutto evidente che la principale fonte del disincanto, della sfiducia o del rifiuto verso il disegno europeo e innanzitutto verso l’operato delle istituzioni dell’Unione, risiede nel peggioramento delle condizioni di vita e dello status sociale che ha investito larghi strati della popolazione nella maggior parte dei paesi membri dell’Unione e dell’Eurozona. Il dato emblematico, riassuntivo di tutti gli effetti negativi e traumatici della crisi, è l’aumento della disoccupazione, è l’impennata drammatica della disoccupazione giovanile.

2. Politica di austerità e recessione

Appare dunque naturale che nel dibattito pubblico e nel confronto politico abbia assunto una netta priorità il tema di una svolta capace di condurre a quell’effettivo rilancio della crescita e dell’occupazione da ogni parte considerato indispensabile e auspicato. Si ritiene cioè che non regga più una politica di austerità ad ogni costo. Quest’ultima ha costituito la risposta prevalente alla crisi del debito sovrano nell’area dell’Euro e ha privilegiato drastiche misure per il contenimento del rapporto deficit-PIL, per il riequilibrio, a tappe forzate, della finanza pubblica in ciascun paese dell’area.

E in effetti di fronte alla crisi che aveva messo pesantemente in questione la sostenibilità finanziaria dei paesi dell’Eurozona, non si poteva sfuggire alla necessità di definire e rendere vincolante una disciplina di bilancio rimasta gravemente carente dopo l’introduzione della moneta unica. Voi avete perciò – come Parlamento dell’Unione – giustamente contribuito al varo di importanti pacchetti di misure per stabilire un quadro stringente di sorveglianza e di coordinamento rispetto alle decisioni di bilancio degli Stati membri dell’area Euro.

L’Italia, in particolare, ha compiuto in questi anni rilevanti sforzi e sacrifici, essendo bersaglio di forti pressioni sui mercati finanziari per il livello degli interessi sull’ingente debito pubblico accumulato nei decenni precedenti. E nemmeno il netto miglioramento, sotto questo profilo, raggiunto nel corso del 2013, può spingerci a desistere dall’impegno di progressiva sostanziale riduzione del debito, un pesante fardello che non può essere caricato dalla classe dirigente nazionale sulle spalle delle giovani generazioni.

Ma le conseguenze dei severi interventi di stabilizzazione adottati dall’Unione e ancorati ai parametri di Maastricht, hanno avuto ricadute di innegabile gravità in termini di recessione, di caduta del prodotto lordo e della domanda interna specialmente nei paesi chiamati ai maggiori sacrifici. E ciò nonostante scelte coraggiose compiute dalla BCE per contrastare la speculazione sul mercato dei titoli del debito pubblico e per iniettare liquidità nelle molto provate economie dell’Eurozona.

3. Una svolta per la crescita e l’occupazione

La svolta che oggi si auspica da parte di molti non può perciò certamente andare nel senso dell’irresponsabilità demagogica e del ripiegamento su situazioni di deficit e di debiti eccessivi. Essa deve però riflettere la consapevolezza di un circolo vizioso ormai insorto tra politiche restrittive nel campo della finanza pubblica e arretramento delle economie europee, giunte oggi al bivio tra primi segni di ripresa e rischi, se non di deflazione, di sostanziale stagnazione.

Rompere quello che per diversi aspetti è diventato, appunto, un circolo vizioso – suggerendo a un autorevole studioso, Claus Offe, l’immagine di una “Europa intrappolata” – è ormai essenziale, se si guarda soprattutto alla condizione di un’intera generazione oggi alla deriva. Ad essa anche una ripresa della crescita – se debole e non finalizzata ad obbiettivi specifici per i giovani privi di lavoro – tende ad offrire scarsa e cattiva occupazione.

Occorre infatti, a questo proposito, tener conto delle radicali trasformazioni tecnologiche intervenute e ancora in corso e dell’arduo confronto competitivo con grandi aree economiche extraeuropee; e si deve quindi procedere – dove non lo si è già fatto – a riforme dei sistemi formativi e del mercato del lavoro, investire in conoscenza, ricerca, preparazione della giovane forza lavoro a nuove opportunità e forme di occupazione.

Una crescita sostenuta e qualificata richiede certamente riforme strutturali, ma richiede in pari tempo un rilancio, oltre che di investimenti privati, di ben mirati investimenti pubblici, al servizio di progetti europei e nazionali. A tal fine è necessaria – al di là del riferimento a parametri rigidamente intesi – maggiore attenzione per le effettive condizioni di sostenibilità del debito in ciascun paese e, in relazione a ciò, sufficiente apertura sui modi e sui tempi dell’ulteriore riequilibrio finanziario.

Il Parlamento europeo ha dato utili indicazioni con l’ampia risoluzione approvata il 12 dicembre scorso, ispirata a criteri di rinnovata solidarietà in seno all’Unione e in particolare all’Eurozona.

Dall’Unione Bancaria, avviata già nel giugno 2012 dal Consiglio europeo, a un’adeguata capacità di bilancio dell’Unione fondata su specifiche risorse proprie, a regole forti di coordinamento delle politiche economiche nazionali tali da assicurare una crescente coesione tra le economie degli Stati membri : questi ed altri elementi sono collocati dalla vostra risoluzione nel quadro di un rilancio della strategia di “integrazione differenziata”, con particolare riferimento alla cooperazione rafforzata nel campo delle politiche economiche e sociali. E non manca, nella risoluzione, il richiamo sia alle potenzialità ancora inesplorate dei Trattati vigenti sia alle esigenze, in prospettiva, di modifica dei Trattati stessi.

4. Un cambiamento profondo del modo di essere e di operare dell’Unione Europea

Si va insomma delineando un cambiamento profondo del modo di essere e di operare dell’Unione europea. I cittadini-elettori non sono dinanzi a una scelta fuorviante tra stanca, retorica difesa da una parte di un’Europa che ha mostrato gravi carenze e storture nel cammino della sua integrazione, e dall’altra parte agitazione distruttiva contro l’Euro e contro l’Unione. Si, puramente distruttiva, anche se in nome di un’immaginaria “altra Europa” da far nascere sulle rovine di quella che abbiamo conosciuto. No, i termini della scelta non sono questi.

Infatti, poste di fronte a una drammatica crisi finanziaria, economica e sociale, le istituzioni europee si sono mosse a fatica, fra troppe esitazioni, divergenze e lentezze, ma si sono certamente mosse nel senso della correzione di comportamenti precedentemente tenuti.

Il Presidente Draghi ha negato, in un Convegno del novembre scorso a Berlino, che si possa parlare di “un decennio perduto”. I paesi dell’area dell’Euro sono stati indotti – egli ha detto – ad “usare il secondo decennio di vita dell’Euro per disfare gli errori del primo”. In queste parole non c’è ombra di retorica, ma chiara consapevolezza autocritica.

