Ristoranti e grande distribuzione. Il rischio di non reggere decisioni affrettate

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Per chi come me ha passato tutta la sua vita professionale in aziende industriali  della filiera agroalimentare e almeno 20 anni nella grande distribuzione e nella rappresentanza di categoria del commercio “prendere parte”, condividere,  solidarizzare, non significa, almeno nelle intenzioni, temere di trovarsi in un conflitto di interesse. Non avendo interessi personali da difendere, non ho conflitti. Semmai opinioni. Condivisibili o meno.

Per questo trovo assolutamente corretto il comunicato congiunto di Cncc, Confcommercio Lombardia, Confimprese, Federdistribuzione e  Fipe, che critica fortemente il provvedimento che prevede la chiusura nei fine settimana degli spazi della media e grande distribuzione non alimentare, tra cui i centri commerciali, e che impone la chiusura anticipata alle 23 dei pubblici esercizi (https://bit.ly/37qcw6c). Personalmente credo abbiano ragione.

Trovo la decisione  inutile, poco ponderata e quindi molto pericolosa. Una pezza, come si usa dire,  peggio del buco creato dalla pandemia. La seconda ondata sta indubbiamente rischiando di provocare pesanti conseguenze. La paura di perdere il controllo della situazione è forte. Ma le conseguenze non possono essere decisioni contraddittorie scaricate su alcune categorie. Il diritto alla salute e il diritto di non trovarsi soli con il proprio problema dopo una vita di sacrifici e quando si hanno pesanti responsabilità sull’occupazione gestita deve però trovare un equilibrio accettabile. Altrimenti salta tutto. C’è una rabbia montante che ad un certo punto esploderà: i segnali ci sono tutti.

Aggiungo al comunicato che sottoscrivo, due considerazioni. Nel dibattito politico si sta affermando sempre di più un pensiero pericoloso secondo il quale si può vietare tutto ciò che non è ritenuto necessario. Quindi non si vietano  solo i comportamenti che non vanno bene e che però non vengono sanzionati come dovrebbero.  Si va ben oltre quando si decide in base a criteri che non hanno alcun riferimento oggettivo che esistono attività superflue o addirittura dannose. Nei luoghi e nei contenuti.  E in base a questa considerazione si decide ciò che è necessario e quello che non lo è. Oggi sembra facile. Si chiude ciò che non si riesce a controllare indipendentemente dalle conseguenze economiche che questo potrebbe creare.

Da una parte i generi alimentari e dall’altra il resto. Da qui i giorni della settimana o i periodi dell’anno ritenuti superficialmente idonei alla chiusura. Quelli buoni per farci la spesa e quelli no. E pretendere di calarli dall’alto. È chiaro a tutti che tra una sciarpa e il pane quotidiano non c’è partita. Però questa alternativa non riguarda la produzione ma solo i luoghi del consumo. C’è quindi chi  pretende di stabilire una gerarchia. Si può produrre tutto ma non si può vendere. O si può stabilire che in uno stesso luogo di vendita solo alcuni prodotti possono essere venduti.

Non importa se i contagi nella prima ondata hanno riguardato più logistica e centri di lavorazione della carne, per fare due esempi concreti, rispetto alla grande distribuzione. C’è però  qualcuno che pensa di poter decidere cosa è superfluo e ciò che è necessario alterando l’equilibrio economico di chi deve gestirne le conseguenze in termini di giorni e orari di apertura, di disagi creati ai clienti, di prodotti da vendere e di costi relativi. C’è in tutto questo un pensiero negativo, un retropensiero, un giudizio che prescinde la situazione. E questo non è accettabile. 

Si possono riempire gli autobus negli orari di punta, annunciare che tutto ciò non ha alcuna conseguenza sul contagio e contemporaneamente non considerare e omettere che nella grande distribuzione in tutto il periodo del lockdown, grazie all’impegno delle aziende e dei lavoratori addetti,  i contagi sono stati insignificanti.

Aggiungo che quando si declina con troppa leggerezza ciò che è superfluo e ciò che non lo è, si fa in fretta ad arrivare alla “tessera annonaria”. Quel documento personale che definiva la quantità di merci e di generi alimentari razionati acquistabili in un determinato lasso di tempo introdotta durante la Seconda Guerra Mondiale. Pur in un contesto di disponibilità di merce completamente diverso. 

Mutande e abiti quindi non è necessario acquistarli nel WE. Maionese e merendine, per citarne due a caso, si. Per ora. I centri commerciali si possono aprire In Lombardia durante il week end però solo per gli alimentari. Come se fosse una cosa fattibile e senza conseguenze.  Gli investimenti fatti da bar, ristoranti, grande distribuzione per rendere i loro  luoghi idonei, controllati ed equilibrati sul piano economico si possono dunque gettare dalla finestra.

Anziché intensificare verifiche, strumenti e controlli si scaricano le conseguenze sui gestori. I danni previsti sono facilmente calcolabili (https://bit.ly/2Hlg52V). Non è accettabile.

Un altro aspetto insopportabile per chi sta perdendo il lavoro o lo vede mettere in crisi  è ascoltare tutti i giorni sui media i cosiddetti “garantiti” proporre i divieti più drastici come se piovesse. Pensionati, politici, giornalisti, professori, dipendenti pubblici e privati,  ecc. che ad oggi non ci hanno rimesso ancora nulla pretendono di spiegare a chi deve fare i salti mortali per sopravvivere l’ineluttabilità della situazione.

E ne parlano come se la pandemia e la sue conseguenze non fossero un problema di vita o di morte per molte attività economiche. Non è così. I buoni consigli e le reazioni  sarebbero altrettanto scontati se accompagnati dall’annuncio di contributi equivalenti a carico di tutti i cosiddetti “garantiti”? Indicare delle scorciatoie per cavalcare la paura del futuro prossimo  non è accettabile. E non è giusto.

Chiudere gli esercizi commerciali, circoscriverne le attività, scaricare su di loro le responsabilità di una realtà di cui non hanno alcuna responsabilità senza un confronto con i diretti interessati attraverso le loro rappresentanze è un errore che rischia di essere pagato molto caro.

Tutti questi mesi non possono essere passati invano. Né pensare che il problema sia circoscrivibile agli indennizzi. In alcuni sottosettori  tra l’altro sono difficilmente praticabili o inutili. L’impressione che le decisioni siano prese senza una coerenza complessiva è molto forte. Così non va. 

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3 risposte a “Ristoranti e grande distribuzione. Il rischio di non reggere decisioni affrettate”

  1. Condivido pienamente i contenuti dell’articolo. Aggiungerei un punto fondamentale che riguarda la concorrenza on line, in particolare Amazon, che trarrà enormi benefici e guadagni da questi provvedimenti come già accaduto in primavera.
    E lo Stato si fa un doppio autogol anche considerando quanto e come Amazon paga le tasse nel nostro paese…

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