L’Euro ha rappresentato una innovazione di valore storico. Ma è rimasta per troppi anni monca, priva di complementi essenziali ; il che può essere spiegato solo con anacronistiche chiusure e arroccamenti nazionali in campi che dopo l’introduzione dell’Euro non potevano rimanere presidiati dalla sovranità nazionale.

La gravità della crisi ha travolto molte resistenze e spinto fortemente nella direzione di una maggiore integrazione. Tuttavia, per quel che riguarda il metodo e il quadro giuridico che sono prevalsi, è indubbio che si sia operato in chiave di decisioni intergovernative e di accordi internazionali, fuori del tracciato comunitario. E bisognerà dunque giungere, come chiede il Parlamento e come prevede lo stesso “fiscal compact” a “collocare la governance di un’autentica Unione Economica e Monetaria all’interno del quadro istituzionale dell’Unione”. Perché passa di qui la questione di un deciso rafforzamento della legittimità democratica del processo decisionale in seno all’Unione : questione che si è aggravata nella percezione generale, politica se non tecnica, dell’opinione pubblica, concorrendo al diffondersi tra i cittadini di fenomeni di distacco e diffidenza verso le istituzioni europee.

5. Garantire legittimità democratica con nuovi sviluppi istituzionali e politici nella vita dell’Unione Europea

Voglio dire che – nella crisi di consenso popolare di cui l’Unione europea e il processo di integrazione stanno soffrendo – c’è tutto il peso del malessere economico e sociale che l’Unione non è stata in grado di evitare ; ma c’è anche il peso di una grave carenza politica, in varie forme, sul piano dell’informazione e del coinvolgimento dei cittadini nella formazione degli indirizzi e delle scelte dell’Unione. E il cambiamento da proporre all’elettorato deve dunque andare al di là delle politiche economiche e sociali. Così come al di là di esse deve andare la sfida con le forze che negano e avversano il disegno dell’integrazione europea, nella sua continuità e nel suo necessario e possibile rinnovamento. Una nuova stagione di crescita economica, sostenibile da tutti i punti di vista, è indispensabile per ricreare fiducia ; ma essa non basta per garantire la legittimità democratica del processo d’integrazione, se non è accompagnata da nuovi sviluppi in senso istituzionale e politico nella vita dell’Unione.

Penso che quanti di noi credono nella causa dell’Europa unita, possano prepararsi al confronto elettorale con serenità e con fiducia, come portatori di cambiamento, tanto più se si restituirà al nostro disegno e alla nostra esperienza il loro volto complessivo, tutta intera la loro ricchezza, dopo averne visto in questi anni prevalere una versione riduttiva, economicistica, con pesanti connotati tecnici. Si è attenuata – e va riproposta con forza – la visione di quel che si è costruito in poco più di mezzo secolo : non solo un’area di mercato comune e di cooperazione economica, ma una comunità di valori, e con essa una comunità di diritto complessa e articolata nel segno della libertà e della democrazia. C’è stato un continuo allargarsi di orizzonti del progetto europeo. E si è delineata la prospettiva di una comune visione e capacità d’azione europea nel campo delle relazioni internazionali e della difesa e sicurezza.

Il lievito di questa costruzione senza precedenti è stato il sentimento di una ricchissima cultura comune : sentimento che abbiamo avvertito giorni fa nell’addio dell’Europa a un grande campione dei valori europei, Claudio Abbado.

6. Nulla può farci tornare indietro

Da tutto ciò traggo la conclusione che la costruzione europea ha ormai delle fondamenta talmente profonde, che si è creata un’interconnessione e compenetrazione così radicata tra le nostre società, tra le nostre istituzioni, tra le forze sociali, i cittadini e i giovani dei nostri paesi, che nulla può farci tornare indietro.

C’è dunque vacua propaganda e scarsa credibilità nel discorso di quanti hanno assunto atteggiamenti liquidatori verso quel che abbiamo edificato nei decenni scorsi, dall’Europa dei 6 all’Europa dei 28. Come si può parlare di “fine del sogno europeo”, sostenendo magari che quella fine si potrebbe scongiurarla abbandonando l’Euro per salvare l’Unione? La fattibilità e le conseguenze traumatiche di quell’abbandono vengono considerate da qualcuno con disarmante semplicismo. Né vedo quale dovrebbe essere il luogo e quali i garanti di un così improbabile scambio.

In effetti, nonostante il moltiplicarsi, in questi anni, delle previsioni catastrofiche sull’imminente crollo dell’Euro, le istituzioni dell’Unione e le più avvedute leadership politiche nazionali hanno compreso che per salvaguardare l’intero progetto europeo era essenziale difendere l’Euro. Ma è stato necessario fare i conti con gli errori compiuti, dovuti, a ben vedere, all’affievolirsi della volontà politica comune che aveva reso possibile quel balzo in avanti e che avrebbe dovuto presiedere a tutti i successivi sviluppi della integrazione europea, in uno con i processi dell’unificazione tedesca e dell’allargamento dell’Unione.

7. Vecchie e nuove motivazioni razionali ed emotive del progetto europeo

Se quello che oggi stiamo vivendo e si manifesterà nell’imminente confronto elettorale, è – come ho detto all’inizio – un momento della verità per la causa dell’unità e del futuro dell’Europa, condizione decisiva del successo è una nuova, più forte e decisa, volontà politica comune, capace di trasmettere alle più vaste platee di cittadini le ragioni storiche e le nuove motivazioni del progetto europeo. Trasmetterle razionalmente ed emotivamente: deve trattarsi cioè di un messaggio appassionato, profondamente sentito, come quello consegnatoci da grandi immagini dei passati decenni. Quella, ad esempio, di François Mitterrand ed Helmut Kohl che rendono omaggio, mano nella mano, ai caduti nella terribile battaglia di Verdun durante la prima guerra mondiale.

Si è scritto che quei “due grandi Europei erano impregnati di sentimento tragico della Storia” : di lì il loro europeismo, fino all’accordo sull’unificazione tedesca e sulla moneta unica. Ma di quel sentimento erano “impregnati” tutti i padri fondatori dell’Europa comunitaria, firmatari della Dichiarazione Schuman del maggio 1950, fautori della prospettiva di una Federazione europea.

Non mi ha però mai contagiato il timore che nel passaggio delle responsabilità politiche e di governo a generazioni successive potessero dissolversi l’ispirazione, la consapevolezza, la volontà politica comune europea, culminata nell’unificazione dell’intero continente su basi di pace e di libertà. Tuttavia, che queste non si siano dissolte e possano ritrovare forza in un contesto diverso e nuovo, è ciò di cui si deve ora dare l’estrema prova.

Naturalmente, le motivazioni del progetto europeo sono divenute altre, ed esse possono ben parlare agli europei di questo secolo, agli europei del mondo d’oggi.

Ieri la molla del porre fine ai nazionalismi economici e politici, generatori di conflitti fatali, era una molla potente per conquistare consensi alla causa dell’unità europea. Ebbene, una molla non meno potente può essere oggi quella dello scongiurare il declino del nostro continente, di quel che esso ha rappresentato nella storia. L’Europa nel suo insieme è diventata più piccola rispetto ad altri continenti in termini di peso demografico, di potenza economica, di ruolo negli equilibri mondiali ; ma se saprà unire sempre di più le sue forze, potrà continuare a dare il suo apporto peculiare allo sviluppo storico e all’avvenire della civiltà mondiale.

La missione nuova ed esaltante dell’Europa unita è quella di far vivere, nel flusso di una globalizzazione che potrebbe sommergerci come nazioni europee, la nostra identità storica, il nostro inconfondibile retaggio culturale, il nostro esempio e modello di integrazione sovranazionale, di comunità di diritto, di economia sociale di mercato.

Perché questa missione sia condivisa dai popoli della nostra Unione e possa essere portata avanti con successo, occorre una più forte coesione politica europea, una più convinta e determinata leadership politica europea. Trent’anni fa, esattamente trent’anni fa, qui a Strasburgo – lasciate che lo ricordi – Altiero Spinelli riuscì a far esprimere al Parlamento europeo questa capacità di leadership con il progetto di Trattato che porta il suo nome. L’occasione non fu allora raccolta : ma la sua ispirazione costituzionale ha continuato a vivere e a contare. Anche perché la sua idea di Europa federale non aveva nulla a che fare con lo spauracchio agitato da varie parti di un super-Stato centralizzato. Molta strada dal 1984 ad oggi è stata dunque fatta. Ma restano da vincere ancora dure battaglie politiche, se non contro possibili ritorni di nazionalismi aggressivi, certamente contro persistenti egoismi e meschinità nazionali, contro ristrettezze di vedute, calcoli di convenienza e conservatorismi anacronistici, quotidianamente riscontrabili nelle classi dirigenti nazionali.

8. La “vista lunga” : una politica europea, uno spazio pubblico europeo

Manca oggi – ha di recente notato Helmut Schmidt – “la vista lunga” in troppi leader europei, per insufficiente consapevolezza del declino che minaccia l’Europa. I padri fondatori e costruttori dell’Europa comunitaria non erano solo “impregnati di sentimento tragico della storia”, erano in pari tempo portatori di un’audace e realistica visione del futuro. E questa può darla oggi, ovvero nei prossimi anni, solo una politica che si faccia finalmente europea. Mentre finora in un continente così interconnesso come il nostro, la politica è rimasta nazionale, con i suoi fatali limiti e con le sue diffuse degenerazioni.

Una politica europea, uno spazio pubblico europeo, dei partiti politici europei: che cos’è l’Unione politica di cui si parla, se non si fa vivere su scala europea il confronto politico democratico, la competizione tra le diverse correnti ideali e forze politiche organizzate ? E’ questo un grande salto in avanti da compiere e rispetto al quale molto hanno da dire il Parlamento e i parlamentari europei, in stretto raccordo con i Parlamenti e i parlamentari nazionali, per raggiungere le masse più larghe di cittadini, coinvolgendoli in una più informata e attiva partecipazione politica alla costruzione di un’Europa più unita, più democratica, più efficace.

In questo Parlamento opera già il nucleo originario e vitale dei partiti politici europei. E’ qui che si raccolgono le maggiori sensibilità e competenze su cui poter fondare un messaggio politico per il governo dell’Europa da condividere con i cittadini, al di là del linguaggio in codice e dei complessi tecnicismi delle istituzioni di governo dell’Unione. E’ nelle vostre mani, signor Presidente, signori deputati, per gran parte nelle vostre mani, il compito di far nascere e crescere la dimensione politica dell’integrazione europea, nella nuova fase di sviluppo che per essa si apre.

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Una scommessa non un azzardo di Raffaele Morese

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Niente di veramente nuovo sul fronte occidentale. Era già scritto nelle cose che, se la Fiat avesse acquisito il 100% del capitale della Chrysler, sarebbe iniziata una nuova storia dell’auto di matrice italiana. La fusione di due aziende della stazza della Fiat (115 anni di storia) e della Chrysler (90 anni) non può che far nascere una identità nuova. Che non riguarda soltanto il nome (non ancora deciso, mentre i marchi resteranno a quanto par di capire), né la sede non formale ma di comando (se la quotazione è a Wall Street, si può dire anche che ci saranno tanti quartier generali quanti presidi continentali avrà la nuova azienda, ma è negli Usa che si deciderà sempre di più), né il management (Marchionne è stato riconfermato per altri 3 anni).

Riguarderà fondamentalmente la qualità deI prodotto che offrirà sul mercato. La Fiat era l’auto che tutti potevano comprare, l’auto popolare. La Chrysler era l’auto della middle class americana. Ora, integrate, andranno sopratutto a caccia dei compratori benestanti di tutto il mondo. Anzi, per le produzioni che verranno fatte negli stabilimenti italiani, il profilo è ancora più raffinato. Ritorna in prima fila l’Alfa Romeo, vera novità della strategia aggressiva dell’ impresa globale, fino alla Maserati da 150.000 euro. La fascia “premium” diventa l’ossatura portante della sesta azienda del mondo. L’assalto al lusso crescente in tutto il mondo è la “scommessa” della coppia Elkann – Marchionne.

Scommessa, non azzardo. Per il semplice motivo che non solo la globalizzazione impone che la gamma bassa di produzione sia largamente acquisita dalle economie emergenti (non a caso sarà appannaggio degli stabilimenti brasiliani), dove i prezzi delle auto possono essere contenuti per tanti motivi ma soprattutto perché i volumi possono essere consistenti dato il livello di benessere da cui quei paesi partono, ma anche perché, nei paesi dalle economie mature, è possibile il mantenimento di standard di vita e di lavoro acquisiti, soltanto a condizione che il valore aggiunto di ciò che si produce sia elevato. Lo si capisce meglio se ci spostiamo a Nord Est, a Pordenone dove l’Unione industriale locale è giunta a proporre una riduzione del 20% dl costo dl lavoro (che include anche la paga) come condizione per tutelare i livelli occupazionali del territorio ed evitare una disastrosa deindustrializzazione, a partire dalla Elettrolux che ha shockato tutti con la richiesta di riduzione del 15% del salario dei lavoratori dei quattro stabilimenti italiani oltre allo stop ai premi, agli scatti d’anzianità, al pagamento delle festività.

Di questa scommessa, componente decisiva, oltre la qualità del prodotto, è l’organizzazione del lavoro, imperniata sul Wcm (World class manufacturing), un sistema di strutturazione degli impianti che supera la catena di montaggio, utilizza piattaforme tecnologiche d’avanguardia, coinvolge direttamente i lavoratori nella definizione ed implementazione del processo produttivo. L’accordo con il Veba Trust (fondo pensionistico e sanitario dei lavoratori del settore auto americano) esplicitamente afferma che “la Uaw assumerà alcuni impegni…..partecipando attivamente alle attività di benchmarking collegate all’implementazione di tali programmi in tutti gli stabilimenti Fiat-Chrysler al fine di garantire valutazioni obiettive della performance e la corretta applicazione dei principi del Wcm e a contribuire attivamente al raggiungimento del piano industriale di lungo termine del Gruppo”.

A questa prospettiva non si potranno sottrarre i lavoratori italiani e i loro sindacati. Quel “tutti gli stabilimenti” lo spiega senza mezzi termini. Non fosse altro, perché il Wcm è costoso, implica grossi investimenti e forte “governabilità” degli impianti. Ma se ce la fanno i lavoratori statunitensi, ce la potranno fare anche quelli italiani. Se rientreranno tutti dalla lunga cassa integrazione che stanno subendo. Il “se” è d’obbligo e forse a metà anno, quando Marchionne presenterà il piano prodotti, ne sapremo di più. Ma il sindacato è chiamato ad una sfida impegnativa e l’unico modo per testare la volontà reale della nuova azienda è quello di prepararsi alla gestione partecipativa di questa nuova stagione dell’industria automobilistica nel nostro Paese.

La partecipazione alle scelte strategiche diventa sempre più stringente. Dal reparto al vertice. Quindi riguarda tutti i protagonisti, a partire dall’azienda Investimenti altamente tecnologici, processi produttivi e commerciali integrati e coinvolgimento delle persone sembrano gli ingredienti decisivi per fare buone macchine e avere buoni salari. Ma la conoscenza e la condivisione diventano le chiavi di volta per massimizzare quegli ingredienti. L’azienda deve fare la sua parte; non basterà più un comunicato per esaurire il confronto e l’informazione. Il sindacato non può stare sulla soglia o addirittura fuori della stanza dei bottoni. Il sindacato americano ne ha fatto il centro della propria strategia di azione e di forza della propria autonomia. Non soffre di subalternità verso i nuovi proprietari. Lo stesso atteggiamento ci si aspetta dal sindacato italiano, anche dalle componenti che finora sono state più riottose a dare senso alla partecipazione. Anche per tutti loro è una scommessa, non un azzardo.

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Imprenditoria sociale: evento europeo a Strasburgo

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L’economia sociale costituisce un importante pilastro dell’economia europea, pari a circa il 10% del PIL. Oltre 11 milioni di lavoratori, ossia il 4,5% della popolazione attiva dell’UE, lavorano nell’economia sociale. Un’impresa su quattro tra quelle costituite ogni anno è un’impresa sociale, proporzione che sale a un’impresa su tre in Francia, Finlandia e Belgio.
Gli imprenditori sociali mirano a produrre un impatto sulla società e non unicamente a generare profitti per i proprietari e gli azionisti. Ad esempio, offrono posti di lavoro ai gruppi svantaggiati, favorendo la loro inclusione sociale e aumentando la solidarietà nel campo dell’economia ma devono tuttavia affrontare enormi sfide e condizioni di disparità nella concorrenza.
Questo è il motivo per cui il 16 e il 17 gennaio 2014 la Commissione europea, il Comitato economico e sociale europeo (CESE) e la città di Strasburgo hanno organizzato un grande evento interattivo europeo sull’imprenditoria e l’economia sociale. Questo evento di due giorni si è avvalso di un’impostazione basata sulla partecipazione e la collaborazione. I partecipanti stessi hanno scelto i temi da affrontare e identificheranno il cammino da seguire per il settore dell’imprenditoria sociale.
Antonio Tajani, Vicepresidente della Commissione europea e Commissario per l’Industria e l’imprenditoria, ha dichiarato: “Le imprese sociali aiutano l’UE a creare un’economia sociale di mercato altamente competitiva e rappresentano dei motori per la crescita sostenibile. Durante la crisi hanno dimostrato il loro valore dando prova di notevole resilienza. La loro capacità di creazione di posti di lavoro le rende ora più necessarie che mai.”

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Occupazione: la Commissione propone di migliorare EURES, la rete per la ricerca di lavoro

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Occorre rafforzare EURES, la rete paneuropea per la ricerca di lavoro, in applicazione di una proposta presentata recentemente dalla Commissione europea, onde migliorare l’offerta di lavoro, accrescere le possibilità di messa in contatto e corrispondenza delle offerte e delle domande di lavoro e aiutare i datori di lavoro, in particolare le piccole e medie imprese, ad assumere personale più competente e in tempi più brevi.
Una volta adottata dal Consiglio dei ministri dell’UE e dal Parlamento europeo, la proposta aiuterà i cittadini che si trasferiscono all’estero per motivi di lavoro ad operare una scelta più informata possibile. László Andor, commissario UE responsabile dell’occupazione, degli affari sociali e dell’inclusione ha dichiarato: “La proposta della Commissione costituisce un passo ambizioso per lottare concretamente contro la disoccupazione. Essa contribuirà a correggere gli squilibri dei mercati del lavoro incrementando al massimo lo scambio di offerte di lavoro disponibili in tutta l’UE e assicurando una maggiore corrispondenza tra offerte di lavoro e richiedenti lavoro. La nuova rete EURES faciliterà la mobilità lavorativa e contribuirà alla realizzazione di un mercato del lavoro dell’UE pienamente integrato”.
Le nuove norme proposte rafforzeranno l’efficacia di EURES, miglioreranno la trasparenza delle assunzioni e intensificheranno la cooperazione tra gli Stati membri.

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“Evangelii Gaudium” di Papa Francesco (stralci relativi all’economia)

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“ Alcune sfide del mondo attuale”

L’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi. Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione. Non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità. Questo cambiamento epocale è stato causato dai balzi enormi che, per qualità, quantità, velocità e accumulazione, si verificano nel progresso scientifico, nelle innovazioni tecnologiche e nelle loro rapide applicazioni in diversi ambiti della natura e della vita. Siamo nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso anonimo.

No a un’economia dell’esclusione

Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.

In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo.

No alla nuova idolatria del denaro

Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo pacificamente il suo predomino su di noi e sulle nostre società. La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr Es 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano. La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia manifesta i propri squilibri e, soprattutto, la grave mancanza di un orientamento antropologico che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo.

Mentre i guadagni di pochi crescono esponen-zialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i Paesi dalle possibilità praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto. A tutto ciò si aggiunge una corruzione ramificata e un’evasione fiscale egoista, che hanno assunto dimensioni mondiali. La brama del potere e dell’avere non conosce limiti. In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta.

No a un denaro che governa invece di servire

Dietro questo atteggiamento si nascondono il rifiuto dell’etica e il rifiuto di Dio. All’etica si guarda di solito con un certo disprezzo beffardo. La si considera controproducente, troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona. In definitiva, l’etica rimanda a un Dio che attende una risposta impegnativa, che si pone al di fuori delle categorie del mercato. Per queste, se assolutizzate, Dio è incontrollabile, non manipolabile, persino pericoloso, in quanto chiama l’essere umano alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da qualunque tipo di schiavitù. L’etica – un’etica non ideologizzata – consente di creare un equilibrio e un ordine sociale più umano. In tal senso, esorto gli esperti finanziari e i governanti dei vari Paesi a considerare le parole di un saggio dell’antichità: « Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro ».

Una riforma finanziaria che non ignori l’etica richiederebbe un vigoroso cambio di atteggiamento da parte dei dirigenti politici, che esorto ad affrontare questa sfida con determinazione e con lungimiranza, senza ignorare, naturalmente, la specificità di ogni contesto. Il denaro deve servire e non governare! Il Papa ama tutti, ricchi e poveri, ma ha l’obbligo, in nome di Cristo, di ricordare che i ricchi devono aiutare i poveri, rispettarli e promuoverli. Vi esorto alla solidarietà disinteressata e ad un ritorno dell’economia e della finanza ad un’etica in favore dell’essere umano.

No all’inequità che genera violenza

Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte. È il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore. Siamo lontani dalla cosiddetta “fine della storia”, giacché le condizioni di uno sviluppo sostenibile e pacifico non sono ancora adeguatamente impiantate e realizzate.

I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’inequità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti.”

“Economia e distribuzione delle entrate

La necessità di risolvere le cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per una esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali.La dignità di ogni persona umana e il bene comune sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la politica economica, ma a volte sembrano appendici aggiunte dall’esterno per completare un discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale. Quante parole sono diventate scomode per questo sistema! Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia. Altre volte accade che queste parole diventino oggetto di una manipolazione opportunista che le disonora. La comoda indifferenza di fronte a queste questioni svuota la nostra vita e le nostre parole di ogni significato. La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo.

Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo. Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi. Chiedo a Dio che cresca il numero di politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo! La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune. Dobbiamo convincerci che la carità « è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici ». Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri! È indispensabile che i governanti e il potere finanziario alzino lo sguardo e amplino le loro prospettive, che facciano in modo che ci sia un lavoro degno, istruzione e assistenza sanitaria per tutti i cittadini. E perché non ricorrere a Dio affinché ispiri i loro piani? Sono convinto che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale. L’economia, come indica la stessa parola, dovrebbe essere l’arte di raggiungere un’adeguata amministrazione della casa comune, che è il mondo intero. Ogni azione economica di una certa portata, messa in atto in una parte del pianeta, si ripercuote sul tutto; perciò nessun governo può agire al di fuori di una comune responsabilità. Di fatto, diventa sempre più difficile individuare soluzioni a livello locale per le enormi contraddizioni globali, per cui la politica locale si riempie di problemi da risolvere. Se realmente vogliamo raggiungere una sana economia mondiale, c’è bisogno in questa fase storica di un modo più efficiente di interazione che, fatta salva la sovranità delle nazioni, assicuri il benessere economico di tutti i Paesi e non solo di pochi.

Qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti.

Se qualcuno si sente offeso dalle mie parole, gli dico che le esprimo con affetto e con la migliore delle intenzioni, lontano da qualunque interesse personale o ideologia politica. La mia parola non è quella di un nemico né di un oppositore. Mi interessa unicamente fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità individualista, indifferente ed egoista, possano liberarsi da quelle indegne catene e raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra.

Avere cura della fragilità

Gesù, l’evangelizzatore per eccellenza e il Vangelo in persona, si identifica specialmente con i più piccoli (cfr Mt 25,40). Questo ci ricorda che tutti noi cristiani siamo chiamati a prenderci cura dei più fragili della Terra. Ma nel vigente modello “di successo” e “privatistico”, non sembra abbia senso investire affinché quelli che rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita.

È indispensabile prestare attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità in cui siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e immediati: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati, ecc. I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti. Perciò esorto i Paesi ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali. Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!

Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: « Dov’è tuo fratello? » (Gen 4,9). Dov’è il tuo fratello schiavo? Dov’è quello che stai uccidendo ogni giorno nella piccola fabbrica clandestina, nella rete della prostituzione, nei bambini che utilizzi per l’accattonaggio, in quello che deve lavorare di nascosto perché non è stato regolarizzato? Non facciamo finta di niente. Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti! Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta.

Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti. Tuttavia, anche tra di loro troviamo continuamente i più ammirevoli gesti di quotidiano eroismo nella difesa e nella cura della fragilità delle loro famiglie.

Tra questi deboli, di cui la Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo. Frequentemente, per ridicolizzare allegramente la difesa che la Chiesa fa delle vite dei nascituri, si fa in modo di presentare la sua posizione come qualcosa di ideologico, oscurantista e conservatore. Eppure questa difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo. È un fine in sé stesso e mai un mezzo per risolvere

altre difficoltà. Se cade questa convinzione, non rimangono solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero sempre soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno. La sola ragione è sufficiente per riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana, ma se la guardiamo anche a partire dalla fede, « ogni violazione della dignità personale dell’essere umano grida vendetta al cospetto di Dio e si configura come offesa al Creatore dell’uomo ».

Proprio perché è una questione che ha a che fare con la coerenza interna del nostro messaggio sul valore della persona umana, non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione su questa questione. Voglio essere del tutto onesto al riguardo. Questo non è un argomento soggetto a presunte riforme o a “modernizzazioni”. Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana. Però è anche vero che abbiamo fatto poco per accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie, particolarmente quando la vita che cresce in loro è sorta come conseguenza di una violenza o in un contesto di estrema povertà. Chi può non capire tali situazioni così dolorose? Ci sono altri esseri fragili e indifesi, che molte volte rimangono alla mercé degli interessi economici o di un uso indiscriminato. Mi riferisco all’insieme della creazione. Come esseri umani non siamo dei meri beneficiari, ma custodi delle altre creature. Mediante la nostra realtà corporea, Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione. Non lasciamo che al nostro passaggio rimangano segni di distruzione e di morte che colpiscono la nostra vita e quella delle future generazioni. In questo senso, faccio proprio il lamento bello e profetico che diversi anni fa hanno espresso i Vescovi delle Filippine: « Un’incredibile varietà d’insetti viveva nella selva ed erano impegnati con ogni sorta di compito proprio […] Gli uccelli volavano nell’aria, le loro brillanti piume e i loro differenti canti aggiungevano colore e melodie al verde dei boschi […] Dio ha voluto questa terra per noi, sue creature speciali, ma non perché potessimo distruggerla e trasformarla in un terreno desertico […] Dopo una sola notte di pioggia, guarda verso i fiumi marron-cioccolato dei tuoi paraggi, e ricorda che si portano via il sangue vivo della terra verso il mare […] Come potranno nuotare i pesci in fogne come il rio Pasig e tanti altri fiumi che abbiamo contaminato? Chi ha trasformato il meraviglioso mondo marino in cimiteri subacquei spogliati di vita e di colore? ».

Piccoli ma forti nell’amore di Dio, come san Francesco d’Assisi, tutti i cristiani siamo chiamati a prenderci cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo.

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Apprendistato in Europa: confronto tra Italia e Germania

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La riforma del mercato del lavoro del ministro Fornero, entrata in vigore nel luglio del 2012, ha rilanciato il contratto di apprendistato come canale privilegiato d’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. La scommessa è stata motivata dai successi conseguiti dalla Germania negli ultimi anni in termini occupazionali. Nel 2012 la Germania aveva, inf atti, il tasso più basso di disoccupazione per la f ascia d’età 15-24 anni (8,1 per cento contro il 35,3 per cento dell’Italia) e uno dei più bassi per quella compresa f ra i 25 e i 64 (5,2 per cento contro 9 per cento). Questi dati lusinghieri sono il f rutto di vari elementi, ma è indubbio che il contratto di apprendistato, che coinvolge annualmente più di 1,5 milioni di persone, svolga un ruolo di contenimento della disoccupazione tra i più giovani. Curare la patologia italiana con la medicina tedesca è parsa la strategia migliore. Tuttavia, le formule dell’apprendistato italiano e tedesco, pur presentando alcune somiglianze – comuni peraltro a molti paesi europei –, sono contraddistinte da marcate dif f erenze, alla luce delle quali temiamo che l’attuale rif orma da sola non basterà a rilanciare l’occupazione giovanile in Italia. (1)

 
I MODELLI DI APPRENDISTATO IN EUROPA
In tutti i principali paesi europei, l’apprendistato presenta tre caratteristiche f ondamentali. In primo luogo, la f inalità è l’acquisizione delle competenze necessarie all’esercizio di una prof essione mediante “trasf erimento di sapere prof essionale” da un lavoratore esperto a un giovane. In secondo luogo, l’acquisizione delle competenze avviene mediante alternanza f ra luoghi e modalità di apprendimento: la formazione erogata all’esterno dell’impresa (ad esempio scuole e istituti prof essionali) convive con quella fornita all’interno dell’azienda (alternanza di f ormazione on/off the job). Inf ine, l’apprendistato si conf igura come un vero e proprio contratto di lavoro. Ciò implica che l’apprendista percepisce un compenso e riceve una formazione calibrata sulle esigenze dell’azienda. Quest’ultima, dunque, alla f ine di un articolato
percorso di f ormazione pluriennale avrà, compatibilmente con le sue necessità, tutto l’interesse ad assumere l’apprendista.
 
DIFFERENZE TRA APPRENDISTATO TEDESCO E ITALIANO
In Germania vi è un solo tipo di apprendistato – alternanza scuola/lavoro – mentre in Italia ne esistono tre: (i) per la qualif ica e per il diploma prof essionale, (ii) professionalizzante o contratto di mestiere e (iii) di alta f ormazione e ricerca. Il primo tipo è simile all’apprendistato tedesco, gli ultimi due presentano tre rilevanti
differenze. La prima riguarda l’età degli apprendisti. In Germania, infatti, l’apprendistato si rivolge a studenti di età non inferiore ai 15 anni dei licei e degli istituti professionali. In Italia, invece, l’età dell’apprendista al momento della stipulazione del contratto deve essere compresa tra 15 e 25 anni nell’apprendistato per qualif ica e
diploma prof essionale e tra 18 e 29 in quello prof essionalizzante e di alta formazione. La seconda dif ferenza riguarda il livello di istruzione dei lavoratori. L’apprendistato tedesco si rivolge agli studenti della scuola secondaria e preclude l’accesso all’università: una volta conclusa l’esperienza di formazione/lavoro, inf atti, è possibile proseguire l’istruzione terziaria solo nelle Fachhochschule (scuole professionali avanzate), ma non nelle università. (2) In Italia, invece, gli apprendistati professionalizzante e di alta f ormazione possono interessare anche laureati e dottorandi, soggetti caratterizzati da un elevato livello di istruzione. La terza differenza, che consegue dalle prime due, riguarda il tipo di professionalità formate: in Germania interessa prevalentemente i lavori manuali mentre in Italia spazia da quelli manuali a quelli di concetto.
 
PUÒ RILANCIARE L’OCCUPAZIONE?
L’apprendistato è certamente utile se si vuole integrare in azienda la f ormazione teorica ricevuta da un giovane negli istituti scolastici, f acendogli acquisire le professionalità necessarie in vista di una potenziale assunzione. In Italia, l’istituto dell’apprendistato viene esteso, nella seconda e terza tipologia, anche a persone adulte e laureate, magari f ormate con percorsi scolastico-universitari, ma non qualif icate professionalmente. L’azienda, però, dovrebbe integrare – e non sostituire – la preparazione ricevuta nell’ambito del sistema scolastico-universitario. In altre parole, la f ormazione on the job dovrebbe focalizzarsi sugli aspetti pratici che non è possibile apprendere in aula. La necessità di ricorrere all’apprendistato per persone adulte, istruite ma non f ormate, è motivata anche dalla progressiva sparizione delle scuole professionali e dall’inadeguatezza del sistema universitario. Le imprese, pertanto, devono f arsi carico non solo del cosiddetto addestramento prof essionale, ovvero di
quelle abilità che consentono di mettere in pratica quanto appreso in via teorica nei percorsi di studio, ma nella predominanza dei casi devono costruire ex-novo competenze e sviluppare capacità che i percorsi scolastici e universitari trascurano. La situazione è vieppiù aggravata dalla totale assenza di orientamento durante gli studi. Occorre, quindi, anche ripensare il sistema educativo e dell’orientamento, lasciando alle imprese il compito di integrare quelle competenze che consentono poi la piena qualif ica prof essionale, anche ai f ini contrattuali, dei giovani apprendisti. Le economie avanzate, inoltre, da anni stanno orientando la produzione verso il terziario in cui il peso della manualità si sta progressivamente riducendo. Ciò induce a pensare che siano necessari (anche) altri strumenti di f ormazione e di raccordo tra sistema educativo e mondo del lavoro.
 
L’APPRENDISTATO ITALIANO TRA PASSATO, PRESENTE E FUTURO
È importante sottolineare che in Italia l’apprendistato ha scontato dieci anni di dif f icoltà applicative, f inalmente superate con il Testo unico del 2011, e dovute, da un lato, alla frammentazione delle normative regionali, dall’altro alla f ormazione ulteriormente teorica prevista nei percorsi pubblici, spesso standardizzati e inutilmente appesantiti da molte ore in aula senza un concreto valore aggiunto. La possibilità prevista ora per il cosiddetto apprendistato prof essionalizzante (il secondo tipo) di svolgere la formazione in azienda e il riconoscimento normativo ai contratti collettivi costituiscono elementi fondamentali per il rilancio dell’istituto. Occorre intervenire anche per l’apprendistato di primo tipo che sconta gli stessi vecchi problemi: disciplina diversa per ogni Regione, numero eccessivo di ore di f ormazione (400 all’anno) e costi ancora troppo elevati. Tutti aspetti che scoraggiano le imprese. La rif orma Fornero, purtroppo, invece di ridurre i costi dei contratti standard, ha incrementato quelli dei contratti flessibili e dello stesso contratto di apprendistato. Per ottenere risultati occupazionali signif icativi occorre, da un lato, perseguire con tenacia la strada della semplif icazione dell’apprendistato per tutte le tipologie e, dall’altro, af f iancarvi l’impegno alla riduzione degli eccessivi oneri burocratici e fiscali che ancora gravano sul lavoro. Il tutto senza perdere di vista l’obiettivo di una prof onda e condivisa rif orma del sistema educativo. 
 
(1) Per una trattazione approf ondita si legga la relazione dell’Isf ol (2011), “Modelli di apprendistato in
Europa: Francia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito”, scaricabile dal link
(2) Sperimentazioni sono in corso in alcuni Länder che hanno attivato modalità di raccordo
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Si sta avvicinando l’ora delle scelte prioritarie di Raffaele Morese

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Entro il mese di luglio, si saprà la verità sulle reali intenzioni della maggioranza che sostiene il Governo Letta. Dovrebbe scattare l’aumento dell’IVA, si saprà che soluzione verrà data all’IMU, vedremo cosa sarà proposto per l’occupazione giovanile. Anche altre questioni possono far vacillare la stabilità del Governo, come quella delle riforme istituzionali, ma lo scoglio più insidioso è quello economico e sociale. I dati sono sempre più allarmanti e lo scollamento sociale sempre più evidente. Tutto ciò rende urgente e vitale l’iniziativa del Governo. La quale non è facilitata dalla situazione finanziaria. Sarebbe bello, come suggerisce Brunetta, che l’Europa ci riconoscesse un extra bilancio pari alle perdite subite dal terremoto in Emilia; circa una ventina di miliardi euro, che aggiunto agli 8/ 10 miliardi attivabili per la fine della procedura di infrazione, metterebbe il Governo nelle condizioni di soddisfare al meglio le tre questioni sopra indicate.

Ma su questo terreno, nulla si può dare per scontato. Per i criteri che utilizza la Commissione europea, sarebbe un’innovazione di assoluta novità. Letta potrà mettercela tutta nel sostenere la richiesta, ma la strada è tutta in salita. Resta il fatto che, comunque, bisognerà dare un ordine di priorità a quelle tre questioni e tutti hanno capito che, per ora, nel Governo questa gerarchizzazione non ancora è stata definita. Sono assunte tutte come priorità, anche se Letta non perde occasione per assicurare all’occupazione giovanile il primo posto. E questa primazia dipende da due direzioni d’intervento: favorire investimenti privati e pubblici e ridurre il cuneo fiscale sul lavoro, a partire da quello per i giovani. Circa i primi, la dimensione delle risorse è ovviamente importante, ma più rilevanti – specie per gli interventi che dipendono dal pubblico – sono i tempi di avvio e di attuazione delle iniziative (ciò apre il capitolo delle procedure e delle condizioni di realizzazione, compresi gli accordi sindacali conseguenti) e la lotta alla corruzione (basta leggere Gratteri e Saviano per capire come bisogna agire).

Quanto all’occupazione giovanile, non c’è bacchetta magica che possa moltiplicare i posti di lavoro, soprattutto nel breve periodo, con domanda interna bassa e trend dell’export in rallentamento per via dell’austerità europea. La via è una sola: ripartire il lavoro che c’è. A questo riguardo, bisognerebbe aprire una parentesi sulle responsabilità delle parti sociali, come sollecita anche il Governatore della Banca d’Italia nelle sue Considerazioni finali alla recente Assemblea annuale. Spetta soltanto a loro decidere se, in una fase drammatica come questa, sia pure per un arco di tempo breve, bisogna accordarsi, settore per settore, per una generalizzata riduzione dell’orario di lavoro annuale, oppure lasciare le cose come sono attualmente. Ma tutto ciò non esclude un ruolo del Governo che – se vuole perseguire un’efficace risultato – non deve disperdere le risorse in mille rivoli, ma concentrarle in tre direttrici: contratti di solidarietà per ridurre l’area delle tutele passive, la staffetta generazionale per combinare un’uscita soft dal mondo del lavoro per gli anziani e un’entrata graduale per i giovani, ma soprattutto contratti part-time per gli under 30 anni, con contributi previdenziali totalmente fiscalizzati per 3 anni e 5 anni, se nel Mezzogiorno.

Ci vogliono molti soldi per rendere credibili queste misure. All’incirca 1,5 miliardi di euro all’anno per realizzare diffusi contratti di solidarietà (ora sono appostati 50 milioni, una miseria), efficaci staffette generazionali (dipende da come vengono impostate) e l’avvio di almeno 200000 giovani al part-time (vedere proposta su news letter n. 95). Il vantaggio di queste misure è che non hanno bisogno di una governance barocca e quindi potranno essere attivate con tempestività. Inoltre, non implicano la riapertura della discussione sulle regole del mercato del lavoro perché, come l’esperienza insegna, si sa quando si parte e non si sa quando si arriva e in particolare come.

Se questa è la priorità vera, le altre questioni avranno bisogno di un ridimensionamento, che non potrà che essere a geometria variabile. L’IVA sarebbe meglio che non aumentasse. I consumi sono così bassi che deprimerli ulteriormente significherebbe mettere nel conto un’ulteriore riduzione dell’occupazione e delle aziende che producono soprattutto per il mercato interno. O si trovano spese contraibili pari almeno ad una parte del valore dell’incremento di un punto della tassa o bisognerà limare parecchio le aspettative, alimentate a fini elettorali, sull’eliminazione dell’IMU. Però, l’impatto della riconferma dell’IMU – sia pure con soluzioni tecniche che modulino la tassazione in modo più egualitario e che tutelino i proprietari di un’unica casa -, potrebbe essere attenuato dall’introduzione dello sgravio dell’IVA su tutte le spese di manutenzione ordinarie e non solo straordinarie (come da ultimo provvedimento sulle ristrutturazioni). Avviare una pratica concreta del conflitto di interesse tra proprietario e imprese o artigiani edili, meccanici, elettrici ecc. potrebbe giovare anche al grande tema dell’evasione fiscale.

Una impostazione di questo genere punta alla quadratura del cerchio; non avrebbe nessun sapore di demagogia, ma mostrerebbe una logica orientata decisamente allo sviluppo e favorirebbe un clima costruttivo che, allo stato, è poco presente nella società. Certo, non tutti sarebbero accontentati, parecchi sarebbero costretti a prendere atto della realtà, ma la maggior parte degli italiani capirebbe che il senso di marcia è finalizzato con determinazione. Soltanto il lavoro assicura dignità e quindi è da lì che occorre ripartire per recuperare quello che si è perso in questi anni di indecisioni, di errori, di sventatezza, di cinismo. E’ inutile individuare tutte le volte le responsabilità. Basti avere sempre presente che chi ha governato negli anni passati, ne ha più di tutti gli altri. Ora, per guardare avanti serve una prospettiva chiara e impegnativa. Se si riesce a dare questo segnale, gran parte della società, specie quella produttiva, si muoverà nella stessa direzione.

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Costruire un tetto alla retribuzione dei manager

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Dopo anni di polemiche e di convegni, di richiami all’ordine da parte di Bankitalia e alla responsabilità da parte dell’Abi, Fiba e Cisl passano ai fatti e fanno un deciso passo avanti nella battaglia per limitare gli stipendi dei manager.

La crisi finanziaria – una crisi grave, ampia, che ha colpito l’economia globale in modo differenziato per i diversi paesi e aree del mondo e con effetti certamente duraturi nel tempo – ha fatto emergere notevoli problemi nel funzionamento, nella regolamentazione e nella supervisione dei mercati finanziari. La crisi ha anche evidenziato come le remunerazioni elevate dei “Top Manager”, che ha un forte potere di governo dell’impresa, incoraggino l’assunzione di rischi eccessivi per il sistema stesso e che non sempre siano erogate a fronte di “creazione di valore”. Il “Top Manager” tra stock option, stipendi e bonus vari, percepisce una retribuzione in misura fissa ed un compenso variabile che dovrebbe essere legato ai risultati positivi e all’andamento dei titoli ma che spesso finisce con il prescindere dai risultati stessi. Dinamiche incongruenti peraltro presenti in tutto il sistema privato e non solo in quello finanziario.

Sul tema di recente si è espressa anche la Commissione Europea e si dovrà esprimere a breve il Parlamento Europeo; si sono espressi da poco i cittadini elvetici, con un referendum apposito. Il Governo italiano é intervenuto attraverso il decreto “Salva Italia”, limitando la retribuzione dei manager del settore pubblico ad un massimo di €.294.000,00 annue. La Banca d’Italia da tempo richiama ad una sana e prudente gestione delle politiche di remunerazione, e gli strumenti normativi e regolamentari sono sempre più incisivi. La Vigilanza ha preso recenti provvedimenti in materia, anche assieme alla Consob. Ad oggi vi è l’obbligo di portare all’assemblea dei soci un documento riguardante le politiche di remunerazione, con un dettaglio dei compensi erogati ad Amministratori e Direttori. Come recita la regolamentazione stessa, il suo “obiettivo è pervenire – nell’interesse di tutti gli stakeholders – a sistemi di remunerazione, in linea con le strategie e gli obiettivi aziendali di lungo periodo, collegati con i risultati aziendali, opportunamente corretti per tener conto di tutti i rischi, coerenti con i livelli di capitale e di liquidità necessari a fronteggiare le attività intraprese e, in ogni caso, tali da evitare incentivi distorti che possano indurre a violazioni normative o ad un’eccessiva assunzione di rischi per la banca e il sistema nel suo complesso.”

In questo contesto lo scorso 29 maggio la Cisl e la Fiba (primi firmatari i segretari generali, Raffaele Bonanni e Giulio Romani) hanno depositato in Cassazione la proposta di legge di iniziativa popolare che pone un tetto alle retribuzioni dei top manager. Vi sono ragioni di giustizia e di equità. La crisi sta costando molto ai lavoratori, sia in termini di retribuzione che di disoccupazione, e non può più essere tollerata una sperequazione come quella che vede protagonisti amministratori, top manager delle aziende di credito e non solo, che percepiscono retribuzioni straordinariamente superiori a quelle dei lavoratori dipendenti con differenziali per altro non giustificati dall’andamento delle aziende.

Infatti, abbiamo calcolato che nel 2012 i direttori e gli amministratori delegati dei principali gruppi bancari e assicurativi hanno incassato, in media, retribuzioni di circa 42 volte superiori alla retribuzione media contrattuale prevista nei rispettivi contratti di lavoro, con punte di ben 108 volte. Sempre nel 2012 i presidenti degli stessi gruppi hanno ricevuto emolumenti per un multiplo di 23 volte, con punte di 48. Riteniamo che il tetto corretto sia quello già fissato dalla legge per i manager pubblici e che i sistemi incentivanti non possano superare il rapporto 1 a 1, che è quello già dettato dall’Europa.

In sintesi il progetto di legge prevede per la retribuzione il limite massimo di 294mila euro annui, con progressione annuale pari all’aumento dell’indice del costo della vita determinato dall’Istat; per bonus, incentivi, stock options e compensi equity il limite massimo di 294mila euro (importo pari alla retribuzione fissa) che compensa qualsivoglia bonus. Tale remunerazione è giustificata però solo in presenza di risultati estremamente positivi ed è correlata all’entità del patrimonio aziendale sia in volume di affari gestiti che in numero di lavoratori dipendenti.

Si prevede inoltre l’abolizione dei bonus all’uscita e tutte le altre forme di indennità, retribuzioni anticipate, premi per acquisizioni e vendite, nonché di contratti di consulenza con società appartenenti al gruppo per il quale si svolge la prestazione. Infine, la normativa prevede che la liquidazione per la cessazione del rapporto di lavoro sia commisurata esclusivamente alla sua durata e sia proporzionale al limite massimo della retribuzione fissa annuale.

Il controllo, per quanto attiene l’entità dei bonus, premi ed incentivi è riservato agli azionisti che, in assemblea generale per l’approvazione dei bilanci annuali, ne delibereranno a maggioranza dei partecipanti l’ammontare globale sulla base dei piani triennali di sviluppo da presentarsi dai vertici aziendali, con la previsione della progressione annuale. Per il caso di apprestamento e o esecuzione di piani di ristrutturazione aziendale, l’entità dei bonus annuali sarà ragguagliata ai posti di lavoro salvati e non tagliati.

Una legge per l’equità e la giustizia, ma non solo. Con questa legge, i dirigenti delle banche, che oggi preferiscono puntare sul trading perché dà maggiori surplus che si riflettono sui loro stipendi, saranno spinti a tornare verso la funzione commerciale. Fissando un tetto ai compensi spingeremo le banche ad erogare credito per la famiglie e le imprese. Una legge, dunque, che può contribuire alla riforma della finanza e dei mercati finanziari.

Ora parte la raccolta delle firme. La Fiba mobiliterà tutte le sue strutture regionali e provinciali in modo da predisporre ovunque assemblee e punti di raccolta, con gazebo e banchetti, per la promozione e l’adesione all’iniziativa. L’obiettivo è quello di superare le 50mila firme, da raccogliere entro 6 mesi, necessarie per presentare la legge in Parlamento.
Giulio Romani

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